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Da Caiazzo in Vaticano e in RAI don Walter Insero ogni giovedì con la rubrica ‘BellaMa’

Dopo aver guidato per tanti anni la famosa basilica romana “degli artisti”, restando contestualmente cappellano della Rai e quindi assurgendo al ruolo di confessore del Sommo Pontefice, il caiatino don Walter Insero, fra l’altro autorevole scrittore, docente e quant’altro, da qualche tempo cura anche la rubrica televisiva”Bella Ma”, in onda su RaiDue ogni giovedì, che nell’ultima puntata, del 6 febbraio, ha affrontato tra l’altro argomenti spinosi come “Chi comanda nella Chiesa?”; “Dove si trova Dio?”
Un dialogo con Don Walter Insero, tutti i giovedì su Rai2 a BellaMa’, interessante sempre più.
In questa puntata di BellaMa’, continuando la riflessione della settimana scorsa, ci siamo chiesti: “Chi comanda nella Chiesa?” Come viene vissuto il “potere” nella comunità ecclesiale?
Per accedere al video, disponibile gratis (basta registrarsi con email) cliccare sulla foto o sul seguente link: RaiPlay: https://www.raiplay.it/…/BellaMa—Puntata-del-06022025….
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In anteprima “Bridget Jones. Un amore di ragazzo” e “September 5. La diretta che cambiò la storia”

Oltre le apparenze. Parliamo di due film che rivelano un tema o un approccio inaspettato rispetto alle premesse iniziali. Anzitutto “Bridget Jones. Un amore di ragazzo” diretto Michael Morris, quarto capitolo della saga dedicata all’“antieroina” tragicomica Bridget Jones, creata nel 1996 dalla giornalista Helen Fielding e al cinema dal 2001. A interpretarla la due volte Premio Oscar Renée Zellweger, che al di là del tracciato comico-sarcastico del racconto, questa volta si confronta con temi “densi” e importanti come la perdita della persona amata, l’elaborazione del lutto e le responsabilità educativo-genitoriali. L’impianto narrativo è sempre pop, con un umorismo frizzante e anche un po’ a briglia sciolta, ma non mancano suggestioni interessanti e commoventi. Inoltre, dopo il passaggio a Venezia81 arriva in sala l’ottimo thriller storico “September 5. La diretta che cambiò la storia” firmato da Tim Fehlbaum con Peter Sarsgaard, John Magaro, Ben Chaplin e Leonie Benesch. È il racconto dell’attentato terroristico durante le Olimpiadi di Monaco del 1972 nella prospettiva dei giornalisti sportivi dell’emittente Abc. Uno sguardo originale su una storia più volte trasposta sullo schermo che diventa una lezione di giornalismo e di comunicazione audiovisiva. Sorprendente.

“Bridget Jones. Un amore di ragazzo” (Cinema, 14.02; 27.02)
Fenomeno letterario e audiovisivo pop, etichettato in passato anche come “Chick Lit” – ovvero racconto di evasione profilato per un pubblico per lo più femminile –, il ciclo “Bridget Jones” uscito dalla penna della giornalista Helen Fielding nel corso di venticinque anni, e con quattro film, ha subito una trasformazione. Un’evoluzione che va dalla leggerezza iniziale giocata tra l’irriverente e lo scacciapensieri alla commedia odierna di stampo brillante con lampi di senso, una proposta che rinuncia a un umorismo di superficie per guadagnare profondità.

Il quarto e ultimo capitolo della saga è “Bridget Jones. Un amore di ragazzo” diretto Michael Morris (suo è “To Leslie”, 2023) e vede ancora una volta protagonista Renée Zellweger, attrice statunitense due volte Premio Oscar – la prima statuetta arrivata nel 2004 per “Ritorno a Cold Mountain”, la seconda nel 2020 per il biopic “Judy” – insieme agli attori britannici Chiwetel Ejiofor e Leo Woodall. Nel cast tornano (come cameo) Hugh Grant, Colin Firth, Emma Thompson, Gemma Jones e Jim Broadbent. Il film è nei cinema con Universal Pictures in anteprima il 14 febbraio e poi regolarmente dal 27 del mese.

La storia. Londra, oggi. Bridget Jones sta attraversando un periodo difficile, perché il suo amore di sempre, il marito Marc Darcy, è morto in una missione in Sudan. A lei spetta il compito di crescere i due figli preadolescenti e provare a rimettersi in partita con la vita. Due gli incontri che lasciano il segno: il giardiniere ventinovenne Roxter e l’insegnante di Scienze Scott Wallaker…

(from left) Mabel Darcy (Mila Jankovic), Bridget Jones (Renée Zellweger) and Billy Darcy (Casper Knopf) in Bridget Jones: Mad About the Boy, directed by Michael Morris.

Cos’ha di diverso quest’ultimo capitolo dedicato all’“antieroina” londinese, ex single in (disastrosa) carriera divenuta moglie e madre felice? Bridget Jones resta una pasticciona dal cuore buono, trascinante e simpatica. Tra i suoi pensieri non ci sono più amori idealizzati, valzer di cocktail o irresistibili goffaggini: Bridget deve assorbire il colpo della perdita dell’uomo amato un’intera vita, Mark Darcy, e al contempo tenersi in piedi per essere una buona madre per i due figli preadolescenti. Sia chiaro, non è un dramma, resta sempre una commedia simpatica e brillante. La differenza rispetto ai precedenti è che Bridget Jones rivede le ascisse e le ordinate delle sue priorità, occupandosi questa volta di vita vera, tra sentimenti, mancanze, dolorose perdite e responsabilità educative.

C’è sempre l’abbaglio seduttivo in chiave pop, è il (Toy) Boy del titolo. In verità la commedia non si spiaggia nella banalità prevedibile, ovvero dell’anteporre soluzioni avventurose alle responsabilità. Qui troviamo invece un’antieroina che diventa eroina: capisce, come molti le dicono, a partire dall’amato padre (sempre favoloso Jim Broadbent), che dopo il lutto non può limitarsi a sopravvivere ma deve ritrovare la scintilla per vivere di nuovo in pieno. E poi deve essere una madre presente, attenta a cogliere le esigenze e le fragilità della crescita dei due figli. In questo, la commedia regala alcuni passaggi splendidi e persino commoventi (come i messaggi con palloncini affidai alla memoria dell’amato Mark Darcy). Un film divertente, sempre scacciapensieri, che però schiude suggestioni piacevolmente inattese. Una commedia tarata sempre per un pubblico adulto che voglia coniugare note pop con riflessioni. Consigliabile, problematico-brillante.

“September 5. La diretta che cambiò la storia” (Cinema, 13.02)
Una bella sorpresa il thriller-dramma storico “September 5. La diretta che cambiò la storia” firmato dallo svizzero Tim Fehlbaum. Presentato in anteprima nella sezione Orizzonti Extra all’81a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia (2004), il film è nei cinema con Eagle Pictures dal 13 febbraio nel pieno della corsa ai Premi Oscar, dove è candidato per la miglior sceneggiatura originale. L’opera si confronta con il terrorismo di matrice antisemita, con il tragico assalto alla squadra israeliana durante le Olimpiadi di Monaco del 1972. A ben vedere, però, l’autore non mette in primo piano la vicenda – il confronto con il film “Munich” di Steven Spielberg del 2005 sarebbe stato difficile –, ma la affronta dalla regia di una redazione giornalistica televisiva della Abc. Tutto il film è giocato nel perimetro della comunicazione e della professione giornalistica, tra l’urgenza di dare la notizia, il desiderio di scoop e la responsabilità della verifica dei fatti, delle fonti. Protagonisti gli ottimi Peter Sarsgaard, John Magaro, Ben Chaplin e Leonie Benesch.

La storia. Monaco, 5 settembre 1972, Giochi olimpici. Nel cuore della notte nella redazione sportiva dell’emittente statunitense Abc alcuni giornalisti e operatori sentono degli spari arrivare dal villaggio sportivo. Subito partono i primi controlli e una troupe viene inviata direttamente nella zona degli alloggi: si comprende che è in corso un attentato contro la squadra israeliana. Parte la lunga diretta. Alla guida della redazione c’è il veterano Roone Arledge, alla regia è stato appena ingaggiato il giovane Geoff Mason. Tra gli operatori di lungo corso Marvin Bader affiancato dalla giovane interprete tedesca Marianne…

Roone Arledge (Peter Sarsgaard), Hank Hanson (Corey Johnson), Jacques Lesgardes (Zinedine Soualem),
Geoff Mason (John Magaro), Carter (Marcus Rutherford)
Gladys Deist (Georgina Rich), Marvin Bader (Ben Chaplin), Marianne Gebhard (Leonie Benesch) star in Paramount Pictures’ “SEPTEMBER 5” the film that unveils the decisive moment that forever changed media coverage and continues to impact live news today, set during the 1972 Munich Summer Olympics.

