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'Se un uomo non ha il coraggio di difendere le proprie idee, o non valgono nulla le idee o non vale nulla l'uomo' (Ezra W.Pound)

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quando

Bologna. Stazione Centrale: 44 anni dopo la strage, adoperarsi per far piena luce: se non ora, quando?!

Contro chi ha commesso stragi, pagato ancora non ha...” (I Nomadi. “Contro”).

La strage di Bologna: perché non bisogna dimenticare.

Il 2 agosto 1980, alle ore 10.25, nella sala d’aspetto della stazione di Bologna Centrale, esplode un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata, uccidendo 85 persone e ferendone oltre 200.

L’attentato, di matrice fascista, è uno degli atti terroristici più gravi del secondo dopoguerra; la vicenda processuale è nota a tutti.

Si riportano gli ultimi eventi. Nel quarto processo ‘l11 febbraio 2020 la Procura Generale della Repubblica di Bologna ha chiuso la nuova inchiesta sulla strage contro i presunti mandanti e finanziatori, notificando quattro avvisi di conclusione indagine a: Paolo Bellini, ex Avanguardia Nazionale, ritenuto l’esecutore, avrebbe agito in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi oltre agli ex NAR già condannati.

15 febbraio 2021 il Giudice per l’udienza preliminare Alberto Gamberini rinvia a giudizio Bellini con l’accusa di strage, Piergiorgio Segatel per depistaggio e Domenico Catracchia per false informazioni al pubblico ministero.

Il 6 aprile 2022 la Corte d’assise di Bologna dichiara Bellini colpevole del reato di strage e lo condanna alla pena dell’ergastolo, condannando inoltre Segatel a sei anni di reclusione e Catracchia a quattro. Le sentenze sono confermate dalla Corte d’assise d’appello l’8 luglio 2024.

Ma ancora non è stata fatta luce completa. Nel 2020, in occasione del 40º anniversario, dell’attentato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha reso omaggio alle vittime deponendo una corona di fiori nei pressi della lapide posta all’interno della stazione ferroviaria di Bologna. Poi sembra di nuovo calato il buio.

I media, le tv di Stato, i giornali non danno più la giusta rilevanza a questo attentati terroristico che è diventato l’emblema di tutti quelli compiuti negli anni di piombo.

Non è dimenticando che si risolve il problema. Anzi.

Quello che apprendiamo dalle inchieste giornalistiche indipendenti e ciò che vediamo sta succedendo intorno a noi, in Europa e non solo, deve invece far riflettere la società perché non sono gli estremismi che risolvono i problemi ma creano disagi spesso gravissimi o definitivi alle persone innocenti creando un clima di paura che danneggia inesorabilmente il bene comune.

(Michele Russo – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web© Diritti riservati all’autore)

Ischia. ‘Quando le donne non si arrendono’: presentato il nuovo romanzo di Yvonne Carbonaro

E’ stato presentato presso la Biblioteca Antoniana di Ischia il nuovo romanzo di Yvonne Carbonaro intitolato «Quando le donne non si arrendono».

Un volume la cui bozza era stata letta da Dacia Maraini che lo aveva molto apprezzato sostenendo che la saga familiare proposta era popolata di tanti personaggi originali e attraenti e che il racconto era stato condotto con passione e ironia.

La presentazione, avvenuta a cura della direttrice della Biblioteca Antoniana Lucia Annicelli e del noto giornalista e scrittore Ciro Cenatiempo, nonostante il caldo torrido, ha visto la presenza in sala di tantissime persone.

Il romanzo si snoda attraverso una saga, che la protagonista Luisa ricostruisce ripercorrendo ricordi e racconti di famiglia e disegna il declino delle fortune di una famiglia benestante legato al declino delle fortune del Meridione dopo l’Unità d’Italia, e sulle riflessioni che ne derivano.

Evidenzia la resistenza e il coraggio di far fronte alle avversità, pur con scarse risorse, da parte di una dinastia di donne intelligenti e risolute, rimaste da sole, generazione dietro generazione, per l’accanirsi di eventi storici e familiari.

Emergono ritratti femminili, delineati nelle specifiche peculiarità in ciascuna, con pregi e difetti, e nella capacità di perseverare pur tra gravi difficoltà.

Dal confronto tra quei vissuti e il vissuto di Luisa, si evince come i comportamenti siano legati al mutare dei tempi e delle circostanze socio-politiche e dallo stato della condizione femminile vigenti nel momento storico di cui ognuna è parte.

La narrazione, con una scrittura leggera ma emotivamente intensa, restituisce i ritmi della vita del passato e le abitudini di un ambito agricolo meridionale, strettamente collegate alle condizioni economiche.

Riporta alla saggezza antica di una volta e ne ricostruisce l’atmosfera con toni pacatamente elegiaci e insieme garbatamente ironici.

Il riferimento alle graduali trasformazioni dovute allo scorrere del tempo sottolinea il passaggio dalla crisi di un mondo destinato inesorabilmente a scomparire, alla maturazione di un diverso concetto del vivere, del costume e soprattutto di una vera parità di genere che tarda a realizzarsi.

Si tratta di un romanzo illustrato, alla maniera di Umberto Eco in “La meravigliosa fiamma della regina Loana”.

Si compone di 367 pagine con Albero Genealogico e Indice e si legge con interesse crescente man mano che si ci addentra nelle vicende dei personaggi.

Al termine della presentazione abbiamo chiesto alla dottoressa Lucia Annicelli seconde lei quale fosse il messaggio che l’autrice ha voluto lanciare attraverso questo libro.

Senz’altro – ha dichiarato la Annicelli – già il titolo lo annuncia, ‘quando le donne non si arrendono’. La forza, la capacità delle donne a sapersi rialzare, di saper ricostruire nonostante le difficoltà.

Saper essere un punto di riferimento non solo familiare ma anche sociale. In effetti il romanzo ha una straordinaria capacità che è quella di trasportarci non soltanto nella vicenda del singolo ma di saper raccontare, attraverso quella microstoria, la storia di tantissime donne che sono state determinanti per la storia del nostro Paese e nello specifico del sud Italia”.

Per video servizio della presentazione, cliccare su uuna delle foto oppure sul seguente link:

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(Gennaro Savio – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

Caserta. Via Gemito, villetta da riqualificare; Del Rosso interroga: ‘quando l’affidamento e l’inizio dei lavori’?

Il 20 dicembre 2022, la Giunta comunale casertana approvava i “lavori di miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale e ambientale della villetta in via Gemito”, il progetto rientrava tra l’elenco dei progetti beneficiari del PNRR.

Le procedure di affidamento per l’appalto dei lavori dovevano avvenire entro il 31 dicembre 2022.

Il 17 gennaio 2023 l’Assessore ai LL.PP., Massimiliano Marzo, dichiarava alla stampa che “la villetta di via Gemito rappresenta uno spazio verde importante per la città di Caserta e un luogo storico di aggregazione giovanile (…)”.
A oggi, giugno 2024, la villetta e relativa importanza sociale, tanto decantata sia dal Sindaco che dall’Assessore, non ha ancora visto nemmeno l’inizio delle procedure per i lavori di riqualificazione.

Il gruppo Lega in seno al Consiglio Comunale, Maurizio Del Rosso (nella foto), Alessio Dello Stritto, Fabio Schiavo e Elio di Caprio, insieme a Fabio Maietta, del direttivo Lega Caserta, redattore dell’interrogazione, hanno dunque depositato una richiesta di chiarimenti circa  la presunta data di affidamento e inizio dei lavori.

La Villetta di via Gemito versa in un totale stato di abbandono e degrado, sepolta da selve di sterpaglie incolte pericolose per la sicurezza e l’igiene pubblica, quanto ancora c’è da aspettare. Il miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale e ambientale della villetta in via Gemito è una necessità”, hanno dichiarato i firmatari dell’interrogazione.
(Salvatore Candalino – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

Caserta. ‘Quando la Mamma non c’è’: domenica al Bosco di S. Silvestro Festa speciale della Mamma

La Mansarda – Teatro dell’Orco, Compagnia di Teatro per le Nuove Generazioni, presenta: “Quando la Mamma non c’è: Speciale Festa della Mamma: Laboratori creativi e Spettacolo Itinerante nell’Oasi Bosco di San Silvestro, San Leucio, Caserta, domenica 12 Maggio 2024, dalle ore 10.30, Oasi  Bosco San Silvestro, S.Leucio –Caserta.
Domenica 12 maggio 2024, con inizio alle ore 11.00, festeggiamo insieme la Festa della Mamma al Bosco di San Silvestro con il nuovo evento “Quando la Mamma non c’è…” .
Di che cosa si tratta? Avete notato che nelle fiabe la figura della Mamma è sempre assente e perché? Semplice!
Quando c’è la Mamma  ai bambini non può capitare nulla di male. Per fortuna, però, ad aiutare i nostri piccoli  arrivano eroi positivi come fate madrine o animali magici e tanti altri personaggi, proprio perché della Mamma non possiamo fare a meno.
Un’occasione per manifestare l’affetto e l’amore nei suoi confronti in maniera diversa  con l’evento “Quando la  Mamma non c’è …” al Bosco di San Silvestro.
Vi aspettiamo e non dimenticate di prenotare.
Domenica 12 maggio 2024, arrivo Oasi ore 10.30, inizio Evento “Quando la Mamma non c’è…”: ore 11.00.
COSTI: Adulti e bambini (dai 3 anni in su) € 10,00: Gratuito per i bimbi minori di anni 3
Informazioni e prenotazioni obbligatorie: tel. 3398085602  – 3498466500.
(Salvatore Candalino – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

