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Aversa, Liceo classico ind. comunicazione/ Gli allievi della III E intervistano il prof G. Girgenti

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Aversa-Bella e chiarissima la lezione tenuta lunedì dal prof. Giuseppe Girgenti (Università San Raffaele di Milano) ai ragazzi della III E del liceo classico ind. comunicazione “Domenico Cirillo” (DS Luigi Izzo) su “Piacere e dolore nella filosofia ellenistica”. 

Il professore è partito dal contesto sociale e politico dell’ellenismo (perdita del ruolo politico attivo del cittadino greco, cosmopolitismo), per poi sottolineare la differenza tra il modo in cui Platone e Aristotele (da un lato) e i filosofi ellenistici (da un altro) hanno concepito il dolore e il piacere. Puntuali le analogie e le differenze tra l’etica epicurea e quella stoica, arricchite da aneddoti come quello del Toro di Falaride. Al termine della lezione, gli allievi hanno posto domande che hanno portato il prof. Girgenti ad approfondire tematiche legate allo scetticismo e alla filosofia come pratica di vita prospettata da Hadot e Foucault.

INTERVISTA

Sagliocco: Lei ha citato filosofi francesi moderni quali Pierre Hadot e Michel Foucault. Al tal riguardo, vuole chiarirci da quale tipo di prospettiva riprendono le filosofie ellenistiche?  

Prof. Girgenti:Entrambi i pensatori francesi hanno ripreso la filosofia ellenistica intendendola come “cura di sé”, ovvero come pratica filosofica che sottolinea la stretta connessione tra pensiero e vita, per riattualizzare quello stile di vita dei filosofi greci che risale a Socrate: partire dalla conoscenza di sé per giungere a quella cura di sé che Socrate definiva “cura dell’anima” (epiméleia tês psychês). Ma il punto di partenza di Hadot è molto distante da quello di Foucault: Hadot, infatti,parte da una formazione cristiano-cattolica, in particolare gesuitica, per risalire dagli “esercizi spirituali” ignaziani alla radice ellenistico-romana di quelle pratiche ascetiche, che mantengono così la loro attualità anche nella società secolarizzata di oggi; invece Foucault parte da una formazione fenomenologica, con molte influenze marxiste, nietzschiane e freudiane, e il suo approccio alla cura di sé mira piuttosto alla “soggettivazione” di quelle persone che hanno smarrito per varie ragioni la loro identità personale, come i malati, i detenuti e gli psicopatici; la sua pratica di soggettivazione si è infatti sviluppata soprattutto negli ospedali, nei manicomi e nelle carceri. Ma ci sono anche altri approcci alla cura dell’anima; io, ad esempio, mi sono anche occupato di Jan Patočka, un filosofo di Praga che ha interpretato il socratismo soprattutto in senso pedagogico, e quindi riattivabile nelle scuole e nel rapporto maestro-allievi.

Zammartino: Quali sono le differenze fra la logica aristotelica e quella stoica?

Prof. Girgenti: La principale differenza consiste nel fatto che la logica aristotelica parte dai “concetti universali” per costruire i “giudizi” (cioè le proposizioni) e quindi i sillogismi; affinché ci sia un sillogismo coerente e consistente in senso aristotelico è necessaria almeno una premessa universale, ad esempio “tutti gli uomini sono mortali”; questa affermazione contiene l’idea universale di uomo a cui compete l’attribuito della mortalità; da questo punto di vista Aristotele ha sviluppato in modo originale, anche se con molte critiche, la teoria platonica delle idee, che sono appunto universali in sé; invece gli stoici, che hanno abbandonato, così come gli epicurei, la prospettiva metafisica dei due grandi maestri, hanno provato a costruire una logica prescindendo dagli universali, ovvero riducendoli a concetti della mente privi di sussistenza reale; da queste posizioni del pensiero antico inizierà una lunga disputa sugli universali che animerà tutto il dibattito medievale; i platonici cristiani sosterranno la realtà divina degli universali, che appunto esistono nella mente di Dio come archetipi anteriore alla creazione; gli aristotelici cristiani invece sosterranno che essi esistono solo nelle cose, come “forme”; Pietro Abelardo a modo suo riprenderà il concettualismo stoico, per il quale appunto essi sono solo concetti mentali, senza sussistere realmente nelle cose; e infine ci sono i nominalisti (come Guglielmo da Ockham), che sostengono, come pure già diceva Epicuro, che gli universali sono meri “flatus vocis”, parole vuote, perché solo gli individui concreti esistono realmente; Epicuro diceva: “Io vedo questo cavallo, ma non vedo la cavallinità”.

