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1956 in Aversa – Ex poliziotto tentò di uccidere la moglie nello studio medico dove entrambi erano in cura per malattie veneree di Ferdinando Terlizzi  

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Ex poliziotto tentò di uccidere la moglie nello studio medico dove entrambi erano in cura per malattie veneree di Ferdinando Terlizzi

 

 

Il Dr. Francesco Cecaro alle 17 e 30 del 14 ottobre del 1956, in Aversa segnalò con tutta urgenza al Pretore di Aversa che nel suo studio, sito alla via Solferino 29 tal Raffaele D’Aniello, di anni 27, tappezziere,  domiciliato in Aversa,  preso da improvviso attacco di follia aveva – con delle forbici dello studio sottratte al banco degli attrezzi medici – ripetutamente colpito la moglie Giuseppina Moccia, di anni 26, alla guancia destra, al fianco sinistro, alla gamba destra, ed all’addome. Dopo un immediato soccorso il medico – basito e stupefatto – aveva consigliato alla donna di riparare presso l‘Ospedale.  Mentre per il D’Aniello il dottore aveva consigliato  un ricovero immediato in Ospedale Psichiatrico  perché ‘pericoloso per sè e per gli altri’. Dell’accaduto il medico informava subito via telefono la Caserma dei Carabinieri di Aversa.  Alle 19 e 30 presso il locale Nosocomio Giuseppina Moccia riceveva le prime cure ed il sanitario di guardia diagnosticava ferite profonde con sfregio permanente al viso. La donna dichiarava che il marito Raffale D’Aniello aveva afferrato dal tavolo del medico delle forbici e che improvvisamente l’aveva colpita  in più parti del corpo. Appena giunta la segnalazione del Dr. Cecoro,  Vincenzo Indrioli, comandante la Stazione dei carabinieri di Aversa,  inviava immediatamente sul posto due carabinieri Pasquale Vozzolo e Erneto Arena ai quali si presentò uno spettacolo da tregenda: una uomo legato per le mani ed una donna con diverse ferite. Il medico spiegava ai carabinieri l’accaduto dichiarando che era urgente l’intervento degli infermieri perché il D’Aniello era un pazzo. I militi acconpagnarono la donna in ospedale ed il fermato in caserma il quale sottoposto ad interrogatorio ( apparentemente calmatosi ) chiariva che: “Verso le 17 alla guida del mio ciclomotore “Motom” con a bordo mia moglie Giuseppina Moccia, sono giunto in Aversa dal dottore Cecoro in via Solferino  29, per visite. Dopo circa un quarto d’ora –mi sono venuti i 5 minuti – ho preso una forbice ed ho cominciato a colpire mia moglie. Il dottore mi ha preso mi ha legato con le mani. Sono sofferente di sifilide ed ogni tanto mi vengono ( i 5 minuti). Mia moglie è incinta da due mesi e mezzo. Non ho mai percosso mia moglie”. Interrogato il dottor Cecoro (che, tra l’altro,  consegnava anche le forbici del delitto)  confermava l’accaduto. Il D’Aniello veniva tratto in arresto ma non potendo essere internato in carcere veniva avviato – tramite la Pubblico Sicurezza –  al Manicomio di Aversa.  Il 30 novembre del 1956 – un mese dopo il ferimento  – il Dr. Emiddio Farina, della Medicina Legale dell’Università di Napoli, incaricato dal giudice istruttore del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, innanzi al quale era stato avviato il processo penale chiarì alcuni aspetti della triste vicenda. Al medico legale il G.I. aveva assegnato il compito di chiarire: 1) Se la donna in seguito al tentativo di suicidio ( aveva ingerito mezzo litro di varichina)  era guarita; 2) Se residuava lo sfregio permanente; 3) Se presentava malattie veneree: 4) Nel caso affermativo a quanto rimontava  il contagio. Il medico nella risposta precisò, innanzitutto che la Giuseppina Moccia era guarita dalle ferite per le quale il 9 agosto 1956 aveva ingerito a ‘scopo suicida’ mezzo litro di varichina ed era stata ricoverata al Cardarelli per avvelenamento. Il 14 ottobre del 1956  era stata ferita con forbici dal proprio marito ed era guarita in 20 giorni ma che le lesioni alla guancia destra avevano lasciato uno sfregio permanente. Ma la donna era affetta da sifilide di primo grado per contagio e l’infezione rimontava all’estate del 1956.