Donazione organi. La storia di Giordano e della mamma Annalisa: “Quando hai un cuore nuovo lo devi custodire”

Il 20 aprile Giordano compirà 5 anni grazie ad un trapianto di cuore a Torino che gli ha salvato la vita. “Abbiamo rischiato di perderlo” ci racconta la mamma, Annalisa Margarino, insegnante genovese che da otto mesi vive con Giordano all’ospedale Regina Margherita del capoluogo piemontese. “In questi otto mesi ho imparato di più che in dieci anni di vita”, ci confida in occasione della Giornata nazionale per la donazione degli organi che quest’anno ricorre domenica 14 aprile. Nelle sue parole il timore di perdere Giordano, la sofferenza e l’attesa condivisa con le altre mamme, la gratitudine a medici e infermieri, e la commozione riconoscente nei confronti dei genitori che hanno avuto la forza di trasformare il dolore lancinante della perdita di un figlio in un dono di vita per altri bambini. Giordano in questi giorni è di nuovo al Regina Margherita perché ha avuto due infezioni, “cose che capitano ai trapiantati; nulla di allarmante ma va seguito perché essendo immunodepresso potrebbe rischiare molto”, ci dice la mamma e aggiunge sorridendo:

“Quando hai un cuore nuovo lo devi custodire”.

Annalisa, che cosa è successo?
Lo scorso luglio eravamo in vacanza come ogni estate a Camaldoli: Giordano, il fratellino più grande, Gioele, di quasi 8 anni, mio marito ed io. Era il 26, giorno del mio onomastico, non lo dimenticherò mai. Giordano ha iniziato a sentirsi male. All’inizio pensavamo a un’influenza o a un’infezione virale e, pur essendo in contatto costante con la nostra pediatra, eravamo relativamente tranquilli. Ad un certo punto, però, ha smesso di essere reattivo. Le dottoresse di turno nel Pronto soccorso di Arezzo hanno intuito che c’era qualcosa di più serio di una gastroenterite virale ed hanno avvisato il primario, in quel momento non in servizio, che, rientrato, ha avuto la lucidità di fargli un ecocardio dal quale è emersa una cardiomiopatia dilatativa. Allertato il Meyer di Firenze, lo hanno ricoverato in Terapia intensiva. Siamo stati sostenuti dalle psicologhe perché

i medici, molto espliciti, ci dissero che era in fin di vita e avrebbe potuto morire.

Non essendoci Cardiochirurgia al Meyer, è stato trasferito a Massa, sempre in Terapia intensiva, dove ci hanno detto che avrebbe avuto bisogno di un trapianto di cuore e lo hanno attaccato all’Ecmo (Ossigenazione extracorporea a membrana), un macchinario per far ripartire il battito. Di qui la corsa in elicottero a Torino, Giordano ed io, mentre mio marito ci seguiva in auto, fino al Regina Margherita.

Immagino la vostra preoccupazione, il cuore in gola…
La consapevolezza arriva dopo, ma ricorderò quel volo tutta la vita, anche perché Giordano è arrivato a Torino con un colorito terreo, davvero in fin di vita. È stato un mese in terapia intensiva con l’Ecmo. Dopo i primi tempi in cui facevamo avanti indietro dall’astigiano dove abbiamo una casa, abbiamo avuto un appoggio a Torino. Dalla sua miocardite da infezione virale si è lentamente ripreso anche se ho visto tanti bambini che purtroppo non ce l’hanno fatta (e qui si la voce si incrina…). Dopo il miglioramento, all’improvviso, una notte, un nuovo crollo che lo ha riportato, spaventatissimo, in Terapia intensiva.

Da mamma, che cosa ha provato?
Mi ha colpito che lui, nel periodo del miglioramento prima della nuova crisi, ci dicesse che era felice di essere vivo. Come può un bimbo di quattro anni e mezzo avere questa consapevolezza Noi eravamo disperati ma abbiamo scelto di affidarlo alla preghiera di amici e parenti, e il sapere che c’era una rete di preghiera è la cosa che ci ha dato più forza, quello che ci ha sostenuto dall’inizio di questo percorso fino al trapianto. Ora Giordano sta bene, ma la situazione è molto delicata: quando si sostituisce un pezzo, cioè il cuore, bisogna custodirlo. E’ un dono grande e prezioso e stiamo insegnando a Giordano a prendersene cura.

Come è cambiata la vostra vita
C’è stata una rivoluzione di prospettiva, sono cambiate urgenze e priorità. E poi la necessità di occuparsi anche di Gioele, non ha neppure otto anni e anche lui ha bisogno di affetto e attenzioni. Lo abbiamo informato delle condizioni di Giordano scegliendo le parole adatte, ma senza nascondergli la gravità della situazione. Per molto tempo non ha visto il fratellino ed ha avuto paura che non ci fosse più, vedendolo dormire temeva fosse morto. Ora anche Giordano tenta di capire a modo suo che cosa gli sia successo; si guarda le cicatrici sul cuore quelle femorali e dice: “Qui mi hanno messo il cuore artificiale, qui mi hanno messo l’Ecmo”.

Finalmente lo scorso febbraio è arrivato il cuore tanto atteso…
Sì, dopo sette mesi di attesa in ospedale è stato finalmente possibile effettuare il trapianto. Quando la dottoressa mi ha avvertito, l’ho abbracciata stretta provando felicità immensa ma anche profonda commozione e gratitudine per i genitori che hanno donato il cuore del loro bambino che non ce l’ha fatta. Piangevo così tanto che quando ho chiamato mio marito per dirglielo, li ha temuto fosse successo qualcosa di irreparabile. Si è precipitato qui in ospedale e abbiamo trascorso la notte svegli, tenendoci per mano. Il mio pensiero andava dalla speranza nel trapianto al dolore della famiglia che nella sofferenza più disumana che possa capitare a un genitore ha trovato la forza di donare la vita ad altri. Abbiamo visto genitori in reparto perdere i figli, ed anche noi ci siamo andati vicino… (e la voce si incrina di nuovo)

Giordano si è salvato grazie al trapianto di cuore. Che cosa si sente di dire a chi nutre riserve o resistenze sulla donazione degli organi?
Non trovo parole, mi fa venire i brividi pensare alla grandiosità di questo gesto: un piccolo seme piantato che dà nuova vita. Una vita che si ferma ma che consente nuova vita a qualcun altro… è meraviglioso.

Per me la capacità di donare che germoglia nel dolore più atroce è eucarestia.

Quest’anno, il Giovedì Santo ho pensato alle famiglie che hanno donato gli organi, al loro immenso atto d’amore, un gesto quasi eucaristico. Giordano ha ricevuto il cuore il 9 febbraio. Dopo 12 giorni è avvenuto un altro piccolo miracolo: Sofia, una bimba di sei mesi ha ricevuto il suo cuoricino e dopo 12 giorni l’ha ricevuto anche Fahd, un bimbo che era in attesa da più tempo. In reparto, noi tre mamme non pregavamo mai per uno, ma per tutti i nostri tre figli e speravamo che i cuori arrivassero tutti insieme.

Loro musulmane, io cristiana, ci siamo sostenute e accompagnate anche con la preghiera come sorelle.

Il cuore di Giordano è arrivato poco prima dell’inizio della Quaresima; gli altri due poco prima dell’inizio del Ramadan. Queste coincidenze sono dei segni.

Annalisa, con quali occhi guardate ora al futuro?
Piano piano, stiamo uscendo dall’ospedale e dobbiamo prepararci a riprendere gradualmente e con delicatezza la vita normale. Quando i controlli si diraderanno – ora Giordano deve fare day-hospital tutte le settimane – potremo finalmente tornare a Genova. E la prossima estate in vacanza perché abbiamo bisogno di recuperare pezzi di vita. Però con profonda gratitudine, dopo avere “imparato” la fragilità e la preziosità della vita. Personalmente mi sto chiedendo come restituire quanto ricevuto. E’ un dono talmente grande, questo della vita, da chiedere restituzione. Ma vorrei aggiungere un’altra cosa sulla donazione degli organi.

Certo…
C’è ancora molta resistenza anche perché sembra che sperare in un dono significhi augurarsi la morte di un bambino, ma non è così. Quando in ospedale aspetta un organo nuovo per suo figlio,

un genitore non spera nella morte di un altro bimbo, ma semplicemente che nella disperazione più buia germogli la forza di un dono.

Ho visto in questi mesi tanti bambini che non ce l’hanno fatta e me li porto tutti nel cuore. Il dolore, o fa indurire e rinchiudere rabbiosamente in se stessi, oppure trasforma e insegna a vivere con più amore, a benedire la vita, a ringraziare e restituire, a capire e accogliere la sofferenza degli altri, farla propria e sostenerla.