Mottola: Il nostro tempo è  contrassegnato dalla fine di ogni certezza o “grande narrazione”, per certi versi  simile a quello in cui visse Epicuro. Il Covid, in particolare, impone nuove sfide sociali, culturali e politiche basate sulla solidarietà. Come vivere? in che cosa credere? come essere felice? Credo che oggi l’invito di Epicuro all’esercizio della filosofia sia quanto mai indispensabile. È applicabile ,ai nostri giorni, il modo di vivere come indicato da Epicuro?

Prof. Girgenti: La soluzione epicurea al problema della vita è sempre attuale: cercare una ricetta della felicità in una vita sobria e ritirata che vada in cerca dei piaceri basilari dell’esistenza, ivi compresa l’amicizia disinteressata, rinunciando a ogni lusso, a ogni eccesso, a ogni carica pubblica. Ma è anche vero che questa ricetta è applicabile solo nella sfera privata e non offre alcuna soluzione ai problemi generali della globalizzazione; del resto, anche Epicuro visse in un tempo antico di globalizzazione, quella ellenistico-romana, per certi versi analoga a quella attuale; questa è la ragione del maggiore successo dello stoicismo prima, che teorizzava il cosmopolitismo anche dal punto di vista giuridico, e del cristianesimo poi, il cui messaggio “cattolico”, cioè universale, di amore e fratellanza, rispondeva meglio alle esigenze di enormi masse di poveri, di disperati e di emarginati della terra. Forse oggi il messaggio di papa Francesco va nella giusta direzione: “ringiovanire” il cristianesimo per riadattarlo al dialogo e all’inclusione di tutti coloro che provengono da altre tradizioni, come quella arabo-islamica o come quelle indiane e cinesi; in altri termini, combattere lo “scontro delle civiltà” e favorire al contrario l’incontro. Le soluzioni concreti ai problemi causati dalla pandemia, non solo sanitari ed economici, ma anche sociali, educativi e culturali, potranno così essere trovate e messe in atto più agevolmente,in una cornice di solidarietà globale.

Tamburrino: Qual era la concezione della donna e della schiavitù secondo le dottrine ellenistiche?

Prof. Girgenti: La società antica greco-romana in tutti i suoi aspetti è stata sempre maschilista e patriarcale, ed è indubbio che il superamento della schiavitù e l’emancipazione femminile sono conquiste della modernità, in un work-in-progress che deve ancora essere portato a termine. Tuttavia, proprio i filosofi greci sentivano il problema: anche se a livello utopistico, Platone propose nella “Repubblica” l’uguaglianza di uomini e donne, e la possibilità che le donne accedessero sia all’esercito sia al governo; Aristotele, che era più realista e pragmatico, pur discutendo criticamente la questione della schiavitù e della subordinazione della donna, arrivò a giustificarle nell’ottica della divisione dei ruoli, nella famiglia e nella società, nel pubblico e nel privato, nell’amministrazione domestica e nelgoverno politico. Epicuro, sempre a livello individualistico, offrì ospitalità nel suo Giardino ad alcune prostitute che cercavano un riscatto nella filosofia e nella tranquillità dell’anima; tra i Cinici, infine, segnalo Ipparchia di Maronea, l’unica donna-filosofa a cui Diogene Laerzio dedica una biografia nelle sue “Vite”, e che, come tutti i Cinici, portò avanti una vita socialmente scandalosa per abbattere le convenzioni borghesi di allora che apparivano ormai inautentiche e ipocrite.

Tamburrino: Epicuro invita a non aver  paura della morte dicendo che, poiché siamo fatti di atomi, quando noi ci siamo la morte non c’è e viceversa. Le chiedo, però, se  più che della morte, l’uomo non tema proprio il nulla (o meglio la disgregazione) e quindi se il suggerimento di Epicuro sia effettivamente utile.

