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La memoria e la giustizia internazionale

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Lo sguardo puntato sul terreno di un conflitto che miete le sue vittime dal 7 ottobre scorso, ma che sta lacerando l’identità di due popoli, ha lasciato forse ai margini l’intervento della Corte internazionale di giustizia (CIG) con le sue misure provvisorie adottate quale primo atto di un iter lungo e complesso.

Chiamata a valutare la condotta di Israele su richiesta del Sudafrica rispetto alla possibile violazione della Convenzione contro il genocidio del 1948, la Corte ha rispettato la scansione delle sue procedure prima di una decisione finale che forse, non sappiamo quando, e in che modo, assumerà in futuro. Ma probabilmente l’effetto voluto non ci sarà perché una cosa è chiara nell’atto pronunciato dai giudici dell’Aja: nessuna richiesta di cessate il fuoco, ma piuttosto quella di condurre il conflitto rispettando il diritto internazionale umanitario, il diritto di guerra per intenderci, che è certo un grande assente. Questo rallenta le speranze per una uscita dall’uso delle armi da parte di due combattenti che subordinano alla stretta reciprocità ogni risultato recuperato dal negoziato. Se le misure della Corte non hanno spazio poiché per Israele la pronuncia è ritenuta un atto non rilevante, per i terroristi di Hamas non hanno alcun senso. E così ancora una volta gli organi internazionali perdono qualunque possibilità di intervento rispetto alle situazioni che sono chiamati a gestire o a risolvere, prevenendone conseguenze indesiderate e soprattutto quegli effetti che negano il senso di umanità che anche la guerra deve avere.

Non abbiamo memoria o forse l’abbiamo e la lasciamo al di fuori di ogni considerazione, la allontaniamo dal nostro quotidiano. Eppure le grandi catastrofi umanitarie prodottisi nel mondo hanno sempre alla base il mancato rispetto di quell’ordine strutturale nei rapporti fra popoli che con fatica, piccoli passi, alcune intuizioni, è stato costruito nei decenni, proprio per garantire che nessuno possa operare al di fuori delle regole.

Nel suo argomentare la Corte, in questa occasione, richiama la necessità di riappropriarsi di quel senso della ragione che solo può imporre tregue, soccorso dei feriti, distribuzione di aiuti, accoglienza dei profughi. La CIG ha anteposto al comportamento delle parti in conflitto, il rilascio immediato degli ostaggi israeliani e ha indicato come criterio che le forze militari di Israele debbono operare per prevenire – e non commettere o cancellare le evidenze – atti che rientrano nella fattispecie di genocidio. Un richiamo a prendere le necessarie misure che evitino, incitamenti o emulazioni. Inoltre, spicca l’obbligo di garantire ogni azione di ordine umanitario per l’assistenza ai civili. Del tutto dandone evidenza alla Corte entro un mese.

Ma quale effetto potrà avere tutto questo, al di là dei profili procedurali? Quale l’impatto per la giustizia internazionale?

Forse per la diplomazia al lavoro potrebbe essere uno stimolo a perseverare lì dove il negoziato sembra bloccato e interessi particolari impongono anche ai negoziatori di cancellare la memoria, ma soprattutto di negare il futuro a due popoli che hanno come diritto quello di esistere e come unico obiettivo quello di poter coesistere pacificamente nei rispettivi territori. Che l’intuizione emersa quel lontano ottobre 1981 nella Conferenza di Madrid, di procedere a costituire due diversi Stati in quell’area martoriata e santa, debba essere riportata alla realtà odierna è un dato di fatto, obbligato perché esclude ogni alternativa; ma oggi come ieri tutto riposa sulla volontà delle persone è meglio diremo sulla loro capacità di essere riferimento per i processi di riconciliazione e di pace.

In quanto avviene a Gaza, sorretto dalla portata dell’autodifesa, intorno al richiamo alla pace si accumulano retorica, appelli e ogni altra sorta di intervento, spesso rendendo insignificante un termine che invece ha ragion d’essere se riportato al suo vero significato: non ledere, rispettare, accogliere… Traguardi lontani certamente in un mondo che, come dice la Corte, sembra aver smarrito anche l’umanità della guerra, paradosso dei nostri tempi e dei tempi passati. Forse perché non siamo più in grado di dare il giusto significato alle cose. Distruggere si può, è facile. Ricostruire può essere anche impossibile.

Ritorna qui la memoria, quella di un passato non troppo lontano che ha ripudiato la pace e non ha operato per costruirla, lasciando ad altri il compito di scatenare la guerra, le deportazioni e il genocidio. E gli altri l’hanno fatto, permettendo alle aspirazioni più alte e forse alla stessa realtà quotidiana di ecclissarsi, sfuggendo a limiti e regole.

Su quelle ceneri del senso dell’umano, è sorta una giustizia internazionale a cui è chiesto anzitutto di proclamare valori e non sentenze. Una giustizia che anche oggi rimane titubante perché schernita. Eppure ci riconduce alla realtà, quella che impone di vivere insieme, pacificamente, nonostante e in presenza di diversità, modi di fare differenti, concezioni e stili di vita non certamente omogenei. Una giustizia che può prevenire l’appiattimento delle coscienze, che cancella la memoria.

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