Il nostro Ssn è a rischio. Nei giorni scorsi quattordici personalità del mondo della scienza e della ricerca sono scese in campo con un appello in sua difesa. Voi avete toccato con mano quanto sia prezioso.
Assolutamente sì. Se fossimo stati in un altro Paese del mondo, anche più ricco, Giordano sarebbe probabilmente morto. Siamo stati fortunati. Giordano ha avuto bisogno di cure costosissime, terapia intensiva, trapianto; non ce li saremmo potuti permettere altrimenti. Non possiamo rischiare di perdere tutta questa ricchezza. Abbiamo toccato con mano anche delle eccellenze a livello medico e infermieristico, professionisti competenti e umani nonostante turni di lavoro pesantissimi, giorno e notte. E anche gli Oss. Un lavoro, quello svolto negli ospedali, che meriterebbe maggiori riconoscimenti.

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(Fonte: AgenSIR – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

Giovanni, “Casco bianco” dalla Toscana alle Filippine: “Quando tornerò, non sarò lo stesso di quando sono partito”

In un mondo sempre più interconnesso, dove le sfide globali richiedono soluzioni condivise, la solidarietà internazionale assume un ruolo fondamentale nel contribuire a instillare speranza e supporto negli Stati afflitti da situazioni di crisi.
In questa cornice di altruismo e dedizione, Caritas italiana, in collaborazione con le Caritas diocesane, offre ai giovani volontari dai 18 ai 28 anni, l’opportunità di prendere parte all’esperienza di servizio civile all’estero attraverso il “Progetto Caschi bianchi” che vede la partecipazione, oltre a Caritas italiana, di altri tre enti: Comunità Papa Giovanni XXIII, Focsiv e Gavci.
A metà strada tra un’avventura personale e un atto di dedizione al bene comune, il servizio civile all’estero rappresenta una forma di volontariato internazionale che permette ai ragazzi una via d’accesso privilegiata alla promozione della pace, dello sviluppo, dell’educazione alla mondialità, dell’intercultura e della cooperazione internazionale.

La grande ricchezza di tutto ciò si manifesta delle parole e nei sorrisi di chi vive o ha vissuto questa esperienza, come quelli di Giovanni Antoci, che il 25 maggio scorso ha intrapreso questo percorso attraverso il servizio civile con Caritas italiana presso la diocesi di Capiz, nelle Filippine.

“Sono Giovanni, ho 26 anni e vengo da Incisa Valdarno, in provincia di Firenze – ci racconta -. Sono laureato in Sviluppo economico e Cooperazione internazionale e sto concludendo una laurea magistrale in Economia dello sviluppo, presso l’Università di Firenze”.

Giovanni, quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto a intraprendere questo viaggio?
Ho chiesto al mio relatore, Mario Biggeri, se ci fosse un modo di vivere un’esperienza, in un contesto di sviluppo, su cui basare la mia tesi di laurea che riguarda gli approcci allo sviluppo su base comunitaria: è lui che mi ha consigliato di partecipare al bando di Servizio civile universale. Non ho vissuto molto bene gli anni universitari; penso che studiare sia inevitabilmente un atto di fiducia, ma in più momenti ho davvero faticato a capire il senso di quello che stavo facendo. Ho capito che chiudermi in biblioteca a scrivere la mia tesi non sarebbe stata la cosa migliore per me e ho deciso di fare un’esperienza che fosse una vera rottura con il passato.

Come mai hai scelto questo progetto di Caritas italiana nelle Filippine?
Avendo fatto il Servizio civile regionale con Caritas a Firenze ed essendomi trovato molto bene, ho guardato con particolare attenzione ai progetti di Caritas italiana. Tra i tanti, quello a Capiz, nelle Filippine, mi ha colpito per la varietà dei temi trattati: l’inclusione di minoranze indigene, la prevenzione e la risposta ai disastri ambientali, la tutela di minori vulnerabili. Non avendo le idee chiare sul percorso da intraprendere in futuro, ho pensato che il progetto fosse un’ottima opportunità per esplorare varie tematiche sociali. Non nascondo inoltre il fascino per un Paese così distante geograficamente e culturalmente.

Qual è il tuo ruolo all’interno del progetto?
Il nostro ruolo all’interno dei progetti non è ben definito. Senza dubbio i primi mesi sono dedicati a un’attenta osservazione: si tratta di un contesto molto particolare ed è necessario del tempo per comprenderne le dinamiche e capire come poter essere di aiuto, in base alle competenze e attitudini di ciascuno.

Come sono strutturate le vostre giornate?
È molto difficile parlare di una giornata tipo, ogni giorno è una sorpresa. All’interno dell’ufficio lavorano vari colleghi che si occupano di progetti diversi. Io e la mia collega Erica siamo di supporto a tutti loro e li seguiamo nei vari progetti, per quanto siamo focalizzati principalmente nel progetto con la comunità indigena.

Ci puoi descrivere la comunità e l’ambiente che hai trovato in questi primi mesi?
Ho interagito con varie comunità molto diverse tra loro e si potrebbe scrivere un libro su ciascuna di esse. Le caratteristiche che ho riscontrato in tutte sono l’ospitalità e la pazienza, una grande passione per il cibo e per la musica. L’ambiente è teatro di uno scontro tra una natura ancora dominante e le azioni distruttive dell’uomo: le Filippine hanno un primato in termini di biodiversità, ma anche per consumo di plastica.

A tal proposito, si fa qualcosa per arginare il problema dell’eccessivo consumo di plastica Ci sono iniziative per sensibilizzare i temi dell’emergenza ambientale?
Gli eventi di sensibilizzazione sull’ambiente e le attività di tree planting che spesso li accompagnano sono piuttosto frequenti, proprio in un’ottica di contrasto al cambiamento climatico. Il nostro ufficio ha anche da poco iniziato un progetto per la creazione di una foresta di bambù. Per quanto riguarda la plastica la questione è più complessa, se ne parla molto ma l’abuso nel suo uso è talmente radicato che sembra sia quasi una battaglia persa. Non è raro vedere centinaia di bottiglie di plastica durante eventi di stampo ambientalista, sembra mancare ancora una visione chiara di un’alternativa.

Quali erano le tue aspettative prima di iniziare questa nuova avventura E quali sono, invece, adesso a distanza di qualche mese?
Durante la formazione iniziale di Caritas italiana hanno molto insistito sull’importanza di partire senza aspettative. Non nego di averne avute alcune, in modo particolare riguardo all’incontro con una cultura così diversa dalla mia e alla possibilità di portare il mio aiuto agli ultimi. La prima aspettativa è stata del tutto soddisfatta, la seconda dà inizio a una questione molto più complessa; il mio referente ci ricorda spesso che “tutti possono essere utili, ma nessuno è indispensabile”. Questo è particolarmente vero in un contesto che non si conosce, con varie difficoltà, prima tra tutte la barriera linguistica. Quello che è certo è che l’esperienza avrà un impatto fortissimo su di me, e quando tornerò non sarò la stessa persona di quando sono partito.

Che consiglio daresti a un giovane che vuole fare un’esperienza del genere?
Il consiglio più importante che mi sento di dare è di aprirsi realmente al diverso e di prepararsi a mettere tutto in discussione, incluse le proprie convinzioni su cosa è giusto e cos’è sbagliato. Ci si trova a vivere in un contesto regolato da meccanismi che non si comprendono perché non ci appartengono. Le situazioni che si presentano durante un’esperienza di questo tipo pongono questioni che spesso non hanno una soluzione; è fondamentale accogliere la complessità.

In conclusione, il Servizio civile all’estero non solo appare come un riflesso del nostro desiderio di un mondo migliore, ma si rivela come un eloquente tributo al potere della gentilezza umana. Ogni persona, indipendentemente dalla sua posizione, è destinataria di sostegno, crescita e condivisione – un messaggio che va oltre le convenzionali definizioni di chi può essere considerate beneficiario.
Attraverso la compassione, la determinazione e il coraggio, piccolo gesti diventano veri e propri atti rivoluzionari, dimostrando che l’umanità è intrinsecamente capace di compiere azioni ammirevoli.

*precedentemente pubblicato su “Toscana Oggi”

(Fonte: AgenSIR – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

Reati su minori. Terre des Hommes: “Nuovo record in Italia, 6.857 nel 2022, +10% in un anno. Aumentano i crimini sessuali”

Ennesimo record di reati a danno di minori in Italia nel 2022: sono stati 6.857, con un drastico aumento del 10% dal 2021, quando il dato aveva superato per la prima volta quota 6mila. Il peggioramento maggiore riguarda le violenze sessuali, cresciute del 27% in un anno: da 714 nel 2021 sono passate a 906 lo scorso anno, per l’89% ai danni di bambine e ragazze. I dati, elaborati dal Servizio Analisi criminale della Direzione centrale Polizia c riminale, sono stati resi noti dalla Fondazione Terre des Hommes nel Dossier indifesa “La condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo” 2023, in occasione della Giornata mondiale delle bambine (11 ottobre). Il documento è stato presentato venerdì 6 ottobre a Roma, al MAXXI Museo delle Arti del XXI Secolo, alla presenza di Stefano Delfini, direttore del Servizio Analisi criminale della Direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza; Carla Garlatti, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza; Oleksandra Romantsova, direttrice esecutiva del Centro per le libertà civili di Kiev, premio Nobel per la pace 2022; Donatella Vergari, presidente di Terre des Hommes Italia.

