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Economia. Dati Istat: “Lieve rimbalzo dell’inflazione”, ma effetti sul “carrello della spesa”

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L’Istat lo definisce un “lieve rimbalzo”, ma l’aumento c’è. Secondo le stime provvisorie, l’inflazione sale allo 0,8% rispetto allo 0,6% di dicembre. Colpa dei beni energetici, ma anche – spiega l’Istituto di statistica – del “permanere di tensioni sui prezzi dei beni alimentari non lavorati, i cui effetti si manifestano anche sulla accelerazione del cosiddetto ‘carrello della spesa’” che registra un aumento del 5,4%. Non propriamente quello che ci si poteva augurare, dopo aver appreso che nel 2023 le retribuzioni orarie sono cresciute solo del 3,1%, appena più della metà dell’inflazione, e che nel 2022 l’andamento dei prezzi ha colpito duramente la ricchezza netta delle famiglie italiane, che è scesa in termini reali del 12,5%, come ha rilevato una recente nota di Istat e Banca d’Italia.

I numeri degli ultimi mesi del 2023, diffusi in questi giorni dall’Istituto di statistica, ci dicono che l’anno scorso poteva anche andare peggio, ma bisogna fare attenzione a sopravvalutare gli zero virgola, soprattutto se si guarda alla prospettiva dell’anno iniziato da poco. L’economia italiana – misurata dal Prodotto interno lordo – è cresciuta nel quarto trimestre dello 0,2%. Molti analisti prevedevano un andamento piatto o un incremento dello 0,1 e il risultato stimato, per quanto provvisorio, ha fatto tirare un generale sospiro di sollievo. L’annata si è chiusa complessivamente con un Pil in aumento dello 0,7%, di due decimali superiore alla media europea. Ma si sa come funziona con le medie: la Germania è rimasta sotto zero (e non c’è nulla di cui gioire perché si tratta di un mercato importantissimo per l’Italia) mentre la Spagna è balzata in avanti del 2,5%.

Il governo, nella Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, a fine settembre aveva previsto una crescita dello 0,8%. Tenuto conto di quel che è accaduto in Medio Oriente pochi giorni dopo il varo della Nadef la lieve sfasatura è più che comprensibile. Ma è il 2024 che fa preoccupare. L’esecutivo aveva programmato per l’anno in corso un incremento dell’1,2% e oggi tutte le stime sono lontane da quel livello: la più recente, quella del Fondo monetario internazionale, ci attribuisce un +0,7%. L’Istat, del resto, ha calcolato che la “variazione acquisita” per il 2024, cioè il livello che si otterrebbe se nel corso dell’anno il Pil restasse fermo – in altre parole l’eredità del 2023 – è soltanto dello 0,1%. Il 2022 aveva portato in dote un +0,4% e il 2021 addirittura un +2.4, nella fase di ripresa post-Covid.

La crescita di quest’anno, insomma, è tutta da conquistare e l’effetto di questa mancanza di rincorsa è forse la principale incognita dei prossimi mesi. Anche rispetto ad altre situazioni più specifiche. Prendiamo il caso dell’occupazione. L’ultima rilevazione dell’Istat, relativa allo scorso dicembre, ha registrato un aumento degli occupati (+0,1) il cui numero complessivo ha toccato l’ennesimo livello record. Ovviamente bisogna rallegrarsene, ma se l’economia non cresce o cresce pochissimo com’è possibile che si crei tanto lavoro? Che una quota di questa occupazione si riferisca a un lavoro “povero” è sicuramente una parte della spiegazione, ma non tutta, perché altrimenti l’Istat non avrebbe registrato mese per mese un ricorso prevalente ai contratti a tempo indeterminato. Gli analisti si sono allora soffermati sull’impatto del fattore demografico e quindi sulla progressiva diminuzione del numero di giovani candidati disponibili o comunque attivabili. A maggior ragione se si pensa che presto andranno in pensione i figli del boom economico e questo provocherà ulteriori problemi di ricambio. In questo quadro, insomma, le aziende tenderebbero ad assicurarsi e a conservare l’apporto di giovani già formati e sperimentati o attingerebbero a fasce di età più elevata in cui l’accettazione dei contratti a termine risulta evidentemente più problematica. Ipotesi molto significative e credibili che però probabilmente dispiegheranno nel tempo il grosso dei loro effetti.

È verosimile, allora, che nel 2023 abbia agito anche o soprattutto lo slancio della ripresa del periodo precedente, atteso che le ripercussioni dell’andamento generale dell’economia sulle dinamiche occupazionali avvengono spesso con una notevole sfasatura temporale. Se questo fosse confermato, le conseguenze della crescita debole sul mercato del lavoro dovrebbero ancora arrivare. Qualche segnale forse già si intravede. A novembre si era verificato un aumento dei contratti a termine che non si registrava dallo scorso agosto e così pure un incremento degli inattivi (coloro che non hanno un lavoro e non lo cercano) il cui precedente risaliva addirittura all’agosto 2022. La rilevazione dell’Istat per dicembre ha confermato entrambe le tendenze: rispetto al mese precedente, i dipendenti a termine sono cresciuti dello 0,7% e gli inattivi dello 0,2%.

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