 

Il drammatico racconto di una donna “oggetto” in preda ad un pazzo sifilitico. La paranoia del marito ex poliziotto   definito in perizia ‘uno schizofrenico’

Il 30 novembre del 1956, il giudice istruttore Bernardino De Luca volle interrogare prima Raffaele D’Aniello e poi  Giuseppina Moccia. Il D’Aniello dichiarò: “Ricordo di aver colpito mia moglie alla guancia alla gamba ed al braccio non ricordo quale e può darsi pure che l’abbia colpita all’addome. Eravamo diretti dal dott. Cecaro io e mia moglie per farci curare dalle  affezione luetica di cui io sono sofferente o di cui mia moglie è stata da me contagiata. Prima di recarci dal predetto dottore non avevamo questionato per niente e l’iniziativa della visita medica fu presa da me soltanto e mia moglie si offrì di accompagnarmi, anzi ricordo che per la strada mia moglie formulò un voto alla Madonna di Pompei per la nostra guarigione. Io non ho alcun  rancore con mia moglie, anzi le voglio bene e mi interessa moltissimo sapore in che condizioni versa e vederla. Mentre il dottore ci interrogava mi vennero i ‘cinque minuti’ che non so specificare in che cosa consistono, mi pare di avere avuto l’impressione come se la testa mi girasse e la mente mi si velasse,  ho preso dal tavolinetto dei ferri chirurgici del dottore un paio di forbici dalla punta ricurva ed ho cominciato ad aggredire mia moglie non ricordo per quale motivo” . Poi il giudice lo interruppe perché voleva capire meglio ed incalzò: “Ma altre volte avete colpite vostra moglie, avete minacciato qualcuno in mezzo alla strada?  Avevate sospetti sulla moralità di vostra moglie? La prima notte aveste sospetti?  – E’ la prima volta che ho di queste crisi, non ho mai fatto male ad alcuno, e forse gli altri hanno fatto male a me. Spero che mia moglie non mi abbia fatto mai male. Io non ho mai avuto sospetti sulla moralità di mia moglie sebbene da signorina ci furono sul suo conto delle calunnie alle quali io non credetti perché mia moglie proveniva da buona famiglia.  Ma se sapevate di essere malato perché lo avete detto a vostra moglie? Perché avete continuato ad avere rapporti sessuali? Non potevate astenervi?  precisò ancora il giudice istruttore.

“Infatti, in una  mia visita precedente il dott. Cccaro mi informò che io stavo peggio a seguito degli abusi sessuali con mia moglie e mi consigliò di astenermi  a congiungermi con mia moglie ma questa faceva insistenza ed io aderivo a congiungermi. Quando poi ieri il dottore dopo avermi fatta una puntura e di avere osservato superficialmente le mie urine mi  riferì che io ero peggiorato dalla ultima volta che mi aveva visitato, io attribuii la responsabilità del mio peggioramento al fatto che mia moglie aveva insistito per congiungersi. Poi il giudice volle sentire la vittima. La Moccia dichiarò: “L’anno scorso conobbi Raffaele D’Aniello e mi fidanzai con lo stesso ufficialmente. Il matrimonio, però, veniva sempre rimandato perché la madre del D’Aniello pur consentendo cercava di procrastinare l’allontanamento del figlio dalla casa forse per non perdere il guadagno del di lui lavoro ( benché abbia il marito pensionato ed altri due figli che lavorano). Data tale situazione il D’Aniello mi propose il fatto compiuto che imponesse indilazionabilmente il matrimonio e mi disse di scappare con lui. Io accettai e il 7 giugno fuggii di casa col D’Aniello. Ci recammo a Milano presso una zia del D’Aniello tale Mafalda Farinaro, ove stemmo 5 o 6 giorni. Al ritorno fittammo una casa ad Aversa ove ci sistemammo alla men peggio. Dopo il nostro ritorno il D’Aniello incominciava a trovare un sacco di pretesti per non sposarmi sostenendo, finanche, di non avermi trovata vergine. Mi fece visitare da alcuni medici: Caianiello, Cecoro ( quest’ultimo mi rilasciò un certificato dal quale si evinceva che io ero stata deflorata di recente) e da una levatrice – che non so identificare – e fece anche analizzare i pannolini con i quali era stato asciugato il sangue della deflorazione. Benché da tutti il D’Aniello avesse avuto assicurazioni circa la mia verginità. Non potendo più sopportare questi pretesti il 9 agosto tentai il suicidio bevendo mezzo litro di varicchina. Fui ricoverata all’ospedale “23 Marzo” di Napoli dove rimasi per sei/sette giorni. Il  D’Aniello, visto che avevo tentato il suicidio e che molte persone erano intervenute  per convincerla ad affrettare le nostre nozze, verso la fine di agosto si decise a compiere il suo dovere. Continuò, però, a percuotermi per banalissimi motivi.  In base a tutte queste peripezie sono tornata dai miei genitori (dove ora vivo) e sono in cura per il contagio. Il D’Aniello – mentre facevamo l’amore – mi ha confessato che lui era malato da molto tempo e che non si era mai curato”.    