“Quello che mi ha attratto di ‘September 5’ – ha dichiarato il regista – è la speciale angolazione da cui viene raccontata la storia. Volevamo far luce su un aspetto di questa tragica giornata durante le Olimpiadi di Monaco del 1972: il ruolo dei media. Concentrandoci sulla prospettiva del reporter, ci confrontiamo con i dilemmi morali, etici, professionali e, in ultima analisi, psicologici dei giornalisti”. Tim Fehlbaum dà bene la linea del suo film, indicando dove è direzionato il racconto: recuperare la memoria storica dell’evento e al contempo allargare il campo dello sguardo, soffermandosi su uno degli attori in campo, ossia ruolo di giornalisti, Tv e media in generale.

Il film corre veloce come un thriller compatto e serrato, approfondendo soprattutto la psicologia dei personaggi, entrando nelle stanze della mente del gruppo di giornalisti e operatori chiamati a dare la notizia, a gestire lo scoop evitandone la spettacolarizzazione e facendo un racconto che rispetti etica e professionalità. Fehlbaum passa in rassegna i pensieri, le fibrillazioni di ogni elemento della piccola redazione, tra ambizioni, adrenalina, valori e timori. Così i fatti, i tasselli della storia, si impastano a riflessioni ed emozioni dei protagonisti. Un racconto che abita le 24-48 ore degli accadimenti (dal 5 al 6 settembre 1972), senza ulteriori indugi o sbavature. Tutto è circoscritto lì, a quelle ore e a quella redazione, il resto è sfumato sullo sfondo. Anche la chiusura, per tali motivi, appare asciutta, quasi sbrigativa, allo scadere della diretta. Un film che ha carattere, dinamica e ottimi interpreti, da recuperare soprattutto come acuto contributo alla rappresentazione del giornalismo sul grande schermo. Consigliabile, problematico, per dibattiti.

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Intelligenza artificiale. La Chiesa ha a cuore il destino dell’uomo e dei suoi legami sociali

Antiqua et Nova è il titolo (latino!) dell’ultimo documento vaticano sull’intelligenza artificiale, pubblicato la scorsa settimana dai Dicasteri per la Dottrina della fede e per la Cultura e l’Educazione.
Non è la prima volta che il Papa e gli organismi della curia romana si occupano di questo tema. Le prime apparizioni dell’intelligenza artificiale nei discorsi del pontefice datano 2019, mentre del 2020 è la Rome Call for AI Ethics (inglese!), promossa dalla Pontificia Accademia per la Vita. Nel 2024 vanno poi ricordati almeno i fondamentali messaggi papali per le giornate della pace e delle comunicazioni sociali e l’intervento del Papa sul tema al G7 in Puglia.
Questo forte interesse per il tema lascia non poche persone stupite, se non perplesse: perché il Papa, potendo parlare ai capi della terra, decide di dedicare il suo discorso all’intelligenza artificiale? La Chiesa non dovrebbe occuparsi del Vangelo, dei sacramenti, della promozione e della difesa della cristianità e dei suoi valori? Non ci stiamo facendo affascinare e prendere dai temi del mondo?
Nel mio piccolo – permettetemi la nota biografica – tutte le volte che partecipo a incontri su questo tema, la prima domanda che mi viene fatta, guardando la mia camicia da prete, è: “Scusi, ma perché lei è qui?”.
A ben vedere la risposta è più semplice del previsto e chiede solo di andare un poco oltre alcune immagini caricaturali dei cristiani.
La Chiesa, a tutti i livelli, si occupa di intelligenza artificiale perché, come Gesù, ha a cuore il destino dell’uomo e dei suoi legami sociali, e sappiamo bene come queste tecnologie hanno grande impatto sulla vita delle persone e della società. La Chiesa, come Gesù, ha uno sguardo preferenziale per i poveri e i sofferenti, e sa bene che queste tecnologie rischiano seriamente di aumentare il divario tra ricchi e poveri, tra nord e sud del mondo. La Chiesa, come Gesù, è attenta ai più piccoli e per questo è promotrice delle più grandi reti al mondo di scuole e ospedali, e sa bene che questi sistemi stanno cambiando (anche in meglio, fortunatamente) il modo di educare e curare.
Per dirla in sintesi: la Chiesa si occupa dell’intelligenza artificiale perché questa è la tecnologia del momento, e i cristiani si muovono e agiscono secondo quella logica tipica di Dio che si chiama incarnazione: si abita il tempo che ci è dato.
Anche il modo con cui il Pontefice e la curia romana si sta ponendo in questo tema è quello che impara da Gesù: ci si mette al servizio, con franchezza e rispetto, sapendo (come ha detto Papa Francesco nel 2020) che “come credenti non abbiamo nozioni già prestabilite con cui rispondere alle domande inedite che la storia oggi ci pone. Il nostro compito è piuttosto di camminare insieme agli altri, ascoltando con attenzione e mettendo in collegamento esperienza e riflessione. Dobbiamo lasciarci interpellare come credenti, perché la Parola e la Tradizione della fede ci aiutino a interpretare i fenomeni del nostro mondo, individuando cammini di umanizzazione, e pertanto di amorevole evangelizzazione, da percorrere insieme. Così potremo dialogare in maniera proficua con tutti coloro che sono alla ricerca dello sviluppo umano, mantenendo al centro della conoscenza e delle pratiche sociali la persona in tutte le sue dimensioni, incluse quelle spirituali. Siamo di fronte a un compito che coinvolge la famiglia umana nel suo complesso”.
Gesù ha costituito la sua Chiesa per annunciare la Buona Notizia del Regno che sgorga dalla sua Pasqua, la più clamorosa apertura sul futuro (una vita che non muore) mai accaduta nella storia. Siamo uomini e donne che fanno memoria del passato non per ripeterlo o custodirlo, ma per costruire, oggi, un futuro più umano, cioè secondo il cuore di Dio.
Antiqua et Nova, passato e futuro, latino e inglese, AI Ethics!

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Treviso. Per una nuova cultura della mobilità: ai Giovedì della cultura si parla di biciclette e mobilità

É Markus Lobis, amministratore delegato di Kyklos srl, l’ospite dell’appuntamento di giovedì 13 febbraio, alle ore 18, con i Giovedì della Cultura, ospitati a Casa dei Carraresi; tema della conferenza sarà: “Mobilità attiva: per una nuova cultura della mobilità”.

La mobilità, l’utilizzo e le qualità dello spazio in cui viviamo non possono essere pianificati e progettati separatamente. Negli ultimi decenni una pianificazione dei trasporti fortemente incentrata sulle automobili private ha plasmato l’immagine delle nostre città e ha compromesso la qualità di molti habitat umani.

Per questo la sfida di oggi deve essere quella di eliminare la classica pianificazione dei trasporti per passare a una pianificazione globale della mobilità in cui tutte le forme di mobilità possano trovare gli spazi e le strutture di cui hanno bisogno per una coesistenza in un ambiente urbano vivace e attraente.

La mobilità attiva, ovvero gli spostamenti a piedi e in bicicletta, collegata a sistemi di trasporto pubblico all’altezza dei tempi, può contribuire in modo decisivo a rendere più vivibili i nostri spazi vitali e a trasformarli in spazi di sviluppo sociale.

Markus Lobis

Nato a Bressanone, risiede a Bolzano. Ha seguito corsi universitari in Giurisprudenza e Marketing lavorando nel management di diverse aziende del settore tecnico/domotico. E’ stato consulente presso il Parlamento Europeo per le politiche trasportistiche e di sostenibilità, specializzandosi nel campo della mobilità sostenibile con particolare riferimento alla mobilità attiva. E’ socio fondatore e amministratore delegato di Kyklos Srl.

Iniziati nel 2019, gli appuntamenti settimanali sono stati sino ad oggi 176.

Dopo la conferenza, per chi vorrà fermarsi a cena, il Ristorante ai Brittoni propone una cena a tema “Cucina green Cibo sano e sostenibile per chi ama esplorare su due ruote” (costo 30 euro bevande escluse).

(Dott.ssa Antonella Stelitano, Fondazione Cassamarca – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

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Cava de’ Tirreni (SA) ‘150 Elvira Coda Notari’: sabato giornata celebrativa dela prima regista italiana

L’evento ha avuto l’alto patrocinio del parlamento europeo.

In occasione del 150° anniversario dalla nascita di Elvira Coda, figura di spicco e pioniera del cinema italiano, la Macass APS e Linea d’Ombra Festival promuovono per sabato 8 febbraio 2025, presso la Sala Teatro “Luca Barba” (Corso Umberto I, 153) una giornata di celebrazione dedicata alla regista vissuta a Cava de’ Tirreni. L’evento dal titolo “150 Elvira Coda Notari”, fonde in un unico percorso narrativo una mostra, un talk, letture a confronto e proiezioni, consentendo di ripercorrere la vita e le opere della prima regista italiana.