I reati su minori continuano ad aumentare e segnare nuovi record:

“Se nel 2021 era stata superata per la prima volta quota 6mila casi, nel 2022 il balzo è così grande da spingere il numero verso i 7mila (6.857)”.

A confermare la tendenza di crescita è il dato su 10 anni: “Dal 2012 (5.103 reati) al 2022 i crimini a danni di minori sono aumentati del 34%”. Nel corso degli anni, precisa il Dossier, “la grande prevalenza di bambine e ragazze tra le vittime non solo è confermata ma anch’essa aumentata, in particolare nei reati a sfondo sessuale”: “Sono state l’89% (sul totale di 906 casi) tra le vittime di violenza sessuale nel 2022, erano l’87% l’anno precedente (su 714) e l’85% (su 689) nel 2012, mentre nel 2022 sono state il 65% (su 37) le bambine vittime di prostituzione minorile mentre erano state il 60% (su 77) nel 2012”. La prevalenza di vittime di sesso femminile persiste anche in altre fattispecie di reato, “come maltrattamento di familiari e conviventi minori (53%), detenzione di materiale pornografico (71%), pornografia minorile (70%), atti sessuali con minorenne (79%), corruzione di minorenne (76%), violenza sessuale aggravata (86%)”. Lo squilibrio a danno del genere femminile in varie fattispecie di reato, in particolare in quelli considerati “spia” delle violenze di genere, è confermato anche sulla popolazione presa nel suo complesso: nei dati dello stesso Servizio Analisi criminale, “le ragazze e donne sono oltre l’82% delle vittime di maltrattamenti contro familiari e conviventi, oltre il 92% di violenze sessuali”.

Nei confronti di minori, “aumentano su base annuale i reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare (551 casi nel 2022, +10% dal 2021), abuso dei mezzi di correzione o disciplina (345 casi, +17%), maltrattamenti contro familiari e conviventi (2.691 casi, +8%), sottrazione di persone incapaci (290 casi, +8%), abbandono di persone minori o incapaci (550 casi, +13%), detenzione di materiale pornografico (72 casi, +9%), atti sessuali con minorenne (430 casi, +4%), violenza sessuale aggravata (697 casi, +13%)”. Calano, invece, alcune fattispecie di reato: “L’omicidio volontario consumato in un anno diminuisce del 37% (da 19 casi del 2021 a 12 casi del 2022) e nel confronto su base decennale si registra un -33%. In discesa anche la prostituzione minorile con -14% (da 43 a 37 casi), mentre il dato è sceso del 52% dal 2012. La pornografia minorile è diminuita del 10% (da 187 a 169), ma dal 2012 al 2022 è aumentata del 56%. Un calo si registra anche per la corruzione di minore, -21% in un anno (da 136 a 107 casi) e -20% dal 2012 nonostante si tratti di un reato legato alla sfera dei reati a sfondo sessuale, che, invece, sono in crescita”.

“I dati relativi al 2022 sono elevati; alla preoccupazione per la crescita tendenziale degli indicatori, abbastanza costante negli ultimi anni, va aggiunto l’allarme per le possibili e gravi conseguenze che derivano da tale forma di violenza;

le giovanissime vittime rischiano di diventare adulti che porteranno per sempre nella loro anima orribili e, spesso, invisibili cicatrici”,

ha dichiarato, nel rapporto di Terre des Hommes, Stefano Delfini, direttore del Servizio Analisi criminale della Direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. “Per affrontare questo fenomeno è necessario un esame accurato e un approccio complessivo, che prendano le mosse da un’effettiva conoscenza del fenomeno, nelle sue dimensioni e nelle sue tendenze evolutive. In particolare, è fondamentale riservare la massima attenzione alle violenze e agli abusi sui minori online non solo nella prevenzione e nel contrasto, ma anche nell’attività di supporto alle vittime e nella predisposizione di campagne informative mirate a rimuovere quegli ostacoli socioculturali per debellare il fenomeno nel prossimo futuro”, ha aggiunto.

“Alla luce del nuovo, tristissimo, record nei dati e degli aumenti di violenza sessuale e sessuale aggravata, vicende come lo stupro di Palermo appaiono come una cartina di tornasole della cultura patriarcale, maschilista, prevaricatrice e violenta che riduce il corpo di una donna a un ‘pezzo di carne’, in violenze nate per essere mostrate e che sembrano volere imprimere il sigillo del potere maschile, individuale e di gruppo”, ha affermato Paolo Ferrara, direttore generale di Terre des Hommes. “Se vogliamo invertire la rotta – ha osservato -, dobbiamo costruire una risposta organica, sistemica, diffusa che affronti di petto questa situazione inaccettabile. Qualcosa in termini legislativi si è fatto, con l’introduzione del Codice Rosso, ma manca un piano di intervento di lungo periodo sulla parità di genere a scuola. Manca la volontà di introdurre, finalmente, materie come l’educazione sessuale e all’affettività, all’uso ‘etico’ dei media digitali. E

i ragazzi dovranno mettersi in gioco più di tutti: se la violenza di genere riguarda tutti e tutte, il violento è sempre o quasi sempre maschio”.

Oltre ai dati relativi al nostro Paese, il Dossier offre uno sguardo più ampio sulla condizione delle bambine e delle ragazze in tutto il mondo, facendo emergere dati allarmanti in molti ambiti. Le mutilazioni genitali continuano ad aumentare nel mondo, mentre questa violenza che sottrae il futuro alle bambine riguarda anche l’Europa. I dati mostrano anche il dramma dei matrimoni precoci e forzati, delle gravidanze precoci e della loro forte relazione con lo stupro per le vittime più giovani, delle violenze sessuali, del mancato diritto all’istruzione. Tra i Paesi del mondo raccontati dal dossier, l’Afghanistan “dei” talebani, l’Iran e le lotte delle donne per i loro diritti, il Sudan e l’Ucraina in guerra.

Dall’11 ottobre partirà anche la nuova campagna di comunicazione e raccolta fondi di Terre des Hommes che con l’hashtag #MettitiNeiSuoiPanni invita tutti e tutte a mettersi nei panni delle bambine e ragazze che subiscono violenza, per superare discriminazioni di genere, facili giudizi e stereotipi che alimentano la cultura dello stupro e ostacolano il pieno godimento dei diritti e della libertà per bambine e ragazze. La campagna #MettitiNeiSuoiPanni è stata ideata e realizzata da Acne – A Deloitte business.

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La vera partita

È soltanto un gioco. Chissà quante volte lo abbiamo detto e quante volte abbiamo pensato al gioco come a qualcosa di poco importante, superficiale. Non è così. Il gioco, soprattutto quando si parla di sport, è un allenamento alla vita. Per giocare bene, e quindi divertirsi, occorre seguire regole, prepararsi, concentrarsi, osservare gli alti e interagire. Così come nella vita, che è sempre un gioco di squadra. Lo sport ci insegna tutto questo, ci insegna il valore dell’allenamento (che è un altro modo per dire educazione), ci insegna a farci aiutare dai nostri educatori (che è un altro modo per dire “fiducia” nelle persone che hanno più esperienza di noi) e ci insegna a stare con gli altri mettendo insieme le differenze, nella convinzione che questo sia il vero punto di forza (l’inclusione). In queste settimane sono tante le iniziative che ci parlano di sport e di educazione, dal recente Sport in piazza, vetrina delle numerose attività sportive e associazioni presenti sul territorio, al Torneo don Oreste Benzi che si giocherà domenica prossima. E sarà una festa. Al di là dei risultati, del podio, della performance. Perché la vera vittoria è un’altra. Poi lo sport è anche competizione, risultato, classifica, vittoria, sconfitta. Ed è normale che sia così. Ad alti livelli diventa anche business e spettacolo. E non necessariamente tutto questo è negativo. Certo è che se a prevalere sono questi ultimi elementi, cresce in modo esponenziale il rischio di perdere di vista tutto il resto. Che è la parte più importante. E allora sì, la partita è persa.

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Pakistan. Un giovane cristiano di Faisalabad: “Quando finiranno questi atti di persecuzione e violenza”

(Foto profilo fb catholics in Pakistan)

“All’indomani dei tragici eventi di Jaranwala, nel distretto di Faisalabad, si respira un clima di paura e apprensione in diverse parti della città dove risiedono i cristiani. Nonostante queste sfide, le loro chiese rimangono aperte, grazie in parte agli sforzi dei volontari della sicurezza locale e della polizia che lavorano instancabilmente per proteggere le chiese e la comunità cristiana dalle minacce”. Raggiunto dal Sir, è Daniyal Joseph, 22 anni, studente universitario, cristiano di Faisalabad, in Pakistan, a raccontare il clima che si respira in città dopo gli incidenti della scorsa settimana. Il 21 agosto l’arcivescovo di Lahore, mons. Sebastian Francis Shaw, ha visitato Jaranwala, insieme ai leader della comunità musulmana. Nella stessa giornata anche il primo ministro ad interim del Pakistan, Anwar ul Haq Kakar, si è recato sul posto. Domenica scorsa, mons. Indrias Rehmat, vescovo di Faisalabad, ha celebrato la prima messa sulle ceneri della città cristiana brutalmente bruciata esortando i fedeli ad avere “speranza nell’amore eterno di Dio per il suo popolo”.

