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Mondragone Caseificio Mandara: la Suprema Corte nega il secondo arresto dell’imprenditore

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La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso dei pm di Napoli

contro l’ordinanza del Tribunale del riesame che, il 3 giugno 2014 aveva annullato la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti dell’imprenditore caseario Giuseppe Mandara (nella foto in basso al momento dell’arresto), titolare dell’omonimo caseificio (nella foto in alto, all’atto del blitz DIA), con sede in Mondragone (Caserta),  eseguita il 28 aprile scorso.

La Procura aveva chiesto di nuovo l’arresto dell’industriale napoletano che, invece, resta indagato a piede libero.

Scrivono i giudici che il “ricorso è inammissibile” per diverse ragioni: in primis, il pubblico ministero si “limita a riportare”, nell’atto di impugnazione, “una serie corposa di deduzioni di fatto” che in “larghissima parte si esauriscono nella pedissequa trascrizione delle risultanze delle indagini che sono state svolte nel corso degli anni” il cui compendio è stato già “ritenuto inidoneo e insufficiente a integrare un grave quadro indiziario a carico dell’indagato” già sulla base dell’ordinanza del Riesame risalente al 2012.

La Suprema Corte ribadisce, inoltre, che “né il ricorso, argomentato essenzialmente in punto di fatto aggiungendo il richiamo di alcune ulteriori risultanze d’indagine ai precedenti elementi già valutati, si confronta con le puntuali ed esaustive motivazioni in forza delle quali il provvedimento impugnato ha escluso che tali nuove acquisizioni, in parte costituite dalla rinnovata audizione delle medesime fonti informative rappresentate dal chiamante in correità La Torre Augusto e dalle persone offese del nucleo familiare Marotta, su fatti e circostanze già indagate in passato, siano in grado di modificare il giudizio in base al quale il Tribunale ha individuato nel Mandara non già un imprenditore colluso con l’organizzazione camorristica, che intratteneva rapporti col sodalizio capeggiato dal La Torre, ma un imprenditore vittima di intimidazione mafiosa, necessitato a soggiacere alle imposizioni del La Torre e del suo clan ed estraneo e perciò al reato associativo”.

In particolare, per i giudici di terzo grado, “risulta del tutto insuperata la motivazione con cui l’ordinanza gravata ha ribadito il giudizio di assoluta inaffidabilità della fonte principale di accusa nei confronti del Mandara, rappresentata dalle dichiarazioni del La Torre, che ha chiamato in correità l’indagato solo a distanza di otto anni dall’inizio della collaborazione intrapresa con gli inquirenti e soltanto dopo la denuncia per estorsione presentata nei suoi confronti dallo stesso Mandara che aveva comportato la revoca del regime di protezione al quale il collaborante era sottoposto, così da indurre legittimamente a dubitare della genuinità” del tardivo atto d’accusa “e a ritenerne la natura ritorsiva”.

Inaffidabilità che, per i giudici, risulta “accentuata dalla prospettazione per la prima volta – da parte del La Torre – di una nuova (ed ennesima) versione delle modalità in cui si sarebbe concretizzata l’estorsione commessa in danno di Marotta Nicola (risalente agli anni 1988-89) per costringerlo a vendere al Mandara un terreno di sua proprietà funzionale all’ampliamento del caseificio alla cui gestione il La Torre sarebbe stato (in tesi accusatoria) cointeressato”; e che il Tribunale ha ritenuto “con giudizio munito di propria coerenza e congruenza logica intrinsecamente contraddittoria rispetto al consueto modus operandi delle organizzazioni camorristiche, certamente non aduse a farsi imporre il prezzo di vendita del soggetto estorto, esigendone (solo) a posteriori la retrocessione invece di coartare fin dall’origine la volontà dell’alienante a sottostare a condizioni di vendita che non avrebbe liberamente accettato”.

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