“150 Elvira Coda Notari” gode dell’Alto patrocinio del Parlamento Europeo, del Centro Sperimentale di Cinematografia, dell’Unione Circoli Cinematografici Arci e dell’ANPI Prov. Salerno, in collaborazione con la Cineteca di Bologna e la Film Commission Campania.

Il progetto è realizzato in sinergia con l’amministrazione comunale di Cava de’ Tirreni, con il contributo di Tremil, UeUork e Damì ed i festival partner Pigneto Film Festival e Europa Cinema al Femminile.

Libero Pensiero News è media partner. La direzione artistica dell’evento è a cura di Sara C. Santoriello (Macass APS) e Peppe D’Antonio (LDO Festival).

L’iniziativa fortemente sostenuta dal Consigliere di Cava in Azione Federico De Filippis – delegato ai festeggiamenti per i 150 anni dell’ ELVIRA CODA NOTARI – che così commenta l’iniziativa evento portata avanti: “da appassionato ed amante del cinema non posso essere che orgoglioso per le origini cavesi di una figura primaria del cinema mondiale quale è quella di Elvira Coda Notari prima regista donna. Questo è solo il primo di una serie di grandi eventi e manifestazioni che si svolgeranno a Cava nel corso di quest’anno per celebrare i 150 anni dalla nascita della regista”.

La giornata inizia alle 9.30 con l’inaugurazione della mostra che offre l’opportunità di esplorare la vita e le opere della regista. Questo viaggio nella settima arte è realizzato con una selezione di materiali fotografici, provenienti dal Fondo Martinelli della Cineteca di Bologna. La chiusura del percorso espositivo è prevista per le ore 23.00.

Alle 10 c’è il talk che consente di approfondire, sotto molteplici sfaccettature, la figura di Elvira Coda. “Elvira nella storia del cinema”il titolo dell’incontro, verde gli interventi di Giuliana Bruno (in video), docente presso l’Università di Harvard e autrice del libro “Rovine con vista. Napoli e il cinema di Elvira Notari” (1995; 2023), di Sara Matetich, docente dell’Università di Salerno e, infine, di Francesca Amitrano, direttrice della fotografia e regista.

“L’eredità contemporanea”secondo momento della mattinata, offre uno spaccato sul cinema indipendente e sul lascito eccezionale del lavoro di Elvira Coda Notari. Sarà l’occasione per ricordare la censura che colpì le opere della regista, ritenute moralmente ambigue dal regime fascista.

Partecipano Francesco Della Calce, critico cinematografico e curatore delle celebrazioni nella città metelliana; Maria Di Serio, Associazione Nazionale Partigiani Italiani – Provincia di Salerno; Paolo Battista, Circolo Arci “Marea” Salerno, e Antonio Borrelli, UCCA (Unione dei Circoli Cinematografici Arci).

Moderano i direttori artistici dell’evento: Peppe D’Antonio, Linea d’Ombra Festival, e Sara C. Santoriello, Macass APS.

Previsti i saluti istituzionali del sindaco del Comune di Cava de’ Tirreni, Vincenzo Servalli, e del consigliere comunale, Federico De Filippis, delegato alle celebrazioni per i 150 anni di Elvira Coda Notari.

Nel pomeriggio, alle ore 17.30, letture a confrontoUn dialogo tra opere letterarie dedicate alla figura di Elvira Coda, con la presenza di Flavia Amabile, autrice di “Elvira” (2022), e di Emanuele Coen, autore de “La Figlia del Vesuvio” (2023). L’incontro è moderato da Gennaro Carillo, condirettore di Salerno Letteratura Festival. Partecipa l’assessora Lorena Iuliano che contestualmente inaugura il progetto “Cava Che Legge”, al cui interno è inserito “150 Elvira Coda Notari”.

Alle 20.30 le proiezioni. La Macass APS presenta i cortometraggi insigniti del “Premio Elvira Coda” (2021-2024), dei quali ha curato la produzione nell’ambito del videocontest di storytelling audiovisivo “La 48H” (MAC Fest). In sala i vincitori: Gabriele Angrisani, Vincenzo Giordano e Simone Romano.  La giornata si conclude poi con la visione di “È Piccerella” di Elvira Coda, una riproduzione patrocinata dal Centro Sperimentale di Cinematografia e accompagnata dalla sonorizzazione dal vivo, a cura del duo Made in Swing. Ad introdurre la proiezione, Peppe D’Antonio.

BREVE BIO DI ELVIRA CODA

Nata a Salerno nel 1875 e vissuta prima a Napoli e poi a Cava de’ Tirreni, fu la prima regista italiana. Con il suo operato ha rivoluzionato il mondo del cinema, portando una visione eclettica e innovativa, fatta di tecnica e di creatività.

Anticipatrice del neorealismo, le sue pellicole si contraddistinguono per narrazioni autentiche e talvolta crude, passando dalla violenza di genere alla guerra, dalle celebrazioni popolari all’emancipazione dalla povertà.

 «La storia di Elvira Coda è assolutamente contemporanea e il suo sguardo sul XX secolo è un patrimonio inestimabile, riunito in un trittico di innovazione mediatica, denuncia femminile e impresa, attraverso cui riuscì a dare dignità sullo schermo a storie vere, popolari, articolate dal dialetto come proprio stile e forza narrante. La regista, prima in Italia, fu un’antifascista nella pratica quotidiana, dettaglio non di poco conto che ricordiamo in occasione dell’80° anniversario dalla Liberazione» – dichiara Sara C. Santoriello (Macass APS).

(Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

Per Peppe D’Antonio le vicende culturali e imprenditoriali della Notari sono di straordinaria rilevanza, anticipano il movimento profondo di emancipazione della donna, ne indicano una prospettiva, segnano un punto di rottura con un ordine che, di lì a poco, il fascismo ripristinerà. Le poche immagini dei suoi lavori posseggono potenza visiva ed emotiva, e raccolgono dallo spazio urbano storie, culture, forme di vita per darne, con l’immagine, dignità di storia. Il tutto con un’inedita e perturbante visione del corpo femminile agito tra eros e thanatos. 

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Le mia arma: il Vangelo in ogni passo del cammino

“Le forze dell’ordine – militari e polizia – hanno per missione di garantire un ambiente sicuro, affinché ogni cittadino possa vivere in pace e serenità”. Con queste parole, il 30 aprile 2016, Francesco accoglieva in piazza San Pietro, i militari e le forze di Polizia, riuniti per il Giubileo straordinario della Misericordia. Nelle sue parole l’esortazione a divenire, nella loro professione “strumenti di riconciliazione, costruttori di ponti e seminatori di pace” ma anche l’invito, “di fronte alle sfide di ogni giorno”, a far “risplendere la speranza cristiana”. E proprio alla speranza papa Francesco ha voluto dedicare il grande Giubileo ordinario, da lui stesso aperto la sera dello scorso 24 dicembre.

Secondo i dati resi noti dalla sala stampa vaticana, sono circa trenta mila gli iscritti all’evento di oggi e di domenica, il secondo, dopo quello degli operatori della comunicazione, in ordine di tempo. Di questi, venti mila sono italiani, gli altri giungono soprattutto da Spagna, Stati Uniti, Slovacchia, Slovenia, Ucraina, Francia, Brasile, Croazia, Colombia, Paraguay, Indonesia, Argentina, Svizzera, Austria, Lituania, Belgio, Paesi Bassi, Ecuador, Irlanda, Australia, Nuova Zelanda. Oltre alle forze militari, di polizia e di sicurezza, parteciperanno al Giubileo tutti gli appartenenti ai vigili urbani, gli operatori di sicurezza, i veterani, le diverse associazioni militari, accademie militari, cappellanie e ordinariati militari, ovviamente insieme ai loro famigliari. Inoltre, anche se impegnati nella sicurezza del Papa e piazza san Pietro, saranno presenti le delegazioni delle Guardie svizzere, della Gendarmeria e del corpo dei Vigili del fuoco vaticani. Sempre la sala stampa ha reso noto che potranno celebrare il Giubileo anche i militari impegnati, per molti mesi, in mare o in situazioni difficili e particolari e quindi lontani dalle loro case.  “Non sono state aperte delle vere e proprie ‘Porte Sante’ –  ha detto ieri mons. Sergio Siddi, vicario generale dell’Ordinariato militare in Italia – ma nelle cappelle presenti all’interno delle imbarcazioni c’è la possibilità di vivere un momento di preghiera e di speranza in questo senso. Nel mondo, poi, molte cappelle dedicate al mondo militare, a volte costituite da una semplice tenda, sono divenute “chiese giubilari”.