Prof. Girgenti: Questa obiezione è precisamente quella che fu contrapposta al quadrifarmaco epicureo dai platonici dell’età ellenistico-romana; per esempio, Plutarco di Cheronea scrisse un trattato morale dal titolo “Non si può vivere felici seguendo Epicuro”, in cui afferma che noi abbiamo paura proprio del nulla, non della morte; è l’“horror vacui” che ci affligge; e coerentemente con la dottrina platonica, Plutarco ripropose la fede ragionata nell’immortalità dell’anima come vera soluzione al problema della morte, una credenza che ovviamente non può reggere in un prospettiva materialista e atomista.

Caputo: La negazione di ogni verità da parte degli scettici non corrisponde a sua volta allaffermazione di una verità?

Prof. Girgenti: Anche questa obiezione fa parte delle risposte classiche di un filosofo alle aporie e alle difficoltà sollevate dalle posizioni dei predecessori. In questo caso, mi riferisco ad Agostino, il quale nel “Contra Academicos confutò lo scetticismo radicale a partire da una verità di base: “Si fallor, sum”, “Se dubito di tutto, almeno esisto io che dubito”. Ma anche Aristotele nella “Metafisica” aveva già confutato gli scettici, cioè i negatori del principio di non-contraddizione, facendo notare che chiunque affermi qualcosa, anche in negativo e quindi neghi, ha sempre la pretesa che sia vera la proposizione che sta affermando o negando. Il vero scettico dovrebbe tacere, non dire nulla, come una pianta. Ed effettivamente è quello che provò a fare il primo grande scettico della grecità, cioè Pirrone di Elide, con la sua “afasia”. Pirrone non diceva nulla e si comportava altresì come se tutto fosse indifferente, e i suoi allievi dovevano evitare che cadesse in un pozzo quando camminava. La tradizione dello scetticismo successivo, per esempio Sesto Empirico, invece arrivò a una posizione problematica molto interessante, che consente di riflettere sui fondamenti di ciò che riteniamo assolutamente vero e di evitare ogni dogmatismo; in questo caso lo scetticismo è positivamente propedeutico alla ricerca sincera della verità, che non è mai definitiva.

Della Corte: Se per gli scettici tutto è relativo, non lo stesso equilibrio che si raggiunge attraverso l’afasia e l’epochè?

Prof. Girgenti: Il problema sta nel fatto che la relatività non è solo una posizione teorica, ma è la situazione concreta e reale in cui interagiscono più soggetti. Facciamo un esempio banale: se io dico “il gatto mangia il topo”, una situazione in cui ci sono due soggetti, è chiaro che lo stesso fatto è buono per uno, cioè in relazione al gatto, e cattivo per l’altro, cioè in relazione al topo. Se moltiplichiamo i soggetti, a partire da quelli umani, ma io ci metterei anche gli animali, è chiaro che ci troviamo in una rete di interazioni molto articolata e complessa. Pertanto,il relativismo non deve restare allo scetticismo, ma può e deve essere ribaltato in una riflessione sulla complessità del mondo, per tenere presenti tutti i soggetti, le loro esigenze, le differenze, le condizioni, i luoghi, i tempi, le età, il sesso, e via dicendo.

Vassallo: Qual era l’opinione che gli epicurei avevano di coloro che assecondavano i piaceri non catastematici, e che, dunque, non seguivano il precetto vivi nascosto?

Prof. Girgenti: Gli epicurei non avevano la pretesa di convincere gli altri della bontà della loro proposta, ma offrivano semplicemente una via di fuga dai turbamenti del mondo; ritengo che guardasserocon una certa compassione a coloro che si gettavano nell’agone politico, o che perseguivano una vita di piacere sfrenato, o oche ricercavano affannosamente l’arricchimento; nel senso che erano consapevoli che quelle erano vie illusorie alla felicità, e che al contrario, per quei sentieri sarebbero andati incontro al fallimento e alla catastrofe.

Locandina a cura dell’allieva della terza E M.A Villano e foto 

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