Joseph ripercorre quanto è accaduto nell’area, in seguito alle accuse rivolte a un individuo cristiano per presunta mancanza di rispetto del Sacro Corano. “Purtroppo, ciò ha portato alla distruzione e all’incendio di più di 21 chiese, 25 Sacre Bibbie, 40 case cristiane e un cimitero cristiano. Inoltre, le case dei residenti sono state saccheggiate e oggetti di valore come gioielli, dispositivi elettronici, veicoli e oggetti essenziali sono stati rubati prima che le case venissero date alle fiamme. La comunità cristiana di Jaranwala ha dovuto trascorrere la notte nei campi vicini, sopraffatta da sentimenti di tristezza, crepacuore e paura”. In aiuto alla popolazione si è attivata anche la Caritas Pakistan Faisalabad e i missionari degli Oblati di Maria Immacolata (Omi) che hanno distribuito pacchi alimentari, kit igienici e set da cucina alle 150 famiglie colpite della città cristiana. È stato distribuito anche cibo caldo.

(Foto profilo fb catholics in Pakistan)

Joseph parla dei video che hanno ripreso gli incendi delle chiese e delle case così come la profanazione dei cimiteri. “Sono troppo dolorosi da guardare”, dice. “Sfortunatamente, l’incidente di Jaranwala ha provocato eventi simili in altre città come Sahiwal e Sargodha, dove le persone hanno dovuto affrontare violenze fisiche e false accuse di blasfemia. Tali casi evidenziano la continua persecuzione e discriminazione religiosa affrontata dai gruppi minoritari”. “La domanda cruciale che sorge – prosegue – è: quando finiranno questi atti di persecuzione e violenza contro i cristiani? Quando verranno garantiti pari diritti e protezione alle minoranze? Quando cesserà finalmente questo trattamento discriminatorio per motivi religiosi? Nel corso della mia vita mi sono imbattuto in numerosi episodi di questo tipo che si sono ripetuti più e più volte. Ogni anno porta nuovi esempi di persecuzione contro le comunità minoritarie”.

“Come giovane cristiano in Pakistan, desidero rivolgermi ai giovani d’Europa e chiedere le loro preghiere per i cristiani del Pakistan”, dice Joseph.

“Li esorto ad alzare la voce a sostegno dei cristiani pakistani, sostenendo la loro parità di diritti, giustizia e riconoscimento sociale”.

“Imploro il governo del Pakistan di fornire assistenza e risarcimento alle vittime dell’incidente di Jaranwala, nel distretto di Faisalabad, e di garantire che sia fatta giustizia e che i colpevoli siano ritenuti responsabili. Invito inoltre il governo a intraprendere azioni decisive contro gli individui che sfruttano le leggi sulla blasfemia per i loro scopi personali. Inoltre, faccio appello alla comunità internazionale affinché dia una mano alle vittime e alzi la voce a favore dei cristiani pakistani, offrendo sostegno in ogni modo possibile. Questo sostegno è fondamentale per garantire che ricevano l’aiuto e la protezione di cui hanno disperatamente bisogno”.

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Kherson. Padre Moskalyuk: “Quando ho saputo della famiglia sterminata sotto le bombe, ho pianto”

Kherson, padre Ignatius Moskalyuk

“A 500 metri dal nostro monastero è stata sterminata un’intera famiglia, papà, mamma e due bambini piccoli. Un razzo russo è caduto nel cortile dove si trovavano. Ho pianto a lungo… Spero almeno che queste lacrime mi aiutino a diventare più forte come prete…”. Il Sir è riuscito a mettersi in contatto a Kherson con padre Ignatius Moskalyuk, rettore del locale monastero basiliano di San Volodymyr il Grande. Sono ore drammatiche per tutta la regione, presa di mira dagli attacchi russi. Domenica scorsa sette persone, tra cui una neonata, suo fratello di 12 anni e i loro genitori, sono state uccise dai bombardamenti nella regione. Il racconto del sacerdote parte da qui, dagli ultimi morti. “Come vive un prete in guerra”, dice. “L’unica risposta che in questo momento mi viene è l’immagine di un buon pastore che prende sulle sue spalle le pecore ferite, le cura e condivide con loro il dolore”. “Vivere in tempo di guerra significa vivere sapendo che ogni giorno può essere l’ultimo della vita”.

Kherson, monastero basiliano di San Volodymyr il Grande (foto padre Ignatius Moskalyuk)

Nonostante Kherson e i villaggi vicini si trovino lungo uno dei fronti più caldi del Paese, “in città – racconta il sacerdote – sono rimasti anziani, disabili e famiglie a basso reddito che non hanno un posto dove andare e non hanno soldi per andare”. E ci sono anche tanti bambini che “hanno bisogno di sostegno”. Fin dall’inizio di questa invasione su vasta scala dei soldati russi, padre Ignatius ha scelto di non andare via e di rimanere a fianco della sua gente.  “Sono rimasto a Kherson – spiega – perché mi dispiaceva lasciare le persone senza prete, senza sostegno spirituale, lasciarle senza speranza in una situazione di vita difficile”. “Non dirò che non ho timore, sono anch’io una persona che si preoccupa della sua vita, ma Dio mi dà forza, sento costantemente la sua presenza e questo mi dà il coraggio di rimanere e attraversare la paura”.

Attualmente nel monastero ci sono altri due sacerdoti, un diacono e un fratello monaco, cinque persone in totale. Il monastero è diventato in questi ultimi due anni un punto di riferimento per gli abitanti rimasti in città, un rifugio e una protezione nei momenti più difficili, un luogo dove trovare conforto e ogni sorta di aiuto materiale. I monaci puntano soprattutto a sostenere i bambini. “Sono i bambini della guerra”, dice padre Ignatius. “Bambini a cui è stata tolta la vita spensierata dell’infanzia, che, nonostante l’età, già sanno cosa sono la sofferenza, la fame e il freddo, ma non perdono la speranza che la guerra finisca…”.

Kherson, monastero basiliano di San Volodymyr il Grande

Per loro vengono organizzati programmi di intrattenimento. In questi giorni, sono arrivati anche volontari dall’Italia e dalla Germania “per vedere com’è la situazione e per aiutarci in questo momento difficile”. Il sacerdote invia per WhatsApp le foto dei bimbi che popolano il monastero accompagnate da una raccomandazione: “Faccio appello oggi ai potenti di questo mondo, ponete fine a questa guerra brutale, guardate alla sofferenza dei bambini, non strappate la loro infanzia spensierata”.

Kherson, monastero basiliano di San Volodymyr il Grande

Le bombe stanno cadendo su un territorio già provato, messo in ginocchio dall’esplosione, il 6 giugno scorso, della diga di Kakhovka, che ha provocato la fuoriuscita di un’enorme massa d’acqua che a sua volta ha inondato l’intera area. “La situazione all’inizio era allarmante perché non si conoscevano le conseguenze dell’allagamento della zona”, racconta il sacerdote. “Attualmente tutto sta iniziando a stabilizzarsi, le persone sono state evacuate e coloro che sono rimasti in città, ricevono alloggi temporanei e assistenza fornita dal nostro monastero”. A soffrire maggiormente sono gli anziani e i disabili che hanno difficoltà a muoversi. L’acqua ha iniziato a ritirarsi ma c’è la minaccia di un’epidemia a causa dell’inquinamento delle acque e il pericolo di mine e munizioni inesplose. Le autorità locali mettono in guardia la popolazione locale a non prendere in mano oggetti sconosciuti.

Kherson, monastero basiliano di San Volodymyr il Grande

Avete bisogno di qualcosa Il sacerdote compila una lista lunga: “Abbiamo bisogno di detersivi, prodotti per l’igiene personale e la casa, pannolini per adulti e bambini, coperte, materassi e sacco a pelo, thermos, stoviglie usa e getta per la distribuzione del cibo… Qualcosa per i bambini”. “Ringraziamo tutti coloro che ci stanno aiutando”, dice padre Ignatius che prima di concludere vuole rivolgere una parola a Papa Francesco: “Seguo sempre quello che dice sull’Ucraina, vedo la sofferenza sul suo volto e lo ringrazio per le sue preghiere e per il lavoro che sta facendo per l’Ucraina, che solo Dio sa”.