“Per noi militari, e soprattutto fedeli – dice al Sir Marco, 40enne di Napoli, operativo nella Marina Militare di Roma –  il “nostro” Giubileo ha un significato enorme. È un appuntamento che ci aiuta a vivere in fratellanza, rendendoci più vicini alla Parola di Dio. Sono convinto che la fede, la speranza e la carità debbano sempre alimentare la nostra vita, supportandola con la preghiera per poter svolgere la nostra missione di militari mettendo sempre al centro l’uomo”

“La dimensione del pellegrinaggio – riprende Marco – deve caratterizzare la vita e la missione degli uomini e delle donne delle Forze Armate e di Polizia, segnando il cammino di fede di ciascuno di noi, sempre protesi ad aiutare quanti incontriamo nel nostro percorso, anche quando ci troviamo impegnati in compiti molto delicati, sia in Italia che in determinati teatri operativi all’estero. Inoltre – aggiunge – il nostro compito è proprio quello di proteggere e aiutare, ma soprattutto dare speranza a chi la speranza spesso l’ha persa, ma che però può ritrovarla nonostante tutte le avversità e difficoltà, grazie anche all’aiuto che possiamo dare noi”. Marco è stato impiegato in più missioni di supporto alla pace, tra le quali Afghanistan e Libia. “Ho sempre portato con me un Vangelo, nella tasca e nel mio cuore. In particolare faccio miei alcuni versetti del salmo 22: ‘Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla… Se dovessi camminare in una valle oscura non temerei alcun male perché tu sei con me’. Il Vangelo e i versetti di questo salmo in particolare sono sempre state le ‘mie armi più forti’, grazie alle quali ho potuto affrontare scenari sia difficili che più tranquilli”. Da qui l’invito a tutti “i miei colleghi a fare ricorso alla preghiera: una preghiera forte che possa difendere e dare speranza sempre a noi innanzitutto e poi  e alla nostra amata Patria”.

(foto Ministero della Difesa)

Insieme ai militari, come pellegrini sia in piazza che verso la porta santa, ci saranno i rappresentanti delle forze di sicurezza e di polizia. “I poliziotti per il delicato lavoro che svolgono, guardano con speranza al Giubileo Universale voluto da Papa Francesco – dice al Sir Giuseppe Tiani, Segretario Generale del Siap (Sindacato Italiano Appartenenti Polizia) – e confidano nella rinascita e pratica quotidiana dei valori fondanti della verità, libertà, giustizia, pace e carità per un nuovo umanesimo. La cifra del nostro impegno come sindacato che rappresenta uomini e donne della Polizia di Stato – prosegue Tiani – è la cultura Democratica per la sicurezza e la legalità. Ritengo irrinunciabile il rispetto della dignità di ogni persona per il bene comune, la sussidiarietà e solidarietà fraterna per i diritti umani, nella speranza di una rinnovata pratica d’intendere l’umanesimo, specie in una fase del mondo e del paese così incerta e preoccupante”. “Confidiamo e speriamo – conclude Tiani – che lo spirito dell’enciclica Populorum Progressio di Papa Paolo VI nel 1967, sia una guida che porti ogni persona e gli uomini che decidono le sorti del mondo e di interi Paesi a rispettare i valori inalienabili della vita e libertà di ogni essere umano, attraverso il rispetto della legge e la pratica della legalità e delle fedi per lo sviluppo di ogni popolo”.

Foto Calvarese/SIR

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Tra Libia e Usa

A voler focalizzare, due questioni, tra le altre – con molte delle quali sono intrecciate -, tengono banco in queste settimane: il caso “Almasri” e il “Trump-show”. Sul “capo-carceriere” libico – arrestato, appena arrivato in Italia, su mandato della Corte penale internazionale per crimini contro l’umanità e subito liberato, anzi accompagnato a casa con un nostro volo di Stato – si spera che si concluda presto la querelle, magari dopo che avranno relazionato in Parlamento i ministri della Difesa Nordio e dell’Interno Piantedosi, essendosi defilata la presidente del Consiglio Meloni (nonostante le insistenze delle opposizioni: ma non sono queste – replicano dal centrodestra – a dover stabilire chi riferisce in aula!). Anche perché (pure senza la sfuriata di Vespa…) abbiamo capito tutti che la questione è piuttosto complessa e che, per quanto sia spiacevole, è meglio stendere su di essa un velo (poco) pietoso, per “ragion di Stato”. Come sapevano bene i furbi tedeschi che – con i loro problemi anch’essi -, dopo aver pedinato il condannato in giro per l’Europa, l’hanno segnalato all’Aia quando era arrivato in Italia a godersi una partita… E come sanno anche le nostre opposizioni che, dopo aver dovuto a malincuore applaudire la brillante operazione internazionale per la liberazione-lampo della giovane giornalista Cecilia Sala, non vedevano l’ora di aver qualcos’altro da rinfacciare alla troppo efficiente primadonna Giorgia. In realtà, il tema si riallaccia con la più ampia e ben più complessa questione “migranti”, che tiene sulle spine l’intera UE e gli stessi USA, e su cui il governo, che intenderebbe essere pressoché risolutivo, sta accumulando figuracce per l’infelice operazione Albania con ben tre plateali retromarce consecutive, imposte dalla magistratura. E si riallaccia, evidentemente, appunto con l’altra pluridecennale questione del rapporto politica-magistratura, dove appare sempre più evidente la prevaricazione della seconda sulla prima.
Sul “Trump-show”, a parte i giochi d’artificio iniziali, è comunque difficile che il discorso si concluda presto e, come se n’è parlato e scritto tanto, così si dovrà continuare a fare ancora per molto, dato che il tipo non sembra prediligere “conversioni”. E’ pur vero che sul canale di Panama e sulla Groenlandia s’è capito che l’ha voluta sparare grossa (o no?) e sui dazi a Messico e Canada li ha rinviati di un mese mentre è già disponibile a trattare con la Cina. Ma l’atteggiamento del tycoon, che s’è subito ritirato dall’Organizzazione mondiale della Sanità e dagli accordi di Parigi sul contrasto alla crisi climatica, appare preoccupante un po’ per tutti, nei quattro punti cardinali con il piglio di un nuovo imperialismo e in Occidente – come vuol precisare qualche acuto commentatore – con la deriva nazionalistica, populistica e ipercompetitiva in contrapposizione ad un’Europa che intenderebbe restare fedele – non si sa per quanto tempo ancora – al modello multipolare e più autenticamente democratico che avrebbe (avuto) in comune con gli USA. Anche questa seconda questione ha i suoi palesi collegamenti. Ad esempio con la “guerra commerciale” che si trascina da anni e che, al parere di molti, sarebbe dannosa per tutti, America compresa (forse poi l’ha capito anche Trump…). E si collega con le quinte colonne nel cuore dell’UE, rappresentate dallo slovacco Fico e dall’ungherese Orbàn, che fanno volentieri da sponda alla destra americana (sulla Meloni non si sa bene se in Italia piaccia di più il suo ruolo di mediatrice o quello di “fedele amica”). E ancora con le visioni geopolitiche e geostrategiche in merito a Israele (col “patto di ferro” siglato martedì…) e Ucraina (con il “benservito” all’eroe della resistenza Zelensky, già concesso al criminale patentato Putin grazie all’escamotage delle elezioni…). E intanto il “portaBorsa” Musk lancia, in parallelo col MAGA, persino il MEGA (Make Europe Great Again) che suona anche meglio ma che difficilmente può combinarsi col primo se non come tentativo di destabilizzazione universale.

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Card. Pizzaballa: “Hope is not a political solution to the conflict, now is the time to raise questions about the future”

“In the Holy Land, we should resist the temptation to confuse hope with a political solution to the conflict, which is nowhere in sight, except perhaps for the next generation. Indeed, these are two very different things. Hope is not a rallying cry, but a way of seeing things and a way of being.”

This is the conviction of the Latin Patriarch of Jerusalem, Cardinal Pierbattista Pizzaballa who on Thursday received in the Holy City a group of pilgrims, lay, religious and priests, from the dioceses of Milan, Trento, Brescia, Tortona, Piacenza and Novara, accompanied by Adriana Sigilli (Diomira Travel). The pilgrimage, which began on 3 February and will continue until 7 February, has as its theme that of the Jubilee 2025: “Pilgrims of hope”, which was the common thread running through the Patriarch’s dialogue with the pilgrims. SIR met with Card. Pizzaballa on the sidelines of the meeting.

Your Eminence, the Holy Year is dedicated to hope. Is it possible to speak of hope in a land torn by violence and war?

Hope is not a slogan, but a way of seeing things and a way of being in life. When I meet people, I find it difficult to talk about hope, given the current circumstances: we have to be realistic. We are disciples of the Word made flesh,

Faith must have something practical to say about real life, not an abstract idea.

