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Da Angelo Izzo a Ferdinando Terlizzi: ‘passo breve’ attraverso la grande cronaca giudiziaria

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Il nome di Angelo Izzo è associato a uno dei delitti più efferati della cronaca nera italiana, il massacro del Circeo del settembre 1975.

Trentasei ore di torture e sevizie sui corpi di due ragazze, Daniela Colasanti e Rosaria Lopez.

La vicenda è tristemente nota ma per la prima volta nelle pagine di Io sono l’uomo nero. Dal Circeo a Ferrazzano, la storia mai raccontata di Angelo Izzo e dei suoi crimini in uscita domani con RaiLibri (pp. 208 19) – la giornalista Ilaria Amenta ricostruisce in maniera lucida e accurata, la figura di Angelo Izzo, dando voce al mostro che oggi «ha 67 anni, e entrato in carcere a 20 per scontare il primo ergastolo, quello per il massacro del Circeo, e in cella sta ancora scontando la condanna al secondo ergastolo, per il delitto di Ferrazzano».

L’idea

Un libro nato per caso. Amenta aveva contattato un’associazione che si occupa di invalidità civile e uno degli operatori le confessò di avere nel cassetto alcuni memoriali di Izzo, avuti a sua volta da un suo assistito che era stato in carcere con lui. Il risultato è un libro da maneggiare con cura, scottante nella misura in cui corrode il lettore e lo avvolge in una densa coltre di violenza e follia, fra il richiamo del sangue e lo scempio dei corpi con alcuni passaggi inediti e raccapriccianti relativi agli stupri. Amenta si è immersa nel mondo di Izzo consultando documenti e articoli ma soprattutto attraverso i diari, un migliaio di pagine scritte in modo convulso e senza un preciso ordine cronologico. Un materiale grezzo che l’autrice ha riannodato, passando dalla sua infanzia al Circeo, dal processo al delitto di Ferrazzano del 2005, giungendo sino ai giorni nostri, narrando una vita da rinchiuso.

La censura

Dalle parole di Izzo – attraverso il filtro dell’autrice che ha avuto cura di eliminare alcuni dei particolari più cruenti, per rispetto nei confronti delle vittime e delle loro famiglie – emerge Angelo Izzo, il ritratto di un narcisista e manipolatore, la cui spinta vitale è il richiamo della violenza. Una violenza ingiustificata, un male «dentro di lui dalla nascita», necessario poiché dona senso alla sua esistenza e rivolgendosi idealmente al proprio padre, scrive: «Io in tutta la mia vita non conoscerò mai un’esistenza borghese: non riesco nemmeno a concepire la normalità».

Il suo apprendistato inizia presto, frequentando il cattolicissimo liceo San Leone Magno, aderendo all’ideologia dell’estrema destra esclusivamente per via dell’attrazione alle implicazioni violente di quelle idee e Izzo, ammaliato dal nazismo, rifiutava sia Hitler che Mussolini, perché «troppo populisti».

Amenta strappa il sipario su questo mondo borghese rivelando nel 1975 la crudeltà di un drappello di carnefici, “i Drughi pariolini” chiaro omaggio ad Arancia Meccanica – ovvero «la sua banda, il suo gruppo di amici e di amiche, di fratelli e sorelle, di quella Roma anni Settanta divisa tra le ideologie di destra e di sinistra, tra le Brigate Rosse e i Nar». Ragazzi ricchi, benestanti e annoiati che rubavano, rapinavano e consideravano le donne come schiave sessuali, tanto che scrive Izzo: «Gli stupri per lungo tempo furono per alcuni di noi una specie di hobby cui ci dedicavamo con una frequenza diciamo settimanale».

Le violenze

Dai suoi diari emerge il primo stupro risalente alla primavera del 1974, un anno e mezzo prima del Circeo. La vittima è A. B. seguita dalla coetanea sedicenne, E.C., cui Izzo disse «Ci devi dare tutto, se no ti uccidiamo». L’anno dopo, il 1975, il libro rivela il caso straziante di Rossella Corazzin, rapita da una quindicina di drughi. «Una vergine diciassettenne per “iniziare” una decina di fratelli alla Rosa Rossa, con un rito di sesso e di sangue, per poi sacrificarla», scrive l’omicida. Ecco l’aspetto ancor più inedito del libro, la rivelazione dell’esistenza della setta basata su un’unica, ferrea legge: uccidere chiunque venisse indicato senza chiederne le ragioni, dimostrando la fedeltà alla Rosa Rossa.