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Digital detox

Sul limitare del bosco, nei prati che sovrastano il piccolo abitato di Malosco (Tn), mi incuriosisce un cartello realizzato in plastica trasparente. Riporta i simboli dei principali social media (Instagram, Facebook e Twitter) e la scritta “In Val di Non, nei luoghi più belli, il cellulare non prende. Ritorna ad apprezzarli con gli occhi, con il cuore e con la mente”. Quello che poteva essere un disagio è stato qui trasformato intelligentemente in un’opportunità, in un valore aggiunto a qualche giorno di riposo e di vacanza immersi nella natura. A fianco, un altro cartello indica cosa fare nel caso di incontro con un orso. Il rischio oggi è, per tutti, indubbiamente molto alto. Non quello di un faccia a faccia con un plantigrado, ma quello di vedere e di vivere sempre le cose attraverso la mediazione di un dispositivo elettronico (del suo schermo e della sua fotocamera) e di dover in tempo reale “condividere” con altri quello che si sta vedendo, facendo, perfino mangiando. Quasi che, se gli altri non lo sanno, la mia esperienza sia meno reale, il panorama meno bello, il mio pasto meno gustoso. E siamo sinceri, questo non è (solo) un problema dei giovani. Il cellulare, o sarebbe meglio dire lo smartphone, ovvero questo dispositivo elettronico che per sbaglio funge anche da telefono, ma che ci permette di scattare foto e realizzare filmati, ascoltare musica e guardare video, compiere pagamenti e altre operazioni bancarie, trovare la strada giusta, consultare il meteo, monitorare la nostra attività fisica e mantenere appunto in ogni momento attiva la nostra rete sociale attraverso i social e svariate app di messaggistica – incorporando così in un unico aggeggio le funzioni di telefono, macchina fotografica, cinepresa, sveglia, computer, TomTom e iPod (e chi se li ricorda più questi ultimi?), barometro e cardiofrequenzimetro… – è diventato per la maggior parte di noi una sorta di protesi, inseparabile e indispensabile. Tanto che quando non c’è rete, quando WhatsApp non funziona o addirittura quando è lo stesso telefono a non volerne sapere di accendersi (pare che moltissime persone non lo spengano mai neppure di notte), l’ansia e il panico si diffondono rapidamente, a tutte le età. Ma è proprio in quei luoghi e in quei momenti che puoi avere la grazia di riprendere contatto con la realtà, di renderti conto che il mondo esiste, gli altri esistono e perfino tu esisti, anche quando sei disconnesso e non raggiungibile; che i panorami si possono fissare nella mente e nel cuore; che il silenzio può diventare la più bella colonna sonora di un momento speciale. La buona notizia è che questa condizione può essere non solo il positivo effetto collaterale di un disservizio tecnologico, ma anche il frutto di una libera scelta. Gli esperti di comunicazione la chiamano “digital detox”, ovvero “disintossicazione digitale” e pare sia praticata da un numero crescente di persone di tutte le età che decidono per un periodo più o meno lungo (in genere un weekend o un’intera settimana di ferie) di spegnere del tutto o limitare al massimo l’utilizzo del telefono, del computer e di ogni altro dispositivo elettronico. E per non “cadere in tentazione” si può addirittura decidere di lasciarli a casa, comunicando, come si faceva un tempo, un proprio recapito in caso di autentiche emergenze. All’inizio potrà risultare difficile, ma i benefici, assicurano gli psicologi, saranno una maggior attenzione a ciò che ci circonda, meno ansia, miglior capacità di rilassarsi e più disponibilità nel vivere a pieno il rapporto con chi si ha vicino. E forse anche una maggiore facilità di “connessione” con Dio. Penso proprio valga la pena provare!

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Kokono: la culla che salva i neonati in Uganda

Una culla innovativa, progettata e brevettata in Italia da De-Lab – società benefit specializzata in consulenza nel settore della cooperazione allo sviluppo e dell’economia di scopo, con base a Milano – e realizzata e distribuita localmente in Uganda, in grado di proteggere i neonati dalla malaria e da altre potenziali cause di morte, costruita in plastica biodegradabile e multifunzione: è Kokono, progetto di imprenditoria sostenibile e ad impatto unico nel suo genere, che proprio nel paese dell’Africa sub-sahariana ha le sue radici. Ad oggi sono 1.500 le culle prodotte e distribuite nei contesti più poveri dell’Uganda, dagli slum di Kampala alle aree rurali. Un numero destinato presto a raddoppiare grazie a una strategia di scale-up promossa da De-Lab e dalla Ong Amref Health Africa e vincitrice nei giorni scorsi di un contributo nell’ambito della call “Sprint. Consolidamento di soluzioni sostenute nell’ambito del Progetto Innovazione per lo sviluppo” promossa da Fondazione Cariplo e Fondazione Compagnia di San Paolo. Ora la fondatrice di De-Lab, Lucia Dal Negro, punta ad attrarre anche nuovi partner finanziari per far crescere ulteriormente il progetto.

Come funziona Kokono
Kokono, grazie a una zanzariera “di serie”, difende i bambini da 0 a 12 mesi dalle malattie infettive – tra cui la malaria che incide ancora per il 20% sulla mortalità nel continente – ma anche da altre minacce come gli incidenti domestici o il soffocamento dovuti all’assenza di un riparo specifico per i neonati e gli attacchi degli animali come insetti, rettili e roditori. Queste sono le principali cause della mortalità infantile che in Uganda colpisce ogni anno 200mila bambini sotto i 5 anni, di cui 45mila muoiono entro il primo mese di vita. Oltre ad essere un riparo per i neonati, Kokono è anche sostenibile nei confronti dell’ambiente: grazie ad un polimero organico che rende la plastica di cui è composta biodegradabile, la culla si trasforma in compost dopo una decina di anni trascorsi in ambiente aerobico.
“Kokono è un modello replicabile in tutti i contesti vulnerabili del continente africano e del mondo, grazie a un modello che nasce dal basso, a partire dall’ascolto delle necessità delle famiglie più povere”, sottolinea la fondatrice di De-Lab Lucia Dal Negro. “Una soluzione che unisce alla sostenibilità sociale e ambientale anche quella economica – prosegue Dal Negro –, visto che permette di creare un circuito virtuoso di produzione e vendita in Uganda, con grandi potenzialità in termini di ricadute economiche e occupazionali sulla popolazione locale. Per questo De-LAB è alla ricerca di nuovi partner anche finanziari che credano e investano in Kokono”. Ogni dollaro investito in Kokono, è stato calcolato, genera 2,88 dollari in termini di ritorno sociale dell’investimento e questo senza ancora calcolare gli impatti ambientali positivi.

La storia e le partnership
La storia di Kokono – che in un dialetto ugandese significa “zucca vuota” – ha inizio nel 2018 quando l’idea viene perfezionata insieme ai suoi utilizzatori finali durante una serie di focus-group che coinvolgono quasi 200 persone in quattro distretti dell’Uganda: la capitale Kampala, Hoima, Fort Portal e Gulu. Un percorso di ricerca che ha fatto emergere la necessità di un design multi-funzione – Kokono si utilizza come culla portatile, come letto, come vasca per il bagno e come spazio per il gioco –, e un prezzo accessibile per una fascia di popolazione a medio-basso reddito.

Dopo la prima fase di ideazione, prototipazione e sviluppo, De-LAB ha acquistato, grazie alla vittoria di un grant dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), lo stampo industriale per produrre la culla in modo seriale. In seguito alla sospensione dovuta alla pandemia, nel 2021 si completano il design del prodotto e la definizione della catena di fornitura locale, e avviene la registrazione da parte di De-LAB del brevetto di invenzione e del trademark “Kokono” sia in Italia che all’estero. L’anno seguente iniziano la produzione e la vendita, promossa in loco grazie alla collaborazione con l’ambasciata d’Italia in Uganda, e viene aperto un negozio a Muyenga, quartiere di Kampala, anche grazie ai fondi del bando Coopen di Fondazione Cariplo. Nel frattempo, grazie alla collaborazione tra De-Lab e le Ong Amref Health Africa Italia e Uganda, le culle vengono distribuite in contesti in difficoltà, tra cui lo slum di Kawempe.
Più di recente è stata attivata una collaborazione con Unfpa – United Nations Population Fund, l’agenzia dell’Onu per la salute sessuale e riproduttiva, grazie a cui è stata avviata la distribuzione di alcuni esemplari di Kokono nei campi profughi dell’Uganda, che conta oltre 1,5 milioni di rifugiati su una popolazione di 45 milioni di abitanti, una delle quote più alte al mondo.

 

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Utero in affitto. Di Nicola: “Quando la complessità si riduce a slogan”

Di fronte a temi di carattere etico e socio-politico che decidono della vita e del futuro, colpisce la sicurezza di chi ha risposte sicure. La sensibilità contemporanea diffida di chi cavalca fronti di opposte ideologie, per mettere in guardia dal letale sovvertimento dell’etica, sottostimando le conseguenze di scelte che decidono di una pluralità di persone, a cominciare dal nascituro. I fronti contrapposti non sono sempre compatti: ecologisti contro e a favore, femministe contro e a favore (specie dopo la ‘fiera della fertilità’ di Milano e Parigi), destra e sinistra divise… La realtà è complessa e sfugge di mano.
Bisogna riconoscere che il legittimo desiderio di una coppia di avere bambini oggi di certo non è sostenuto, vittima di un sistema che sembra consentirlo solo a chi può far conto su un lavoro fisso, istruzione elevata, esperienza. Di fatto si allungano i tempi delle scelte di vita e l’età feconda finisce. Ma quando i presupposti per accogliere ci sono tutti e solo la natura si oppone allo sbocciare di una nuova vita, ecco che il desiderare di avere un figlio si trasforma a volte nel cuore di tanti uomini e donne, nel rivendicare il diritto al figlio ad ogni costo.