Hope must not be separated from the faith on which it is based. This also applies to the lay faithful. Moreover, the people I meet are signs of hope. While there is indeed tremendous suffering – just think of the violence of the last year and a half – there are also countless men and women who continue to risk their lives. There are so many righteous people for whom it is worthwhile to continue to strive. There is one more sign of hope that we must not forget …

What is it?

Here in the Holy Land, keeping hope alive is also about openness to the future, accepting others as they are and not as we would like them to be. As a Church, we have “lived” the war from the outside and from the inside; there are different ways of experiencing the conflict.

In this last war there were Christians in the Israeli army and among the people of Gaza. It was not an easy task to deal with this diversity of opinions. Our choice of language was clear, honest and sincere, without being closed to dialogue and relations.

There is no need to build barriers, because in contexts such as today’s, we must engage in dialogue with everyone. We must be aware of this without giving up.

The ceasefire in Gaza and Lebanon seems to be holding, but as you have said on several occasions, the ceasefire is by no means the end of the conflict. What is needed to end this conflict and defuse tensions in the West Bank?

What is needed is a new vision and a new leadership. In my view, the conditions for serious and constructive discussions about the future do not exist today. Certainly, something has to be done in the short term, but it is also necessary to focus on the long term. I doubt that the conflict will end any time soon.

There must also be clarity about what is to be done, what the end result will be and what is possible in practice. These discussions cannot take place without new interlocutors.

You have said on several occasions that once the war is over there will have to be a new political – and religious – leadership, new faces and a different vocabulary. After some 16 months of war, do you still believe that this kind of change is possible?

Regarding the need for new leadership, I think there is not much to argue about. With all due respect, I doubt that Abu Mazen and Netanyahu are the men with a vision for the future. Besides, a religious vision and narrative also underpins politics. The settlers have a very specific religious narrative. What is needed is a religious leadership capable of developing a solid, serious, Scripture-based religious narrative about the Holy Land, which is not that of the settlers. This would make it possible to have a different and important voice on a cultural and interreligious level.

What is the situation like in the Church of the Holy Family of the Latin Patriarchate, which hosts around 500 Christian refugees?

The situation in Gaza has changed since the ceasefire. The Christian population now has some respite, the bombs have stopped falling. In the last few days, the refugees sheltered inside the parish have gone out to see what was left of their homes. Almost all of them were completely destroyed, the more fortunate ones were partially destroyed and inaccessible, with no water, no electricity, no sewer system. They all returned to the parish compound, where they have a roof over their heads, food and a school. Now is the time to ask questions about their future and that of the Strip. We will have a clearer picture of what comes next in the coming months. It is not up to us alone. Even if we had the resources to rebuild, we would still have to work out what to rebuild and where.

There is little point in rebuilding a house if there is nothing left around it. We are waiting to see if there are plans, if the borders will open, for whom and under what conditions. This is the most difficult phase, trying to figure out how to restart.

Have you felt the closeness of the universal Church during the last year and a half of the war?

Most definitely. This closeness has been expressed in practical, concrete ways. We have also made it known publicly. The aid we received allowed us to do things that we would not have done otherwise, such as bringing food to Gaza to be distributed not only to our fellow Christians but to all those in need. When we launched the appeal for Gaza, we were met with enormous solidarity, both from the faithful of our diocese and from the faithful of Churches all over the world, in Africa and the Far East. For us it was a gesture of proximity that we greatly appreciated.

Speaking of dialogue: Nostra Aetate, the Second Vatican Council’s document on the Catholic Church’s relations with non-Christian religions, marks its 60th anniversary (1965-2025). What does this text still have to say with regard to the dialogue with Judaism?

The important work that has been done thanks to this document is not yet finished. But I think it has run out of steam. Today we have to tackle other questions. In the past, we preferred not to discuss certain issues in order not to create problems. But today those problems have arisen all the same. I am referring to issues such as the interpretation of Scripture regarding the connection between Israel and the land, the special relationship that the people of Israel have with the State of Israel.

How has 7 October affected the dialogue with the Jews?

The fact is that we have not been able to meet since 7 October.

Many things have changed since 7 October. We need to rebuild our relations and identify together the ground on which to rebuild them.

The dialogue so far could be described as an elite dialogue, conducted by scholars and experts. Now we need to bring together priests, rabbis, imams and communities.

Speaking of communities, in meetings with the Christian communities in Bethlehem, one senses strongly their fear for the future, their fear of being enclosed within the wall that surrounds them, or worse, of being forced to leave their land.

No one here has the emotional freedom to think about the future. The war has had a huge impact on the people and at the moment this kind of freedom to look forward is missing. Both Israelis and Palestinians feel this way, even though their circumstances are very different.

How can the Christian community dispel this fear?

We must continue to work, to pray, to dialogue. I continually encourage our communities to carry on as if there were no war. Even in Gaza. The faithful of the Parish of the Holy Family in Gaza are carrying on as they always have: liturgy, prayer, school, humanitarian assistance.

We must not let the war determine our decisions.

Another issue is the possibility to hold meetings: at the moment, everyone is closed in on themselves, and it is not at all easy for Palestinians and Israelis to meet.

One last question: on 25 January, at the end of the 58th Week of Prayer for Christian Unity, Pope Francis called for a common date for Easter. What are your thoughts on this?

The relations between the Churches here are progressing much better than in the past. The restoration works at the Basilica of the Holy Sepulchre (entrusted to La Sapienza University of Rome by the three communities in charge of the Basilica, the Greek Orthodox, the Custody of the Holy Land for Latin-rite Catholics and the Armenian Patriarchate, Ed.’s note) are a clear example of this. Our relations with the Churches are a pastoral mission; all the families are mixed and all want a unified Easter, which has already been done, at least partially, in Jordan, where all the communities follow both the Orthodox Easter and the Catholic Christmas. The same is happening in Cyprus. Because of pilgrimages to the Holy Land, Nazareth, Bethlehem and Jerusalem follow the Gregorian calendar, while all other communities follow the Julian calendar.

We understand that in the eyes of the civil authorities we must speak with one voice on all matters – taxation, politics and so on.

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La Giornata Mondiale dei Legumi è stata istituita nel 2019 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e si celebra ogni anno il 10 febbraio.

Perché nasce la Giornata Mondiale dei Legumi?

Per sensibilizzare sull’importanza dei legumi nella sicurezza alimentare, nella nutrizione, nell’agricoltura sostenibile e nella lotta ai cambiamenti climatici.

I legumi (come fagioli, lenticchie, ceci e piselli) sono una fonte preziosa di proteine vegetali e contribuiscono a ridurre l’impatto ambientale rispetto ad altre fonti proteiche, poiché richiedono meno acqua e migliorano la fertilità del suolo grazie alla capacità di fissare l’azoto.

L’istituzione della giornata segue il 2016, che era stato dichiarato dalla FAO “Anno Internazionale dei Legumi” per promuovere il loro consumo e produzione a livello globale.

Perché consumare legumi?

1. Ricchi di proteine
Contengono tra il 20% e il 25% di proteine sul peso secco, rendendoli una delle migliori fonti di proteine vegetali. Se combinati con cereali (es. riso e fagioli, pasta e ceci), forniscono un profilo amminoacidico completo, simile a quello delle proteine animali.
2. Alto contenuto di fibre
Favoriscono il senso di sazietà, utili per il controllo del peso.
Regolano il transito intestinale, prevenendo stitichezza.
Aiutano a ridurre il colesterolo LDL e a controllare la glicemia.
3. Basso indice glicemico
Ideali per le persone con diabete, poiché rilasciano energia lentamente senza causare picchi glicemici.
4. Fonte di minerali essenziali
Ferro: Importante per la prevenzione dell’anemia (da associare a vitamina C per un migliore assorbimento).
Magnesio: Favorisce la salute muscolare e nervosa.
Potassio: Regola la pressione sanguigna.
Zinco e Selenio: Rafforzano il sistema immunitario.
5. Ricchi di vitamine del Gruppo B
Essenziali per il metabolismo energetico e la salute del sistema nervoso.
6. Poveri di grassi e senza colesterolo
Contengono grassi sani e sono privi di colesterolo, ideali per la salute cardiovascolare.

Quali sono i legumi più consumati al mondo?

I legumi più consumati al mondo variano a seconda delle tradizioni culinarie e delle abitudini alimentari delle diverse regioni. Ecco i principali:

FAGIOLI
Sono tra i legumi più diffusi e ne esistono diverse varietà: fagioli neri, rossi (kidney), cannellini, borlotti, azuki, pinto. Molto consumati in America Latina, Stati Uniti, Europa e Asia. Base di piatti come chili con carne, feijoada brasiliana, riso e fagioli caraibico, minestrone italiano.

Insalata di fagioli con tonno, pomodori secchi e cipolla di Tropea

Il pancotto (di papà)

Zuppa di patate, cavolo e fagioli bianchi

LENTICCHIE
Varietà più comuni: rosse, verdi, marroni, nere (Beluga), gialle. Molto diffuse in India, Medio Oriente, Nord Africa e Europa. Ingredienti chiave in piatti come dahl indiano, zuppa di lenticchie, mujaddara araba.