Gli accordi

Un patto di sangue che avrebbe portato al massacro del Circeo. Izzo rivela che uno dei suoi accoliti Gianluca S., detto l’Ebreo – aveva chiesto agli amici di uccidere i cugini per poter ereditare l’impresa del padre e dello zio. Per farlo in assoluta sicurezza, dovevano coinvolgere il ragazzo in uno stupro di gruppo con esito fatale. Da qui la violenza sfrenata, la scelta di due ragazze «non bellissime», le 36 ore di crudeltà indicibili che l’autrice ha scelto di censurare ma che comunque raccapricciano il lettore. E ancora, i fatti di Ferrazzano, mentre si trovava a Campobasso in regime di semi libertà. Vittime ancora una volta due donne, Maria Carmela Linciano e sua figlia Valentina, uccise per vendicarsi del boss Giovanni Maiorano, conosciuto in carcere a Palermo. Voltata l’ultima pagina, un delirio dopo l’altro, non c’è nemmeno un’ombra di pentimento nei diari di Izzo e resta solo traccia di un uomo narcisista.

Lo ha scritto lui stesso: «Avevo pure collaborato con la giustizia, ma l’ho fatto per uscire, per poi tornare a commettere reati di fuori. Non ho mai voluto fare altro».

Francesco Musolino – Postfazione

Il mio maestro, Ferdinando Terlizzi mi ha donato il suo ultimo libro e, dopo averlo letto con molto piacere, interesse e curiosità, l’ho fatto leggere al mio amico di detenzione Angelo Izzo.

Abbiamo così deciso di scrivere una recensione a 4 mani.

“Vittime, assassini, processi” è un libro molto particolare, si potrebbe dire perfino desueto, ma non nell’accezione negativo, poiché esso appartiene alla grande tradizione della cronaca nera.

Quando i giornali erano davvero diffusi e la cronaca nera era considerata alla stregua della letteratura e costituiva la spina dorsale dei quotidiani, che avevano una grande influenza sull’opinione pubblica.

Il libro del decano dei giornalisti casertani, un vero maestro, appartiene al tempo in cui i cronisti erano dei grandi reporter, dei cercatori di storie, dei segugi che fiutata una traccia non la mollavano mai, dei minatori di verità.

Essere di quella razza voleva dire un impegno quasi totale, infatti, era frequente incontrarli in giro per questure e tribunali sempre alla ricerca della notizia in più, dell’indiscrezione, della fonte fidata.

Allora essere un giornalista di nera voleva dire essere nel solco di una grande tradizione di ricerca
appassionata della verità, voleva dire notti insonni, capacità critica, buone scarpe e un cervello indipendente e pensante abituato a dubitare ed anche pronto alla compassione per il reo e alla scoperta dei lati umani delle vicende.

Un abisso rispetto alla cronaca odierna. Giornalisti sottopagati e con nessuna velleità, abituati a cercare le notiziesulle agenzie, incapaci di ogni afflato umano, indifferenti alla fonte e alla attendibilità delle notizie che andranno a gettare in pasto ai lettori.

Uomini e donne che si difendono dietro una corazza di parole che sono sempre più vuote provenendo da certi pulpiti, come professionalità, terzietà, obiettività.

Il mestiere di giornalista di cronaca è divenuta la professione dei pennivendoli ad usum delphini, dei velinari che usano il copia incolla delle notizie delle procure e delle questure, una categoria che annoverano molti emuli di Roberto Saviano, quindi creatori di falsi attentati per ottenere “scorte”, sempre forti con i deboli e servili con i forti.

In questo tempo di decadenza in cui i giornali sono letti sempre meno e sono sempre più asserviti ai potenti di turno, il maestro Ferdinando Terlizzi, ci ricorda la grandezza di quella che taluni si ostinano a considerare quasi una missione.

Il libro ci riporta anche ad un’epoca in cui i tanti omicidi di una terra certamente sanguigna e di grandi passioni, se pure spesso dimostravano la banalità del male, erano decisamente degni di essere capiti. In certe zone d’Italia il temperamento di un popolo è spesso espresso dalla cronaca nera.

Siamo sempre stati affascinati dal grande scrittore spagnolo, Perez de Reverte, che nel bellissimo
libro noir, intitolato: “Il maestro di scherma”, fa dire al protagonista: “Mi potrebbe stare anche bene un tiranno, se il popolo ha temperamento perché tale tirannia sarebbe temperata dal tirannicidio”.

Uno di noi due è sufficientemente vecchio da ricordare certe messe semi-clandestine da ragazzino, celebrate in suffragio dell’anima di Ravaillac colui che uccise Enrico II° di Francia che vecchi gesuiti celebravano nell’anniversario della morte del tirannicida.

Così come ci piace ricordare George Simenon che diceva che “sarebbe arrivato un tempo in cui un giudice non avrebbe mai messo piede in un bordello per tutta la vita è quel giorno sarebbe stato un triste giorno per la Giustizia”.

La capacità di Terlizzi è appunto vedere la Giustizia e il suo svolgersi con l’occhio disincantato di chi è capace di vedere un punto di vista “altro”.

Attingendo all’aneddotica personale un magistrato che aveva doti umane non indifferenti una volta ebbe a dire che il vero giudice doveva essere capace di comprendere il punto di vista del malfattore, se no il giudizio era certamente ingiusto. Si chiamava Paolo Borsellino questo magistrato.

Il libro di Terlizzi ha molto a vedere con la natura umana.

(di Francesco Musolino, Il Messaggero) – Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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