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This is how a child becomes a poet. Céline Sciamma a Napoli

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Ieri al Cinema Astra di Napoli, punto di riferimento culturale della città, si è tenuta la serata inaugurale di “Venezia a Napoli”. Ad aprire le danze il corto di Leonardo Di Costanzo, presente in sala. Un corto, “Welcome to paradise”, che, come testimonia il suo itinerario cinematografico, si arrovella attorno al mistero e all’indispensabilità dello sguardo altrui per dire io, per riconoscersi e riconoscere, nel tessuto intersoggettivo del reale.

Napoli, la cornice nella quale si svolgono le storie dell’autore, assurge a simbolo di un’alterità che agogna di assolversi dalla sua trascendenza. Un’alterità che si converte perpetuamente in prossimità, in abisso incarnato.
La seconda parte della serata ha visto assoluta protagonista l’ospite d’onore e d’eccezione della rassegna: la regista francese Céline Sciamma (fra i suoi titoli ricordiamo Tomboy, Portrait de la jeune fille en feu e Petit Maman). Céline Sciamma, accolta dal calore irrefrenabile del pubblico, ha introdotto il corto presentato un mese prima al Lido di Venezia: “This is how a child becomes a poet”. Un racconto la cui brevità è direttamente proporzionale alla sua straordinaria intensità. Una lettera di commiato, scritta col fuoco vivo delle immagini, destinata alla poetessa Patrizia Cavalli. Ma il cortometraggio, che si svolge prevalentemente negli interni della abitazione della scrittrice, non è solo un dialogo impossibile con l’assenza presente della scrittrice. È anche e soprattutto la tessitura continua di un dialogo perpetuo con la poesia delle cose, degli oggetti, delle immagini. La macchina da presa della Sciamma indugia sugli oggetti e sulle foto della Cavalli non solo per rievocare l’inafferrabilità della sua esistenza, della sua singolarità, ma per rievocare la singolarità irriducibile dell’immagine, della presenza, il mistero, la poesia scritta nelle ossa e nei nervi del reale. La Sciamma sa che poeti e registi lavorano su immagini che sono fragili tracce di un’immagine primigenia, di una figura impossibile che ci parla e ci interroga in ogni segno e in ogni inquadratura. La sua lingua è sempre straniera, anche quando si approssima allo sguardo della macchina da presa. Le sue parole sono indecifrabile e proprio per questo degne di essere meditate e filmate.
Il silenzio della casa, di questo corpo vuoto che sembra estensione del corpo poetico e del corpo della poetessa – radice e destinazione de suoi versi – è incrinato dal ritrovamento di una foto di Kim Novak. Qui si inserisce un intermezzo onirico di pregevole fattura. La voce fuori campo della Sciamma è accompagnata dalle immagini di Picnic, film in cui per la prima volta la Cavalli incontra la figura impossibile di Kim Novak. Una figura rilkiana, che evoca nella scrittrice la commistione misteriosa di bello e terribile, di presenza eterica e luttuosa. Qui, nel corpo di Kim Novak, la Cavalli incontra la poesia, la duplicità strutturale del reale, il fascinans et tremendum che si annida in ogni immagine-verso.
L’inserzione di un fotogramma di Vertigo, fotogramma suggerito dall’incontro della regista con una passante dalle sembianze di Kim Novak, infittisce ancor di più la portata extradiegetica dell’opera. Sembra quasi una rievocazione di Sans Soleil di Chris Marker, capostipite cinematografico di ogni interrogazione sullo statuto ontologico dell’immagine e del poetico come matrice segreta del reale. Questa sovrapposizione corrisponde perfettamente allo spirito dell’opera, alla ricerca di una memoria poetica condivisa, al tentativo perpetuo di ritrovare nell’immagine una segreta comunione. Del resto, come suggeriscono i versi della Cavalli citati e vantati da Chiara Crivello, il cinema, poesia in movimento, è un amore – non importa se vero o falso – che si muove felice nel vuoto dell’esistenza. Allora, nell’immagine sottratta al silenzio, il buio diventa luce. E il bambino diventa poeta, ossia veramente bambino, veramente innocente, veramente osservatore e uditore dell’enigma.
A seguire, a suggellare la serata inaugurale, c’è stata la proiezione di “Petit Maman”. Anche qui, al centro del racconto, vi è il sentimento della perdita. Anche qui la bellezza non è altro che la capacità di dare forma e carne al vuoto, di offrire al suo silenzio “amori felici”. Veri o falsi, non importa.

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