Inarrestabile l’aumentato ricorso alla fecondazione assistita e purtroppo anche alla gestazione per altri, che notoriamente non riguarda solo le coppie gay (negli USA si calcola che sono eterosessuali sette coppie su dieci, con un incremento annuo del 20%). Non è pensabile che basti un impedimento giuridico a invertire un trend che supera i confini nazionali, incoraggiato da un’opinione pubblica libertaria e da democrazie che si regolano sul conteggio dei voti molto più che sulla qualità delle proposte.

Il linguaggio si materializza e, come nella marxiana ‘forza lavoro’, parla di ‘prodotti selezionati e sicuri’, di ‘clienti’, di ‘successo delle ‘vendite’. I media documentano la realtà di “bambini oggetto di scambio mercantile”, di donne “fattrici contrattualizzate”, soggette a rischi per la salute a breve e lungo termine, per non parlare delle conseguenze di carattere psicologico ed etico. Il consenso è spesso non sufficientemente informato, i compensi non adeguati.

Viene sotto rappresentato il fatto che per innalzare gli indici di successo vengono trasferiti più embrioni nella madre surrogata. Si silenziano i rischi, da non assolutizzare, ma che pur ci sono, di morte di madri surrogate, l’aumento di parti cesarei e il prolungamento della degenza in ospedale (spese sanitarie ospedaliere 26 volte superiori), l’aumentata necessità di cure neonatali intensive, le complicazioni materne e perinatali, come diabete gestazionale, riduzione della crescita del feto, morte prematura, i casi di ipertensione e pre-eclampsia da gestazione per le donne gravide con ovuli di donatrici, la pressione endocranica conseguente al Lupron che prepara la madre surrogata a ricevere il trasferimento di embrioni.

Quanto ai nati attraverso surrogazione, è difficile calcolare se e quanto influisca l’interruzione intenzionale del legame con la madre biologica. Alcuni studi li considerano più soggetti ad essere sottopeso, registrano un aumento di 4-5 volte il numero dei nati morti, attestano che all’età di 7 anni questi bimbi mostrano maggiori difficoltà di adattamento e che da adulti possono risultare gravemente disorientati genealogicamente. Sconcertante il caso di quella donna (non certo l’unica) che, previo accordo contrattuale, si è fatta fecondare da un donatore e poi ha dato alla luce un figlio che non corrispondeva all’ideale auspicato dal committente e rifiutato da questi e dalla madre surrogante.

Il mercato, incurante dello sfruttamento delle disuguaglianze sociali e volto a premiare chi paga, incoraggia le industrie, i medici, i benestanti VIP (tra gli altri: Kim Kardashian a Nicole Kidman, Sarah Jessica Parker, Cristiano Ronaldo, Paris Hilton e fra le coppie omosessuali, Ricky Martin ed Elton John). Solo in India il mercato delle GPA vale oltre 2 miliardi di dollari l’anno e le ‘volontarie’ guadagnano tra gli 8.000 e i 9.000 dollari a gestazione (pari a dieci anni di lavoro di un operaio non specializzato).

Una donna per ragioni intuibili accetta di dare/vendere il corpo rinunciando al figlio, mentre un’altra acquista una maternità sociale e ne assume le obbligazioni; rinuncia ai legami genetici ma conta sul fatto che nella gestazione i piccoli non hanno cognizione della madre biologica, ma sviluppano la relazione con chi li sta portando.

Quel che sconcerta è che di fronte a simili problemi si proceda per slogan e manifestazioni festosamente inneggianti alla libertà individuale soffocando la legittima domanda: se e fino a che punto è possibile scavalcare la relazione materna naturale affidandola ai due Moloch: scienza e mercato? Sconcerta anche la posizione di non pochi gruppi di femministe ed ecologisti in contraddizione con se stessi: come si può sottovalutare il legame donna-madre se per anni ci si è concentrati a studiare la differenza di genere e sul privilegio-potere quasi religioso della donna madre? Domina il disorientamento e nel chiasso della piazza, prevale la stridula rivendicazione. Taglia corto l’inascoltata ministra Roccella: “la maternità surrogata è un mercato di bambini. La madre è quella che partorisce”.

Di fronte alle annose contrapposizioni tra natura e cultura, tra oggettività e soggettività, sembra indispensabile domandarsi se, quando e come i legami madre-figlio possono essere scissi senza danno. Il legislatore dovrà usare prudenza e discernimento. Quel che è certo è che se da una parte la natura non va senza l’opera degli uomini e delle donne, dall’altra tutti hanno il dovere di rispettarla e indirizzarla, se non altro perché se violentata, prima o poi si ribella e presenta il conto: “Natura non nisi parendo vincitur”.

(Fonte: AgenSIR – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

‘Lesa lollobrigidità’: quando certi giornalisti si rendono più ridicoli di certi politici

Lesa lollobrigidità

Avvertenza per i lettori. Ciò che state per leggere non è il sequel di Fantozzi al Gran Consiglio dei Dieci Assenti: è tutto vero.

Il Consiglio di Disciplina Territoriale dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio comunica: “Il Primo collegio riunito il giorno 4 maggio 2023 a Roma, presenti Roidi, Renzetti, Callini: in merito alla segnalazione giunta dal Presidente dell’Ordine del Lazio per le proteste legate alla pubblicazione sul Fatto Quotidiano di una vignetta a firma del disegnatore Mario Natangelo”. Punto: la frase finisce così, sospesa nel vuoto.

La successiva descrive “il disegno satirico” che “appare riferito alla frase del ministro Lollobrigida” sulla sostituzione etnica “che molto clamore e dibattito ha provocato…

Il disegno mostra una donna e un uomo di pelle nera in un letto”. E quindi?

“Poiché la pubblicazione potrebbe comportare una violazione dell’articolo 2 del codice deontologico, il Collegio invita il giornalista Natangelo a presentarsi… il giorno 7 giugno”, con “facoltà di produrre memorie, indicare testimonianze e farsi assistere da un legale di fiducia”.

Incuriositi dall’art. 2 del Codice deontologico che l’infame vignetta potrebbe aver infranto, siamo andati a leggerlo: s’intitola “Banche-dati di uso redazionale e tutela degli archivi personali dei giornalisti”.

Quindi il sinedrio che convoca Nat per leso Codice deontologico non conosce il Codice deontologico (sennò sarebbe impegnatissimo a convocare i direttori di tg e giornali che danno più spazio alle creme del fidanzato della Boschi che alla staffetta per la pace e al rapporto della Dia sui legami fra B., Dell’Utri e Graviano).

Oppure cita un articolo a caso pur di offrire alla famiglia allargata dei Lollobrigida lo scalpo del putribondo Natangelo, reo di ben altro crimine: la lesa lollobrigidità.

È andata peggio al dissidente bielorusso Mikalai Klimovich, condannato a 12 mesi per aver definito “divertente” sui social una vignetta su Lukashenko e morto lunedì nella colonia penale di Viciebsk. Ma almeno in Bielorussia il reato di vignetta è ritenuto normale.

In Italia pensavamo fosse depenalizzato, almeno fino alla convocazione di Nat.

Noi però lo invidiamo: oltre a divertirsi ogni giorno come un matto, il 7 giugno dinanzi al Gran Consiglio dei Dieci Ignari rischia di rotolarsi per terra.

Perché disegnò quella vignetta? Chi sono la donna e l’uomo di pelle nera nel letto? È conscio della gravità della sua condotta? È pronto ad assumersi le sue responsabilità dinanzi al Codice deontologico e alla Nazione tutta È pentito? Lo rifarebbe? E quante volte, figliuolo?

Il clou sarà quando leggerà la sua memoria difensiva e soprattutto esibirà i suoi testimoni: i ragionieri Filini e Calboni e la signorina Silvani: dovrebbero bastare.

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

Caiazzo. Quando i fatti confermano la sciatteria: fontana spenta poco dopo il comizio

Viene da SS. Giovanni e Paolo, frazione caiatina principale ma da alcuni lustri meno fortunata, la nuova denuncia del giornalista implacabile con i politicanti inetti o, peggio, animati da interessi personali, cioè Giuseppe Sangiovanni cui basta una fotonotizia e pochi righi per inchiodare alle proprie irresponsabilità alcuni candidati che a fine aprile hanno tenuto un comizio nella piazza della vergogna (rectius: piazza del chiosco della vergogna, tutti sanno perchè) dove, per l’occasione, era stata frettolosamente pulita e riattivata la fontana, a quant’è dato sapere spenta da lustri.

Comizio plateale, secondo alcuni residenti, perchè, senza verecondia, erano affiancati in particolare due oratori, ex antagonisti, che per poco non sarebbero venuti alle mani, dopo essersele dette di tutti i colori.

