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vocabolo:

‘Al microscopio’ una parola al giorno, oggi analizziamo insieme il vocabolo: ‘Tregua’ (tre-gua)

Tregua (trè-gua), SIGNIFICATO: Interruzione temporanea delle ostilità; pausa, requie; ETIMOLOGIA: dalla voce longobarda ricostruita come trewwa ‘patto, contratto’.
  • «Tregua, tregua, devo bere».

Una parte importante e colorita del lessico della violenza, nella nostra lingua, ha un’origine germanica, e perciò non è poi strano che anche la tregua, cioè una sospensione delle , giunga da quel bacino. In particolare, per la sua speciale vicenda che ha visto il popolo longobardo sciogliersi nella gente d’Italia, è la lingua longobarda a fornirci tante di quelle dure parole — dall’ al , dalla  alla , dalla  allo sbrego, dalla  allo  alla . Ma ci fornisce anche la tregua.

Ora, in effetti l’antecedente del termine ‘tregua’ aveva un altro significato. Parliamo della voce longobarda ricostruita come trewwa — e ricordiamo che in longobardo non si scriveva, quindi le voci longobarde vanno ricostruite in ipotesi, anche a partire dalle loro latinizzazione, in questo caso treuua. Si trattava in sé di un patto, di un contratto, e questo nocciolo di significato lo vediamo in filigrana anche nella stregua, che acquista il  di un ‘criterio’ a partire da una sostanza di ‘accordo’. Peraltro è la stessa pianta che dà origine alla lealtà del tedesco Treue, e all’inglese true, ‘vero’. Ma quello della tregua era un patto particolare.

«Un patto di pace!» diranno subito i miei piccoli lettori. Tralasciando il particolare che la parola ‘pace’ è  una parente di ‘patto’, e che ogni pace che si stringe stringe un patto, rileviamo che la tregua è un patto di pace in attesa.

Uno dei problemi principali della società longobarda che passa nell’Italia medievale (forse una caratteristica , più che un problema, dal loro punto di vista) era il ricorso  alla vendetta per una miriade di sgarbi e danni, vendetta che poteva aprire la porta a dispendiosissime .

Così furono messi a punto diversi sistemi legali per dare un’alternativa meno prosciugante a questo genere di soluzione; in particolare la tregua era il contratto che garantiva la sospensione delle ostilità in attesa della sentenza definitiva — si sa, giustizia e vendetta tendono ad avere tempistiche differenti, ed era necessario congelare la situazione per poter avere uno stato delle ostilità su cui giudicare. Se nelle more del giudizio questi continuano ad ammazzarsi vicendevolmente cugini e nipoti, come dire?, la foto viene mossa.

Questa idea della sospensione temporanea e pattizia del conflitto piace — e piace la parola. Ha un successo praticamente completo, in italiano non vengono recuperati sinonimi dal latino classico (indutie ad esempio ha preso un’altra via generando l’mora e pausa si riconoscono in tutt’altra salsa) e in effetti abbiamo solo un altro sinonimo relativamente preciso, cioè ‘armistizio’.

Che però è tanto più ingessato, tecnico e quasi lezioso nella sua formazione del latino moderno: nel primo elemento è , anche troppo, il riferimento alle armi, nel secondo è oscuro, anche troppo, il riferimento allo stare, al fermare (sistere in latino). Difatti l’armistizio ha una vita figurata molto più circoscritta intorno all’ambito militare.
La tregua invece già dal suono è un duro sospiro, conclusivo, viene bene anche detta col fiatone, e riesce a far sconfinare la sospensione del conflitto in una più ampia pausa, in un senso di  — convergendo sulle vastità meno circostanziate della pace.

Infatti certo parliamo della tregua  fra le due parti belligeranti, ma più quotidianamente diciamo che un  non ci dà tregua, che finalmente il lavoro ci dà un po’ di tregua, che piove senza tregua da due settimane.
È una parola comune che mostra saggezza nell’accettare la permanenza del conflitto (che la tregua non risolve), e solidità nella sua  interruzione.

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

‘Al microscopio’ una parola al giorno, oggi analizziamo insieme il vocabolo: ‘Elzeviro’

Elzeviro (el-ze-vì-ro).

SIGNIFICATO: Carattere tipografico adottato dagli stampatori olandesi Elzevir nel Seicento; articolo a carattere culturale, tradizionalmente posto in apertura della terza pagina dei quotidiani

ETIMOLOGIA: dal nome della famiglia di tipografi olandese Elzevir.

  • «Ho letto un bell’elzeviro sulla kermesse, te lo giro».

