Parole bestiali
bà-co.
SIGNIFICATO: Larva di insetto; difetto (in particolare di un sistema informatico);
ETIMOLOGIA: forse dal latino opacum, ‘oscuro’.
Appunto la bachicoltura ha dato origine alla fortunata espressione “andare in vacca”, giacché talvolta le larve, ammalandosi, si gonfiavano come piccole vacche, spesso segnando la rovina del loro allevatore. Perfino l’aggettivo “bombastico”, calco dall’inglese bombastic, viene per vie insospettabili dalla specie Bombyx.
D’altra parte il termine baco si applica anche a creaturine meno affabili, ossia i vermetti che infestano la frutta o le farine. E questo forse spiega la loro aura inquietante, dato che per i nostri predecessori la fame era sempre dietro l’angolo.
Ad ogni modo è in questa veste che il baco ha originato una cascata di termini, che continua a ruscellare tutt’ora. Anzitutto l’aggettivo “bacato”, volentieri riferito al cervello altrui e, più in generale, a qualunque cosa ci sembri guasta o imperfetta. In informatica poi il baco è l’equivalente del bug inglese, ossia il difetto di programmazione, che può far inceppare il sistema.
Anche il verbo sbigottire si lega al baco, per gli amici settentrionali bigo. Ed è forse imparentato col bigotto, che per il suo comportamento fastidioso e gli abiti scuri può essere accostato a un insetto. Restando sul vestiario, poi, i bachi non sono forse estranei neppure a “imbacuccarsi”, derivato da “bacucco” ossia cappuccio. Del resto, meglio di un baco nel bozzolo non si imbacucca nessuno.
Peraltro i bachi, in un tocco di frivolezza, hanno tenuto a battesimo anche i bigodini, che assomigliano appunto a vermetti, o meglio ancora a bachi in bozzolo. E, dulcis in fundo, nasce da loro anche il “bighellone”.
Infatti, oltre a incutere timore col loro aspetto e l’abilità di intrufolarsi dappertutto, le larve sono indiscutibilmente delle fannullone, il cui unico scopo nella vita è mangiare e dormire. Quando poi si imbozzolano sembrano proprio raggiungere l’apice della nullafacenza, anche se, viste le trasformazioni incredibili che attraversano, in realtà è proprio il periodo in cui sono più impegnate.
Una parte importante e colorita del lessico della violenza, nella nostra lingua, ha un’origine germanica, e perciò non è poi strano che anche la tregua, cioè una sospensione delle ostilità, giunga da quel bacino. In particolare, per la sua speciale vicenda che ha visto il popolo longobardo sciogliersi nella gente d’Italia, è la lingua longobarda a fornirci tante di quelle dure parole — dall’arraffare al ghermire, dalla scherma alla grinfia, dalla faida allo sbrego, dalla baruffa allo spaccare alla zuffa. Ma ci fornisce anche la tregua.
Ora, in effetti l’antecedente del termine ‘tregua’ aveva un altro significato. Parliamo della voce longobarda ricostruita come trewwa — e ricordiamo che in longobardo non si scriveva, quindi le voci longobarde vanno ricostruite in ipotesi, anche a partire dalle loro latinizzazione, in questo caso treuua. Si trattava in sé di un patto, di un contratto, e questo nocciolo di significato lo vediamo in filigrana anche nella stregua, che acquista il profilo di un ‘criterio’ a partire da una sostanza di ‘accordo’. Peraltro è la stessa pianta che dà origine alla lealtà del tedesco Treue, e all’inglese true, ‘vero’. Ma quello della tregua era un patto particolare.
«Un patto di pace!» diranno subito i miei piccoli lettori. Tralasciando il particolare che la parola ‘pace’ è letteralmente una parente di ‘patto’, e che ogni pace che si stringe stringe un patto, rileviamo che la tregua è un patto di pace in attesa.
Uno dei problemi principali della società longobarda che passa nell’Italia medievale (forse una caratteristica onorevole, più che un problema, dal loro punto di vista) era il ricorso capillare alla vendetta per una miriade di sgarbi e danni, vendetta che poteva aprire la porta a dispendiosissime faide.
Così furono messi a punto diversi sistemi legali per dare un’alternativa meno prosciugante a questo genere di soluzione; in particolare la tregua era il contratto che garantiva la sospensione delle ostilità in attesa della sentenza definitiva — si sa, giustizia e vendetta tendono ad avere tempistiche differenti, ed era necessario congelare la situazione per poter avere uno stato delle ostilità su cui giudicare. Se nelle more del giudizio questi continuano ad ammazzarsi vicendevolmente cugini e nipoti, come dire?, la foto viene mossa.
Questa idea della sospensione temporanea e pattizia del conflitto piace — e piace la parola. Ha un successo praticamente completo, in italiano non vengono recuperati sinonimi dal latino classico (indutie ad esempio ha preso un’altra via generando l’indugiare, mora e pausa si riconoscono in tutt’altra salsa) e in effetti abbiamo solo un altro sinonimo relativamente preciso, cioè ‘armistizio’.
Che però è tanto più ingessato, tecnico e quasi lezioso nella sua formazione del latino moderno: nel primo elemento è trasparente, anche troppo, il riferimento alle armi, nel secondo è oscuro, anche troppo, il riferimento allo stare, al fermare (sistere in latino). Difatti l’armistizio ha una vita figurata molto più circoscritta intorno all’ambito militare.
La tregua invece già dal suono è un duro sospiro, conclusivo, viene bene anche detta col fiatone, e riesce a far sconfinare la sospensione del conflitto in una più ampia pausa, in un senso di requie — convergendo sulle vastità meno circostanziate della pace.
Infatti certo parliamo della tregua auspicata fra le due parti belligeranti, ma più quotidianamente diciamo che un dolorino non ci dà tregua, che finalmente il lavoro ci dà un po’ di tregua, che piove senza tregua da due settimane.
È una parola comune che mostra saggezza nell’accettare la permanenza del conflitto (che la tregua non risolve), e solidità nella sua versatile interruzione.