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Tra proteste e populismo, cosa sta accadendo alle campagne europee e perché

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In queste ore, in questi giorni, gli agricoltori europei sono in marcia verso Bruxelles. Appuntamento per tutti è il 1 febbraio 2024, a place de Luxemburg di fronte al Parlamento europeo. È già accaduto e non sempre sono state manifestazioni “pacifiche”. Perché la rabbia dei contadini, quando si scatena per davvero, è difficilmente prevedibile. Ma perché tutto questo? Le ragioni sono molte e in parte diverse a seconda delle aziende agricole i cui rappresentanti, ormai da settimane, sono scesi in strada.
È già accaduto, si diceva. Ed è bene ricordare almeno due altri episodi, perché la storia serve sempre anche per capire il presente.

Poco più di cinquant’anni fa – il 15 febbraio 1971 – gli allevatori arrivarono a portare le mucche fin dentro la sale in cui si svolgeva il consiglio agricolo di allora: l’obiettivo era allora quello di far cambiare la politica agricola che prevedeva un blocco dei prezzi agricoli per abbattere le eccedenze. Sul finire del ventesimo secolo – nel febbraio 1999 – un’altra manifestazione con oltre 40mila agricoltori invase sempre Bruxelles blindata e deserta: non fu una passeggiata pacifica e anche quella volta l’obiettivo era ostacolare una politica che agli occhi dei produttori era troppo restrittiva e penalizzante.

Oggi, dopo settimane di blocchi delle strade, letame rovesciato a quintali davanti ai palazzi dei governi, lunghi cortei di trattori, agricoltori inferociti e incidenti (si contano un morto in Francia e uno in Italia), la marcia verso i palazzi europei è ripartita: obiettivo ancora una volta un’Europa agricola che i campi sentono troppo lontana e troppo vincolante.

La sintesi dei motivi può essere colta in una nota di Coldiretti riferita alla manifestazione di Bruxelles: “Scatta la prima mobilitazione con gli agricoltori da tutta Europa contro le follie dell’Unione Europea che minacciano l’agricoltura”.

Ad oggi, sono almeno due i motivi principali della protesta. Prima di tutto l’obbligo di lasciare incolta una parte consistente dei terreni agricoli, poi la generale politica di accordi commerciali con i produttori extraeuropei. Complessivamente gli agricoltori contestano lo spostamento della politica agricola su posizioni e obblighi giudicati troppo ambientalisti (il cosiddetto Green new deal) e a scapito della produzione e dei consumatori. Obblighi che, tra l’altro, porrebbero l’agricoltura europea su posizioni poco competitive rispetto al resto delle agricolture mondiali. Confagricoltura, riferendosi all’Italia ma non solo, ha parlato di “disagio del mondo agricolo in tutta l’Unione nei confronti del Green Deal, che ha posto, di fatto, il settore primario sul banco degli accusati”. Sullo sfondo sono anche gli effetti del cambiamento climatico che tartassano ormai da anni i campi con un altalenare di gran secco e gran caldo e di alluvioni e gelo. Cia-Agricoltori italiani ha ricorda come “nessun settore agricolo è indenne dalla crisi ormai diffusa e generalizzata, tra emergenze geopolitiche, climatiche e fitosanitarie”. Ma ci sono anche le conseguenze di due guerre in corso, con i costi dei mezzi di produzione schizzati alle stelle in certi periodi (la crisi del Mar Rosso è l’ultimo esempio in ordine di tempo). Senza dire della diatriba sulle etichette, oppure di quella relativa alla tutela delle produzioni tipiche.
Accanto alle motivazioni generali, poi, ci sono cause più “locali”. In Francia, nelle scorse settimane, una delle micce è stata la proposta di aumentare il prelievo fiscale sull’acquisto di fitofarmaci e sull’acqua. In Polonia, Ungheria e Romania le proteste sono state causate dall’arrivo di grano dall’Ucraina. In Olanda si è manifestato contro misure del governo tese a ridurre la dimensione degli allevamenti, allo scopo di tagliare le emissioni di azoto.
Eppure, va ricordato, l’Europa destina miliardi e miliardi di euro all’agricoltura. Più di un terzo delle risorse (circa 300 miliardi) andrà al comparto tra il 2023 e il 2027. Troppo pochi? Oppure male distribuiti? Poi ci sono alcuni dati oggettivi che parrebbero indicare miglioramenti di fatto. Stando ad Eurostat, nel 2023 il prezzo medio dei beni agricoli europei nel loro complesso è aumentato del 2% rispetto al 2022, mentre il prezzo medio dei beni e servizi consumati in agricoltura è diminuito del 5%. Certo, le medie non fanno la realtà però.
Di fronte a tutto questo, i governi si stanno mobilitando e la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen ha lanciato un forum permanente: il “Dialogo strategico sul futuro dell’agricoltura”.

Alcuni episcopati si sono schierati con gli agricoltori. La Commissione delle conferenze episcopali dell’Unione europea (Comece) ha rilasciato una dichiarazione per esprimere solidarietà con gli agricoltori, invitando i responsabili politici a porre la persona umana al centro delle considerazioni politiche sull’agricoltura. Per la Comece “un futuro sostenibile del nostro sistema alimentare e un futuro sicuro e prospero per gli agricoltori possono coesistere”.
Occorrerà arrivare ad un compromesso che metta insieme esigenze generali e ambientali con istanze produttive e locali.
Intanto però si profila un rischio importante. Come già accaduto in passato, le proteste agricole sono toccate dal populismo, dalla tendenza a difendere il proprio campo, dalle chiusure all’altro, dalla facile demagogia sulle buone tradizioni rurali. Così, le giuste rivendicazioni degli agricoltori (che spesso non riescono a coprire i costi di produzione) rischiano di essere fagocitate da altre pretese. E dal ritorno degli Stati. Non a caso, in questi giorni il primo ministro francese Gabriel Attal ha affermato che il suo governo ha “intrapreso un’azione risoluta per la sovranità agricola del nostro paese” e che “la nostra agricoltura è una forza, non semplicemente perché ci nutre nel senso letterale del termine, ma perché costituisce uno dei fondamenti della nostra identità e delle nostre tradizioni. Perché i nostri agricoltori incarnano valori fondamentali”.

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