È una di quelle parole che odora di aristocrazia culturale, di raffinatezze dotte da quotidiano d’altri tempi.

L’impressione generale resta nell’elzeviro quale nome di , e per indicare articoli giusto di argomento culturale — artistici, letterari, storici, ma anche recensioni e riflessioni erudite delle più variegate — anche se non è più esattamente ciò che è stato per gran parte del Novecento.

Ad ogni modo, per capire meglio questa parola fine e  dobbiamo cominciare (come ci sia aspetta senz’altro) riprendendo il filo delle sorti di una  olandese di tipografi e di , gli Elzevir o Elzevier.

Non è uno di quei casi in cui singoli di spicco hanno fatto tutta la fortuna di una famiglia; piuttosto, per generazioni gli Elzevir, fra Cinquecento e Settecento, aggiustarono, radicarono ed estesero le fortune della loro attività tipografica ed editoriale a partire dalla città di Leiden.

Spiccano però, nella prima metà del Seicento, le trovate e le scelte di Bonaventura e Abraham Elzevir, fra cui delle  edizioni in dodicesimo di grandi classici antichi (un vecchio formato di dimensioni abbastanza contenute), una serie in ventiquattresimo (diciamo tascabile) riguardo alle ‘piccole repubbliche’, guide turistiche ante litteram. Peraltro furono gli Elzevir, ma chiamiamoli pure Elzeviri, a pubblicare l’ libro di Galileo, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze: privilegio di chi può giudicare l’Inquisizione Romana un .

Fra le altre cose, ebbero l’idea proprio in quegli anni di rimettere mano ai  tipografici per le stampe, e in particolare misero a punto un carattere elegante e molto leggibile che riprendeva un po’ lo stile dei vecchi caratteri tipografici italiani. La mano che creò questo tipo fu quella dell’incisore Christoffel van Dyck, e fu chiamato — mumble mumble, come chiamarlo? — elzevir, in italiano elzevìro.

Le fortune della  si estinsero nella seconda decade del Settecento, anche se il loro nome è stato ripreso, nel mondo dell’editoria. Quelle del carattere tipografico sono continuate.

In particolare in Italia, fra fine Ottocento e inizio Novecento, entrò in voga per i libri di poesia (se in casa avete qualche libro di poesia dell’, è probabile che abbia questo  tipografico), e gradualmente accompagnò e informò l’usanza di dedicare, sui quotidiani, una pagina a un intervento corposo di argomento culturale (che col tempo si sarebbe attestata come terza pagina del giornale).

Infatti le caratteristiche dell’elzeviro tipografico, quali eleganza, leggerezza, leggibilità e via dicendo, si adattavano particolarmente bene a questi spazi dotti, enciclopedici, folti di parole e che presumevano molto di sé — e col Corriere della Sera come apripista l’ si approfondì.

L’elzeviro, per  (o ?) passò da indicare il carattere a ciò che con quel carattere era di solito scritto, quindi divenne quel genere di articolo — breve saggio, recensione, riflessione, approfondimento letterario, artistico e via e via — che apriva la terza pagina dei quotidiani.

E anche se l’uso  della terza pagina culturale scritta in elezeviro con l’elzeviro è tramontata, resta il  di un nome dal grande  capace di indicare rubriche e articoli che vertono in maniera erudita su questi campi.

Così posso parlare dell’elzeviro che l’amico mi manda per messaggio, di un elzeviro particolarmente circostanziato che recensisce un libro atteso, di un articolo di commento del consigliere comunale riguardo a una vicenda locale che ha il tono e il respiro dell’elzeviro.

Una parola aulica eppure di massa quanto lo sono stati i quotidiani, che schiude usi fini, interessanti e calzanti — ed è sempre bello conservare in un nome vecchie fortune. (Specie se si ha la fortuna di averlo udito e appreso correttamente come ‘elzevìro’, e non come ‘elzèviro’ come chi scrive, che ogni singola volta, senza apparente possibilità di evitare la recidiva, deve correggerlo mentalmente.)

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

‘Al microscopio’ una parola al Giorno, oggi analizziamo insieme il vocabolo: Bizantino (bi-zan-tì-no)

SIGNIFICATO: Di Bisanzio, antico nome di Costantinopoli, ora Istanbul; dell’Impero romano d’Oriente; eccessivamente raffinato, decadente; sottile, cavilloso, capzioso, minuzioso, pedante

ETIMOLOGIA: voce dotta recuperata dal latino tardo Byzantinus ‘di Bisanzio’, derivato di Byzàntiumdal greco Byzántion.