Insalata di lenticchie e mele

Il ragout di lenticchie

Medaglioni di polenta, cotechino e lenticchie

CECI
Base di piatti come hummus, falafel, ceci in umido, farinata. Molto consumati in Medio Oriente, Mediterraneo, India e America Latina.

Baccalà con ceci e verdure

Hummus di ceci

Pancake salato con farina di ceci

SOIA
Uno dei legumi più prodotti al mondo, soprattutto in Cina, Stati Uniti, Brasile e Argentina.
Utilizzata per derivati come tofu, tempeh, miso, salsa di soia e latte di soia.

Insalatona gourmet. Ecco come prepararla!

Pollo marinato alla griglia con salsa chimichurri

PISELLI
Consumato fresco o secco in piatti come passati, zuppe e contorni. Diffuso in Europa, Nord America e Asia.

Muffins ai piselli con salsiccia fresca

Frittatina di pasta con piselli

Pasta mescafrancesca con cacio, ovo e piselli

FAVE
Molto comuni in Italia, Nord Africa e Medio Oriente. Spesso consumate fresche o in piatti come la fava bean soup, baccalà con fave, ful medames egiziano.

Crostoni di pane con pesto di fave, fave crude e salame

Fave e cicorie

Gnocchi su purea di fave, gamberi rossi e Pecorino Romano

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Card. Pizzaballa: “La speranza non è una soluzione politica del conflitto, adesso è il tempo delle domande sul futuro”

“In Terra Santa non dobbiamo cadere nella tentazione di confondere la speranza con una soluzione politica del conflitto che non vedremo, forse le generazioni dopo di noi. Sono, infatti, due cose diverse. La speranza non è uno slogan da urlare ma un modo di vedere e di stare nella vita”.

(Foto Diomira/Sir)

È la convinzione espressa dal patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa, che ieri nella città santa ha salutato un gruppo di pellegrini, laici, religiosi e sacerdoti, provenienti dalle diocesi di Milano, Trento, Brescia, Tortona, Piacenza e Novara, guidati da Adriana Sigilli (Diomira Travel). Partito il 3 febbraio (fino al 7), il pellegrinaggio ha come tema lo stesso del Giubileo 2025, “Pellegrini di speranza” ed è stato proprio questo il filo rosso di tutto il dialogo tra il patriarca e i pellegrini. Per l’occasione, il Sir ha incontrato il card. Pizzaballa.

Eminenza, siamo nell’Anno Santo dedicato alla speranza. Come si può parlare di speranza in un Terra segnata da violenze e guerre?
La speranza non è uno slogan ma un modo di vedere e di stare nella vita. Quando incontro le persone è difficile parlare di speranza nel contesto attuale perché bisogna essere concreti. Siamo i figli dell’Incarnazione,

la fede deve poter dire qualcosa di concreto nella vita reale, non certo di astratto.

La speranza non può essere disgiunta dalla fede che ne è fondamento. E questo vale anche a livello laico. Un segno di speranza, poi, è la gente stessa che incontro; è vero, c’è tanto male, pensiamo solo alla violenza di questo ultimo anno e mezzo, ma c’è anche tanta gente che continua a dare la vita. Ci sono tanti giusti per i quali vale la pena continuare a impegnarsi. C’è un ulteriore segnale di speranza che non dobbiamo dimenticare…

Quale?
Sperare qui in Terra Santa significa anche tenere aperta la strada per il futuro, avere coscienza dell’altro così com’è e non come vorresti che sia. Come Chiesa abbiamo ‘vissuto’ la guerra fuori e dentro, ci sono modi diversi di vedere il conflitto.

In questa ultima guerra avevamo cristiani sia nell’esercito che tra la popolazione di Gaza. Non è stato semplice gestire questa diversità di opinione. Abbiamo usato un linguaggio chiaro, onesto e sincero ma che non chiudesse al dialogo e alle relazioni.

Non serve erigere barriere perché, in contesti come l’attuale, bisogna dialogare con tutti. Avere coscienza di questo senza essere rinunciatari.

La tregua a Gaza e in Libano sembra reggere ma come più volte lei ha ripetuto, la tregua non è la fine del conflitto. Cosa serve, allora, per far cessare questo conflitto e abbassare la tensione in Cisgiordania
Abbiamo bisogno di una nuova visione e una nuova leadership. Non credo che si sia in condizioni, oggi, di avviare seri e costruttivi discorsi sul futuro. A breve termine qualcosa si deve certamente fare ma bisogna lavorare anche per il lungo periodo perché non credo che la fine del conflitto arriverà così presto.

E poi va chiarito cosa si vuole fare, dove si vuole arrivare e cosa si potrà concretamente fare. Discorsi che non si possono fare senza nuovi interlocutori.

Lei più volte ha ripetuto che, una volta finita la guerra, ci sarà bisogno di una nuova leadership politica e anche religiosa, di volti nuovi e di una lingua diversa. Dopo circa 16 mesi di guerra ritiene ancora possibile questo rinnovamento?
Sulla necessità di una nuova leadership credo ci sia poco da discutere. Con tutto il rispetto, non credo che Abu Mazen e Netanyahu saranno gli uomini che avranno una visione aperta al futuro. La politica, poi, si fonda anche su una visione e narrativa religiosa. I coloni, i settler, hanno una narrativa religiosa molto chiara. Abbiamo bisogno di una leadership religiosa capace di elaborare una narrativa religiosa sulla Terra Santa solida, seria, fondata sulle Scritture, che non sia quella dei coloni. Questo per consentire, a livello culturale e interreligioso, di avere qualcosa di diverso e di importante da dire.

Sfollati a Gaza (Foto Parrocchia latina)

Com’è la situazione dentro la parrocchia latina della Sacra Famiglia che accoglie circa 500 rifugiati cristiani?
Con la tregua, a Gaza la situazione è cambiata. I cristiani respirano un po’, le bombe non cadono più. I rifugiati all’interno della parrocchia in questi giorni sono usciti per andare a vedere cosa resta delle loro case. Quasi tutti le hanno trovate rase al suolo, i più fortunati parzialmente distrutte e inagibili, senza acqua, senza luce, senza fognatura. Così sono tornati tutti in parrocchia dove hanno un tetto, del cibo e la scuola. Comincia adesso il tempo delle domande sul futuro loro e della Striscia. Nei prossimi mesi si capirà meglio il da farsi. Non dipende solo da noi. Se anche avessimo i mezzi per ricostruire bisogna capire cosa si può riedificare e dove.

Ricostruire una casa quando intorno non c’è nulla non serve a molto. Aspettiamo di capire se c’è o meno un piano, se i confini saranno aperti e a chi e a quali condizioni. Questa è la fase più difficile, capire come ricominciare.

In questo anno e mezzo circa di guerra, avete sentito la vicinanza della Chiesa universale?
Sì, certamente. Lo è stata da un punto di vista pratico, concreto e lo abbiamo anche reso pubblico. L’aiuto ricevuto ci ha permesso di fare cose che altrimenti non avremmo potuto fare, come fare entrare cibo a Gaza da destinare non solo ai nostri cristiani ma a tutti quelli che erano nel bisogno. Quando è stato lanciato l’appello per Gaza abbiamo ricevuto tanta solidarietà sia dai fedeli della nostra diocesi che da quelli delle Chiese di tutto il mondo, Africa, Estremo Oriente. Per noi è stato un gesto di vicinanza che ci ha fatto piacere.

Parlando di dialogo: “Nostra aetate”, il documento del Vaticano II sui rapporti tra la Chiesa cattolica e le religioni non-cristiane, compie 60 anni (1965-2025). Cosa ha ancora da dire questo testo nell’ambito del dialogo con l’ebraismo?
Ciò che è stato fatto grazie a questo documento è importante e non è ancora concluso. Ma credo che abbia finito la sua spinta propulsiva. Ora dobbiamo parlare di altro. In passato abbiamo sempre evitato di parlare di alcuni argomenti per non avere problemi. Ma adesso li abbiamo ugualmente. Mi riferisco a temi come l’interpretazione delle Scritture sul legame tra Israele e la terra, il rapporto particolare che il popolo di Israele ha con lo Stato di Israele.

Foto ANSA/SIR

Quali effetti ha avuto il 7 ottobre sul dialogo con gli ebrei?
È un fatto che dal 7 ottobre non riusciamo ad incontrarci.

Il 7 ottobre ha cambiato molto abbiamo bisogno di ricostruire le nostre relazioni e cercare di capire insieme su cosa ricostruire il rapporto.

Fino ad oggi è stato un dialogo, diciamo così di élite, condotto da studiosi ed esperti, ora bisogna far incontrare i parroci, i rabbini, gli imam, le comunità.