 Il processo: Fu condannato per sfregio permanente prima a 6 anni ed in appello a 4 anni. Non fu riconosciuto pazzo!

Chiusa la rituale istruttoria il 27 giugno del 1957, il Presidente della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere, Eduardo Cilento citò innanzi la Corte il Raffaele D’Aniello, nel frattempo detenuto presso il carcere di Aversa, per rispondere di tentato omicidio aggravato perché ‘con più colpi di forbici chirurgica, inferti in varie parti della persona, fra le quali l’addome ed il collo, tentò di uccidere la moglie Giuseppina Moccia cagionandole lesioni personali guarite in giorni venti dalle quali residuava uno sfregio permanente’. Intanto per salvare da una dura condanna il D’Aniello (ma è un classico nei processi del genere) gli avvocati difensori tentarono la via della pazzia. Del resto gli accadimenti lo consigliavano ed i presupposti per una follia totale vi erano. Il 31 gennaio del 1957, fu disposto quindi un accertamento psichiatrico che fu affidato al Prof. Dottor Gennaro Mattioli, Primario dell’Ospedale Psichiatrico “Santa Maria Maddalena” di Aversa al quale il G.I. aveva posto il seguente quesito: ”Nel sottoporre a perizia psichiatrica il D’Aniello accerti se lo stesso all’epoca del fatto avesse piena capacità di intendere e di volere ovvero se le stesse fossero per infermità di mente grandemente scemate senza essere del tutto escluse e se, infine, il periziando sia socialmente pericoloso”. Il perito accertò, innanzi tutto, che nella famiglia degli avi del D’Aniello non vi erano stati casi di manifesta pazzia ì, di alcolismo, epilessia, criminalità, sordomutismo o rachitismo. Tra l’altro si appurò che il D’Aniello, sesto di sette figli, era un ex agente di pubblica sicurezza ed aveva un fratello poliziotto. Il responso finali fu che il D’Aniello era sano di mente e che nel momento in cui commise il reato di cui è processo egli aveva completa capacità di intende e di volere e non è individuo pericoloso socialmente.  In dibattimento il Dr. Cecoro escluse la circostanza  secondo la quale egli aveva sconsigliato il D’Aniello di avere rapporti intimi con la moglie. La Moccia sostanzialmente confermava  quanto deposto in precedenza  modificando soltanto al parte che riguardava le ingiurie nei confronti della suocera che chiamava semplicemente ‘zoccola’.   Il Pubblico Ministero, al termine della sua breve requisitoria, chiese la derubricazione del reato da tentato omicidio a lesioni con sfregio permanente e con la concessione delle attenuanti generiche (essendo in definitiva il D’Aniello incensurato) una condanna ad anni 4 mesi 2 di reclusione. Il difensore chiese dal canto suo l’esclusione della volontà omicida e lo sfregio permanente con la concessione delle attenuanti generiche e con la provocazione. Il D’Aniello dopo essersi accertato a seguito di accertamenti sanitari che la fidanzata era vergine le propose di scappare con lui per porre i genitori di fronte al fatto compiuto. La proposta fu accettata ma la fuga non valse a dare tranquillità e serenità si fidanzati in quanto l’imputato si convinse – durante i primi rapporti carnali con la ragazza – che la stessa non era integra e che veritiere erano le voci che correvano sulla  sua onorabilità. Fu condannato per sfregio permanente prima a 6 anni ed in appello a 4 anni con sentenza del 15 luglio del 1957  dalla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere( Eduardo Cilento, presidente; Guido Tavassi, giudice a latere; Nicola Damiani, pubblico ministero; giudici popolari: Antonio Ferrara, Armando Carbone, Umberto Giaquinto, Ugo Lo Sordo, Gaetano Russo e Gaetano Azan).  Gli avvocati impegnati nei processi furono: Ciro Maffuccini e Alfredo De Marsico. 

 

 

 

 

 

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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