  • «Questo è un regolamento bizantino, leggilo con attenzione».

Quando questa parola cala in una frase, le altre sembrano farle largo. È talmente raffinata e tagliente nel modo che ha di connotare il suo significato,  di una tradizione così consolidata, e forte di una figura così icastica, che non potrebbe essere altrimenti. Tutto vero, e adesso la esploriamo: eppure, potrebbe non esserci un ma?

Stiamo parlando di qualcosa che si riferisce alla città di Bisanzio. Bisanzio, poi Costantinopoli e adesso Istanbul, nell’odierna Turchia — una città che come forse sappiamo ha una storia lunga e ricca quanto poche altre al mondo. Con un piede in Occidente e un piede in Oriente, fu fra l’altro la seconda capitale dell’Impero romano, una seconda Roma. Come non di rado usava accadere (in effetti così è stato anche per la prima Roma, con Romolo), trae il suo nome da Byzas, fondatore greco (per la precisione megarese, della regione fra l’Attica e il Peloponneso, che comprende l’istmo di Corinto) che lì impiantò una colonia nel VII secolo a.C.. Peraltro a lui — che con tutta evidenza poteva contare su agganci altolocati — si attribuisce la costruzione della prima cinta di mura della città, eretta con l’aiuto di Apollo e Poseidone, a cui seguiranno nel IV e nel V secolo d.C. le mura costantiniane e le favolose mura teodosiane, che terranno la città al sicuro per l’onesto tempo di mille anni. Perché stiamo parlando di queste mura

Be’, perché mentre in Occidente l’Impero cadeva, in Oriente no. Da gente d’Occidente, e ancor più da gente d’Italia forse abbiamo qualche difficoltà a riconoscere che quell’Impero là, che sulle mappe colora le terre affacciate al levante del Mediterraneo, sia in effetti un Impero romano. Ma è una difficoltà nostra. Le genti di quelle terre chiamavano sé stesse Rhōmaîoi, cioè ‘Romani’ in greco, e anche nel mondo islamico al-Rūm sono i Romani, cioè gli abitanti dell’Impero d’Oriente. (E be’, senza andar lontani, la Romagna si chiama così perché per secoli l’Impero d’Oriente riuscì a conservarci una testa di ponte nella penisola — quindi c’erano i Romani.) Il termine ‘bizantino’ per qualificare quell’Impero e quella gente è molto, molto posteriore alla conquista di Costantinopoli da parte del sultano ventunenne Mehmet II, nel 1453 — s’ inizia a usare più stabilmente solo alle porte del Settecento. Durante i suoi dieci secoli di vita non usò affatto chiamarlo così.

Possiamo tagliarla in questo modo: ‘bizantino’ è un termine spregiativo. O almeno sminuente, che intende marcare un’: nasce in una mente collettiva che non vuole o non sa riconoscere quella specifica continuità, e che in una certa ignoranza fa emergere il sospetto e l’irrisione di una stranezza.
Già perché per noi ‘bizantino’, nei suoi significati figurati, non vuol dire solo ‘eccessivamente raffinato,  e decadente’: è anche il sottile, il , il minuzioso, il pedante. Posso parlare dei fasti bizantini della cena di rappresentanza, dell’eleganza bizantina sfoggiata per un’occasione estremamente , ma anche delle tue argomentazioni bizantine, di critiche bizantine mosse all’operato dell’amministrazione, della burocrazia bizantina che ci tocca affrontare.

La realtà dei fatti è che, mentre il nostro Francesco Petrarca piangeva sul manoscritto greco dell’opera di Omero perché non lo sapeva leggere, in Oriente la classe intellettuale non aveva mai perso contatto con gli autori dell’antichità. Le raffinatezze delle lettere, del diritto e delle scienze erano correnti, e al di là di Costantinopoli esistevano centri culturali di importanza capitale — , la Siria, Atene. Senza contare che un forte carattere di raffinatezza e formalismo è tipico delle corti alte e magnifiche, non delle corti cenciose (quali erano spesso quelle dell’Europa occidentale nel medioevo profondo): la cesura culturale con l’Occidente era profondissima, e c’era una insuperabile incomunicabilità. Tanto che gran parte di quel sapere, in Occidente, tornò solo con la mediazione araba.