A proposito di comunità, incontrando diversi cristiani di Betlemme, si percepisce forte la loro paura del futuro e di restare confinati dentro il muro che li circonda o, peggio, di essere costretti a lasciare le loro terre…
Nessuno qui è emozionalmente libero di pensare al futuro. La guerra ha avuto un impatto forte sulle popolazioni e non c’è, adesso, questa libertà di guardare avanti. Si tratta di una situazione comune tra israeliani e palestinesi, seppur ciascuno con situazioni estremamente diverse tra loro.

In che modo scacciare questa paura dalla comunità cristiana
Dobbiamo continuare a lavorare, a pregare, a dialogare. Alle nostre comunità dico sempre di agire come se non ci fosse la guerra. Anche a Gaza. Nella Striscia di Gaza, i fedeli della parrocchia della Sacra Famiglia fanno esattamente tutto come prima, liturgia, preghiera, scuola, assistenza umanitaria.

Non dobbiamo permettere che la guerra determini le nostre scelte.

Un altro punto è l’incontro: in questo momento ciascuno è chiuso in se stesso e per palestinesi e israeliani incontrarsi non è affatto semplice.

Un’ultima domanda: il 25 gennaio scorso, a conclusione della 58ª Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, Papa Francesco ha auspicato una data comune per la Pasqua, Che ne pensa
Le relazioni tra le Chiese qui vanno molto meglio che nel passato. I lavori al Santo Sepolcro, (affidati all’università La Sapienza di Roma dalle tre comunità che gestiscono la basilica, greco-ortodossi, Custodia di Terra Santa per i cattolici latini e armeni, ndr.) ne sono un chiaro esempio. Per noi il rapporto con le chiese è una missione pastorale; tutte le famiglie sono miste e vogliono l’unificazione della Pasqua che noi abbiamo già fatto, almeno parzialmente, in Giordania dove tutti seguono la Pasqua ortodossa e il Natale cattolico. Lo stesso avviene a Cipro. In Terra Santa, per via dei pellegrinaggi, Nazareth, Betlemme e Gerusalemme seguono il calendario gregoriano, tutte le altre parrocchie quello giuliano.

Abbiamo consapevolezza che davanti alle Autorità civili dobbiamo avere un’unica parola su tutto, sulle tasse da pagare, sulla politica e via dicendo.

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Da Marcianise a ‘Casa Sanremo’ l’azienda ‘Hopeland’ con ElleErre e la sua ‘Vuless Capì’

La marcianisana Hopeland a Casa Sanremo con ElleErre e la sua “Vuless Capì”.

ElleErre, uno dei talenti più promettenti della scena musicale italiana, torna con il nuovo singolo “Vuless Capì”, in uscita il 17 febbraio su tutte le piattaforme digitali e in rotazione radiofonica per l’etichetta Hopeland.

La traccia sarà presentata in anteprima a Casa Sanremo, il prestigioso spazio dedicato alla musica e alla cultura, tra il 13 e il 14 febbraio 2025, in concomitanza con la kermesse musicale del Festival.

“Vuless Capì” racconta una storia d’amore mai concretizzatasi, una relazione rimasta sospesa nel limbo delle possibilità.

Attraverso il testo intimo e diretto, ElleErre dà voce alle emozioni contrastanti di chi cerca risposte e significati in ciò che non è mai stato.

Attraverso un intreccio di sonorità moderne e melodie evocative, il brano cattura l’essenza di quei legami che restano a metà strada tra sogno e realtà.

La produzione firmata da Lord Bart impreziosisce il brano, creando un sound che bilancia delicatamente la vulnerabilità delle emozioni con l’energia pulsante di arrangiamenti ricercati.

Con questo singolo, ElleErre continua a definire la sua identità artistica, mescolando lirismo e sperimentazione sonora.

FOCUS SU “ELLEERRE”

Luciano Maria Rizzo, in arte ElleErre, è un chitarrista e cantastorie originario campano. Si avvicina alla musica da autodidatta, sviluppando la sua passione e ampliando le sue competenze attraverso lo studio del canto lirico e della chitarra jazz, che gli permettono di esplorare e sperimentare nuove sonorità.

Autore di brani inediti, fonda il gruppo pop/rock “The Bridges”, dove coltiva il suo talento nella composizione e nell’esecuzione musicale.

Il suo progetto solista si ispira alle melodie classiche della canzone italiana, arricchite con influenze rock e indie cantautoriale, per creare un sound autentico e originale.

La sua musica si basa su una missione artistica chiara, che ruota attorno a tre pilastri: Sincerità, Speranza e Romanticismo. Attraverso questi valori, Ellere invita il pubblico a vivere un viaggio musicale ricco di emozioni e di “Fantasia”.

Nel 2024 partecipa ai festival Je So’ Pazzo Music Festival e al Roma Music Festival, classificandosi come semifinalista in entrambi nella categoria inediti, dove si distingue per la qualità e l’unicità della sua proposta artistica.

Con il suo approccio che unisce tradizione e innovazione, ElleErre racconta storie che lasciano il segno, offrendo al pubblico un’esperienza musicale autentica e coinvolgente.

SOCIAL: https://www.instagram.com/elleerre_music/ – https://www.instagram.com/hopelandstudio/

(Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

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Caserta. Il Comune celebra gli 80 anni dalla ‘Resa’ d’intesa con il Centro Studi della Provincia

Collaborazione tra il Centro Studi della  Provincia di Caserta “Antica Terra di Lavoro” e il Comune di Caserta.
Il 29 aprile 2025 ricorreranno gli 80 anni della “Resa di Caserta”, l’atto che ufficializzò la fine della Seconda Guerra Mondiale in Italia attraverso la firma della resa incondizionata nelle mani degli Alleati da parte degli ufficiali della Germania nazista. Il documento, sottoscritto nel Quartier generale delle forze alleate all’interno della Reggia vanvitelliana, divenne operativo il 2 maggio e costituì il prodromo della fine della guerra in Europa e nel mondo.
«Celebrare questo anniversario – sostiene il presidente del Centro Studi Tommaso Tartaglione – significa celebrare la libertà e la pace, tanto più importante oggi in un mondo dilaniato da conflitti in una sorta di “terza guerra mondiale a pezzi”.
La celebrazione della “Resa di Caserta”, quale pietra tombale di una micidiale ideologia, riveste grande attualità, considerato il mancato riconoscimento della dignità umana e del diritto alla libertà di dissentire pubblicamente dall’ideologia dello Stato, laica o “religiosa”, ancora oggi in molte parti del mondo.
Il Centro Studi della Provincia di Caserta ha, dunque, voluto ricordare la centralità del capoluogo della Terra di Lavoro nella fine della Seconda Guerra Mondiale in Italia e ha, pertanto, offerto la propria collaborazione al Comune di Caserta per l’organizzazione delle celebrazioni, coinvolgendo le istituzioni e la società civile.
Naturalmente, in quanto festa di tutta la città, saremmo ben lieti di accogliere chiunque voglia dare il proprio contributo alla realizzazione di questo evento, nell’ambito delle linee guida tracciate dal Comune».
Centro Studi della Provincia di Caserta “Antica Terra di Lavoro” – info@centrostudicaserta.it
(Salvatore Candalino – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)
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Caserta. Procedure di assistenza al neonato: l’Azienda Ospedaliera sul podio dei Nursing Simulation Games

Per qualità e tempi di esecuzione delle principali procedure neonatali, il team infermieristico dell’Unità operativa di Neonatologia dell’Azienda Ospedaliera “Sant’Anna e San Sebastiano” di Caserta si è classificato al primo posto dei Nursing Simulation Games della Campania nella categoria Infermieri di Centro Nascita.

L’evento, alla sua terza edizione, si è svolto a Napoli su iniziativa della Società Italiana di Neonatologia Infermieristica, che ha coinvolto gli staff infermieristici delle aziende ospedaliere e sanitarie regionali in una competizione a carattere formativo, nel corso della quale le squadre, composte ciascuna da tre infermieri e una riserva, hanno simulato interventi infermieristici di assistenza al neonato, sfidandosi nell’ambito di due categorie distinte: Infermieri di Centro Nascita e Infermieri di TIN (Terapia Intensiva Neonatale).

Le simulazioni, finalizzate a favorire un confronto dialettico sulle criticità comuni e le possibili soluzioni nell’ottica del miglioramento delle prestazioni sanitarie, hanno riguardato i seguenti settori: rianimazione in sala parto, farmacologia, strategie di contenimento delle infezioni nel neonato, ventilazione non invasiva, emergenze.

Valutando le singole prove sulla base della precisione della procedura eseguita e del tempo di esecuzione, la giuria ha assegnato il primo posto in classifica, nella categoria Infermieri di Centro Nascita, al team infermieristico dell’AORN “Sant’Anna e San Sebastiano”, rappresentato da Carmela Boccagna, Antonio De Costanzo, Vincenza Delli Paoli, Ilenia Ruggiero.