Intanto, sempre documentato da Sagiovanni, in difetto dei preposti comunali, alcuni residenti si erano prodigati per rappezzare in qualche modo la strada comunale, sempre più rovinata, prima che il comizio inziasse.

FOTO NOTIZIA

San Giovanni e Paolo – Foto 1- Sabato 29 aprile 2023: Fontana funzionante!

 

Pulita e messa in funzione espressamente per il comizio.

 

 

 

 

 

Foto 2: Fontana qualche giorno dopo il comizio, tornata sporca e spenta.

E chi disse che avrebbe svegliato il paese, senza pudore, già adesso guarda alla finestra lo spettacolo indecoroso! Senza pudore?

Indecoroso ancor più per i due protagonisti, per anni, di  maldicenze reciproche, ora ri-uniti sotto lo stesso cielo, manco a dirlo: per il bene “comune”: lo sappiamo tutti, vero?

 

(Giuseppe Sangiovanni – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

Gesù “arcobaleno” fra bikers borchiati. Quando l’ovvio uccide l’arte

“Benvenuto al ricevimento di apertura con Elisabeth Ohlson. Saranno serviti bevande e snack”. Un messaggio in qualche modo accattivante: l’apericena è assicurata. Così questo pomeriggio, alle ore 18, nell’area Jan 3 Q, al terzo piano della sede del Parlamento europeo a Bruxelles, giusto dalle parti della sala intestata ad Alcide De Gasperi, verrà inaugurata la mostra dell’artista svedese Ohlson, cui sono invitati deputati, assistenti, funzionari e giornalisti che gravitano attorno all’Eurocamera.

L’invito alla mostra

L’invito all’esposizione viene dall’eurodeputata svedese Malin Bjork: “Carissimi – scrive in una email urbi et orbi – in occasione della presidenza svedese del Consiglio europeo, ho invitato l’artista fotografica Elisabeth Ohlson a mostrare alcune delle sue opere. Tutti i pezzi che ha scelto per questo evento hanno un tema Lgbtqi o altrimenti inclusivo, relativo ai diritti umani”.
Accompagnano la missiva due immagini: una piccola imbarcazione di migranti allontanata con un piede da una nave (che rifiuta il salvataggio in mare?), e una figura maschile, in tunica bianca e capelli lunghi, che evocherebbe Gesù, attorniato da alcuni uomini in tenuta “sadomaso” (così la spiegano, con le ciglia aggrottate, quelli che la sanno lunga nei corridoi del Parlamento europeo).
Ora, è chiaro che dovrebbe trattarsi di una provocazione artistica. Un modo per richiamare, ancora una volta, forme discriminatorie contro le persone omosessuali. Per spiegarsi meglio – nel caso qualcuno non avesse inteso il profondo significato delle opere – è prevista domani, a metà giornata, una conferenza stampa della Ohlson.
Naturalmente c’è già chi ha gridato allo scandalo. Chi alla blasfemia. Mentre al Parlamento circolano scambi di email pro e contro l’esposizione (e chissà se tra qualche politico di quelli che si dice giustamente offeso non ci sia anche qualcuno che i migranti fa fatica ad accoglierli considerandoli solo un’emergenza pericolosa… ma questa è un’altra storia…).
Non c’è dubbio però che restano in evidenza alcuni fatti, dai quali sgorgano altrettanti interrogativi. Primo: dove risiederebbe l’intelligente, disarmante novità espressiva (che ogni opera artistica forse dovrebbe racchiudere) in un Cristo “arcobaleno” accompagnato da una squadra di bikers in tute di pelle nere borchiate? Nulla di diverso dalla passata mostra “Ecce Homo” della medesima artista in cui l’evangelica Ultima cena vedeva il Signore tra personaggi gay e transgender.
E se si ritiene “utile” la figura di Gesù per una campagna pro-Lgbtqi, perché non ci si chiede se tale raffigurazione non leda la sensibilità (persino i diritti!) di una parte significativa di quella parte di umanità che crede in Gesù Cristo, figlio di Dio fatto uomo, nato, morto e risorto per la salvezza del genere umano? Sembra che nella “casa della democrazia e della libertà”, ci sia qualcuno “più uguale degli altri” – come scrive George Orwell nella sua “Fattoria degli animali” – tale da poter offendere una fede religiosa e chi la professa.
In uno degli scambi di email che in queste ore attraversano la sede del Parlamento, c’è chi scrive: “Hai mai sentito la frase: smettila di rendere famosi gli stupidi?”. Forse il rilievo che si dà alla vicenda fa buona pubblicità alla stessa artista, la cui notorietà le sarà decisamente utile a piazzare le sue opere. È dunque lecito obiettare che persino questo articolo contribuisca a conferire ulteriore visibilità alla fotografa svedese.
Ma un ulteriore punto di domanda si impone. Per il giusto, persino necessario, rispetto delle persone Lgbtqi, la politica, le norme, la cultura, le agenzie educative devono svolgere la loro parte. Lo stesso rispetto però deve essere riservato a chi, di fronte ad alcune provocazioni, potrebbe sentirsi leso nei propri valori e nelle proprie credenze. Sarebbe quindi utile adottare un unico modus operandi a guida di ogni altra battaglia a difesa della vita e della dignità delle persone.

Inoltre, quello che certamente si può imputare all’immagine in questione è che ripercorre schemi già visti, rappresentazioni servite in tante altre salse, evidenze più volte sperimentate.Un’ovvietà si potrebbe dire. Il rischio però è che abituarsi al dominio dell’ovvietà rappresenta forse il vero punto debole del lavoro di Elisabeth Ohlson. Quell’ovvietà che, se accolta senza soluzione di continuità, rischia di non scomodare più il cervello, il cui frutto è quella caduta di tono che fa della pigrizia ripetitiva un inutile non senso. E se la banalità si impossessa dell’arte, l’arte rischia di soffocare nel nulla.

“Cristo crocifisso è scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”, scriveva oltre 2000 anni fa San Paolo rivolgendosi alla comunità di Corinto: per questo se qualcuno ritiene di scandalizzare o smuovere le coscienze “usando” Gesù, basta semplicemente riprendere il Vangelo. Lì risiede da sempre il vero scandalo, il pensiero-altro, e alternativo, annunciato, allora come oggi, nel pieno rispetto di quello corrente e dominante.

(Fonte: AgenSIR – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

Quando Portici divenne papale

Pochi sanno che Portici fu anche soglio pontificio: papa Pio IX per sette mesi visse alla Reggia, ospite di Francesco II di Borbone Due Sicilie https://wp.me/p60RNT-bTK

PORTICI | CITTÁ METROPOLITANA DI NAPOLI – Nella monumentale Sala Cinese della Reggia borbonica, sede del Dipartimento di Agraria dell’Ateneo Federico II, in via dell’Università mercoledì 26 aprile alle ore 16.30 sarà presentato l’ultimo libro dello storico porticese Stanislao Scognamiglio Portici papale 1849-1850.

La Fondazione San Bonaventura, la Comunità Provinciale di Napoli dei Frati Minori Conventuali, il Dipartimento di Agraria dell’Ateneo Federico II invitano la cittadinanza a partecipare all’importante evento letterario.

Dopo i saluti del Dottor Vincenzo Cuomo, Sindaco della Città di Portici, del Professor Danilo Ercolini, Direttore del Dipartimento di Agraria, del M.R.P. Cosimo Antonino, Ministro Provinciale dei Frati Minori Conventuali, e del Dottor Carlo Caccavale, Presidente della Fondazione San Bonaventura, nel corso del dibattito, moderato da Fra Roberto Sdino, ofmconv, giornalista, dialogheranno con l’autore l’Avvocato Luca Manzo, Assessore all’Istruzione della Città di Portici, la Professoressa Giuseppina Scognamiglio, Docente di Letteratura teatrale dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, e il R. P. Claudio Joris, Guardiano del Convento Sant’Antonio.

L’opera, in due volumi, si è avvalsa della presentazione e della prefazione rispettivamente firmate da S. E. Monsignor Domenico Battaglia, Arcivescovo di Napoli, e S. E. Monsignor Antonio Di Donna, Vescovo di Acerra.

Portici papale 1849-1850. In volontario esilio, il sommo pontefice Pio IX, dopo una permanenza a Gaeta, durata nove mesi, spostò la sua residenza a Portici, dove si trattenne per altri sette mesi. Nella cittadina vesuviana arrivò il 4 settembre 1849, dimorando alla Reggia, sita alla salita Sant’Antonio, nelle stanze opportunamente restaurate.

Beneficiò dell’aria e delle delizie del parco circostante, sovente lusingato dalle ricorrenti attenzioni riservategli dall’eccellentissimo ospite Ferdinando II di Borbone.

La vendita dei due volumi, editi in compartecipazione dalla Biblioteca Sant’Antonio (Fondazione San Bonaventura) e dalla De Porticibus (Stanislao Scognamiglio, realizzati dalla Tipografia Effegi), non è un’operazione commerciale.

si sottoliea che si tratta diun ulteriore mezzo per raccogliere fondi da destinare alle opere di carità attuate dal convento di Sant’Antonio di Portici, afferente alla Provincia Religiosa Napoletana dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali.

 

 

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(Fonte: Lo Speakers Corner – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)