Certo, anche l’Impero d’Oriente ebbe una fine, dopo aver preso e perso pezzi per secoli. Ma solo chi, terribilmente a posteriori, con quel pensiero che ci fa spiaccicare dieci secoli in un attimo, in una tendenza, in una cartina, legga nella sua  intera una sorte di rovina può associare il bizantino al decadente — all’ultimo atto, con l’Impero ridotto in pratica alla sola città di Costantinopoli e l’imperatore Costantino XI Paleologo di cui si perdono le tracce quando l’assedio ottomano fa breccia.

Dire che le regole imposte sono bizantine, dire che un arredamento è bizantino è senza dubbio un uso che fa forte effetto, che è capace di incidere sulla nostra  e agganciarsi a un immaginario affascinante, elevato e condiviso. Ma è bene saperlo: il bizantino , raffinato, , cavilloso, immerso in un languore stanco e annoiato è una fantasticheria.

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

‘Al microscopio’ una parola al giorno, oggi analizziamo insieme il vocabolo: Baco

Parole bestiali

bà-co.

SIGNIFICATO: Larva di insetto; difetto (in particolare di un sistema informatico);

ETIMOLOGIA: forse dal latino opacum, ‘oscuro’.

  • «Credo che sia bacata».

Che gli insetti siano poco attraenti è un dato di fatto largamente condiviso. A maggior  nella loro fase larvale, quando si contorcono strisciando di qui e di là. Ma, a essere giusti, chi ha  i loro nomi ha un po’ esagerato.

In latino “larva” era uno spettro , che aveva la stessa radice etimologica dei lari (le divinità protettrici della ), ma era molto meno simpatico. Quanto al baco, Nocentini propone la derivazione da opacum, nel significato di “ombroso, scuro” e quindi “”.

Certo è che lo spavento, coi bachi, qualcosa c’entra. Infatti una variante settentrionale di baco è bau, dal cui raddoppiamento nasce il , essere immaginario che evochiamo da sempre come  per i bambini.

Anche quando saltiamo fuori da dietro un angolo per spaventare qualcuno solitamente urliamo: “BU!” E, per quanto  sembri, questo  ha la stessa origine di “baco”, tanto che in Toscana “far baco baco”  appunto riapparire all’improvviso per spaventare o divertire i bambini, anche solo nascondendosi il viso con le mani (attività altrimenti detta bubù-settete).

E sì che il baco è uno degli esseri più  dell’universo, e può anche esserci parecchio utile. È da ben 5000 anni che i bozzoli pazientemente tessuti da alcune specie di falene (in particolare la Bombyx mori) sono altrettanto pazientemente sbozzolati per ricavarne la seta. Il che in effetti fa ridere: uno dei filati più  è, a conti fatti, bava di insetto.

Appunto la bachicoltura ha dato origine alla fortunata espressione “andare in vacca”, giacché talvolta le larve, ammalandosi, si gonfiavano come piccole vacche, spesso segnando la rovina del loro allevatore. Perfino l’aggettivo “”, calco dall’inglese bombastic, viene per vie insospettabili dalla specie Bombyx.

D’altra parte il termine baco si applica anche a creaturine meno affabili, ossia i vermetti che infestano la frutta o le farine. E questo forse spiega la loro  inquietante, dato che per i nostri predecessori la fame era sempre dietro l’angolo.

Ad ogni modo è in questa veste che il baco ha originato una cascata di termini, che continua a ruscellare tutt’ora. Anzitutto l’aggettivo “bacato”, volentieri riferito al cervello altrui e, più in generale, a qualunque cosa ci sembri guasta o imperfetta. In informatica poi il baco è l’equivalente del bug inglese, ossia il difetto di programmazione, che può far  il sistema.

Anche il verbo  si lega al baco, per gli amici settentrionali bigo. Ed è forse imparentato col bigotto, che per il suo comportamento fastidioso e gli abiti scuri può essere accostato a un insetto. Restando sul vestiario, poi, i bachi non sono forse estranei neppure a “imbacuccarsi”, derivato da “bacucco” ossia cappuccio. Del resto, meglio di un baco nel bozzolo non si imbacucca nessuno.

Peraltro i bachi, in un tocco di , hanno tenuto a battesimo anche i bigodini, che assomigliano appunto a vermetti, o meglio ancora a bachi in bozzolo. E, dulcis in fundo, nasce da loro anche il “”.

Infatti, oltre a  timore col loro aspetto e l’abilità di intrufolarsi dappertutto, le larve sono indiscutibilmente delle fannullone, il cui unico scopo nella vita è mangiare e dormire. Quando poi si imbozzolano sembrano proprio raggiungere l’apice della nullafacenza, anche se, viste le  incredibili che attraversano, in realtà è proprio il periodo in cui sono più impegnate.

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)