Le procedure infermieristiche di assistenza al neonato -evidenziano il direttore dell’Uoc di Neonatologia con TIN e TNE dell’Azienda Ospedaliera di Caserta, Italo Bernardo, e la coordinatrice infermieristica, Mariangela Errico- sono fondamentali sia per il neonato sano sia per quello patologico. Gli infermieri del Nido supportano la coppia mamma-bambino nelle fasi di adattamento del piccolo alla vita extrauterina, nella puericultura, nell’igiene del neonato, nell’allattamento al seno. In Terapia Intensiva Neonatale, invece, l’alleanza medico-infermieristica è determinante per assicurare l’efficacia delle cure rivolte ai nati prematuri o con patologie che necessitano di assistenza intensiva”.

(Nunzia Russo – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

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Terremoto in Turchia. Mons. Ilgit (Iskenderun): “Due anni dopo, sembra passato solo un istante”

Mons. Antuan Ilgit S.I.,  (Foto Ilker Yilmaz)

“Sono passati due anni e nel corso di questi due anni i corpi sono stati sepolti. Mancano però all’appello 75 persone di cui 30 sono bambini e almeno 25 stranieri, soprattutto siriani, secondo i dati forniti dal Ministro degli Interni. Le macerie, una buona parte, sono state portate vie, creando grandi isole vuote. Qui a Iskenderun ma soprattutto nella città di Antiochia, la vita quotidiana per forza è ripresa”. Inizia così il racconto di mons. Antuan Ilgit, amministratore apostolico di Anatolia, al quale il sir ha chiesto di ripercorrere questi due anni passati da quel 6 febbraio 2023, quando due violente scosse di terremoto hanno colpito Turchia e Siria, causando migliaia di vittime e lasciando milioni di persone senza casa.

“Sembra che, anziché due anni, – aggiunge subito il vescovo – siano passati soltanto due minuti”.

Secondo i dati diffusi ieri da Caritas Italiana, in Turchia, il terremoto ha causato oltre 50.000 vittime e più di 180.000 sfollati vivono ancora in campi container, con servizi essenziali spesso insufficienti. Si tratta di una crisi umanitaria ancora in atto. Fecero letteralmente il giro del mondo le foto della Cattedrale di Iskenderun distrutta dal terremoto, divenuta “simbolo” delle ferite che il sisma aveva inferto a tutta la popolazione. “La Cattedrale a Iskenderun – racconta padre Antuan Ilgit – sta ancora per terra come tutte le chiese della Città. La Chiesa ortodossa e quelle siriaca cattolica e greco-cattolica sono rimaste in piedi ma sono inagibili. Le difficoltà burocratiche sono tante, il mancato riconoscimento giuridico della Chiesa cattolica rende ancora più difficili le procedure. Tuttavia, la buona volontà c’è e poiché sono l’unico vescovo latino-turco, ho ottime relazioni con l’amministrazione e ci impegniamo”.

(Foto Antuan Ilgit)

Si guarda avanti, ai piccoli risultati raggiunti ma soprattutto si punta a vivere a fianco della popolazione locale, delle pietre “vive” di questa terra. “Abbiamo sistemato l’aula magna dell’Istituto Patristico voluto da mons. Padovese e continuiamo come piccola Chiesa a celebrare la morte e la resurrezione del Signore quotidianamente. Questo ci dà speranza e rinsalda la nostra fede”. Il vescovo parla dei focolarini e delle focolarine che giunti a Iskenderun, “condividono con me la missione di cercare di tenere accesa la fiamma attraverso incontri giovanili, incontri per le donne, gli esercizi spirituali e così via”.

“Se non curiamo e manteniamo insieme le pietre rimaste ‘vive’, sarà inutile ricostruire gli edifici”.

Anche in Turchia, anche in questa regione ferita dal terremoto, è giunto e si vive insieme a tutta la Chiesa universale il Giubileo che Papa Francesco ha voluto dedicare al tema della “speranza”.  “Abbiamo stabilito – fa sapere il vescovo – la chiesetta di Antiochia, tenuta dai cappuccini, come Chiesa giubilare per dire al mondo che manteniamo la speranza. Ho celebrato lì sia il Natale che l’inizio del Giubileo con il piccolo gregge affidato alla mia cura. Viaggio continuamente anche per andare nelle altre città del Vicariato, non colpite dal terremoto ma che hanno ricevuti tanti terremotati che hanno tanti bisogni. Mi impegno a stare vicino al gregge che amo. Solo il Signore non ci abbandona”.

L’elenco delle difficoltà e delle criticità è lungo. Purtroppo, la Caritas Anatolia non funziona ancora a pieno regime. I problemi sono tanti. “Ciò nonostante – confida il vescovo -, mentre ci impegniamo a risolvere le difficoltà, attraverso i fondi del Vicariato, cerchiamo anche di venire incontro alle necessità dei bisognosi fornendo delle borse di studio, aiuti per la cura della salute, per gli affitti, e così via. Qui abbiamo bisogno di progetti micro, mirati ai bisogni reali, soprattutto delle comunità cristiane (già svantaggiate)”. Il pensiero si rivolge a quanti hanno sostenuto, soprattutto in questi due anni, progetti e aiuti. “Siamo grati e ringrazio di vero cuore i nostri benefattori in Italia”, dice il vescovo che raccomanda a chi vuole aiutare, di “esigere che i fondi arrivino davvero ai veri bisognosi”. Poi conclude annunciando di “essere in partenza per Trabzon e Samsun, due comunità al Mar Nero che mi aspettano per la visita pastorale. A Trabzon questa domenica faremo memoria del martirio di don Andrea Santoro. Affido continuamente il Vicariato alle intercessioni della Madonna, di don Andrea, mons. Padovese e quelle di mons. Cirillo Zohrabian, senza mai perdere la speranza”.

 

 

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Caserta. Reggia: avviata la raccolta delle arance con la convenzionata cooperativa ‘Eva’

La Marmellata delle Regine sarà in vendita anche nelle buvette dei teatri Mercadante e San Ferdinando a Napoli.
Alla Reggia di Caserta i percorsi virtuosi vanno avanti. Avviata la raccolta delle arance nel Parco reale con la cooperativa Eva.
Gli agrumi della Flora e del Giardino Inglese sono giunti a maturazione e, come avviene da ormai quattro anni, le donne della cooperativa sociale EVA impegnata in servizi di prevenzione e contrasto della violenza anche attraverso il riutilizzo di beni confiscati alle mafie hanno iniziato a coglierle per produrre poi la Marmellata delle Regine.
L’Istituto del Ministero della Cultura e la cooperativa EVA hanno sottoscritto un protocollo di intesa per l’utilizzo delle arance del Museo verde per finalità sociali. I frutti, fino a qualche anno fa, erano destinati alla naturale marcescenza. Grazie all’intesa con l’impresa del terzo settore è nato il progetto della Marmellata delle Regine, deliziosa confettura che viene commercializzata per contribuire ai percorsi di autonomia di donne in uscita da situazioni di violenza e in condizioni di particolare difficoltà.
A conclusione della raccolta degli agrumi, nel laboratorio di Le Ghiottonerie di casa Lorena – il progetto imprenditoriale avviato da EVA nel 2012 a sostegno dell’autonomia economica di donne in uscita dalla violenza e sorto in un bene confiscato alla criminalità organizzata a Casal di Principe – verrà preparato e confezionato il dolce spalmabile. La quantità di frutta utilizzata sarà superiore al 45%, come prescritto per le marmellate “extra” e non verranno aggiunti conservanti.
Con la Marmellata della Reggia prepariamo anche la Crostata e la Cheesecake della Reggia che serviamo a La Buvette di EVA, le caffetterie dei teatri Mercadante e San Ferdinando di Napoli che EVA gestisce in accordo con il Teatro di Napoli-Teatro Nazionale per favorire l’inserimento lavorativo di donne che si sono lasciate la violenza alle spalle”, spiega Fernanda Graziano, coordinatrice de Le Ghiottonerie di Casa Lorena, “e così abbiamo modo di raccontare il progetto di economia circolare e sostenibilità ambientale avviato dalla Reggia di Caserta, spesso una sorpresa per il pubblico”.
Quest’anno le donne della cooperativa EVA sono state affiancate nell’attività di raccolta dai tirocinanti del progetto “Accolti e Attivi” finalizzato alla manutenzione del Parco reale.
La Marmellata delle Regine sarà in vendita online al link https://www.leghiottoneriedicasalorena.com/prodotti/confetture-e-marmellate/marmellata-delle-regine, alla Reggia di Caserta, a La Buvette di EVA al Teatro Mercadante e al Teatro San Ferdinando di Napoli.
(Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)