Succede – per non farla troppo lunga con le premesse – che nei giorni scorsi a Milano si è tenuta una presentazione dell’ultimo libro di Barbano, La gogna. Hotel Champagne. La notte della giustizia italiana, edito da Marsilio e presto ne parleremo anche noi di Huffpost: da dire ce n’è. Fra gli ospiti, uno particolarmente illustre – sebbene il Fatto si precipiti a definirlo berlusconiano, segno d’infamia bastevole a ricacciarlo nell’angolo – è l’ex giudice costituzionale Nicolò Zanon.

Non volevo farla lunga con le premesse e invece ne occorre un’altra, breve. Zanon ha un curriculum non trascurabile, diciamo così. Professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Milano, ex membro del Consiglio di presidenza della magistratura amministrativa, nel 2010 entra nel Consiglio superiore della magistratura su indicazione del Popolo della libertà, nel 2013 il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, lo nomina fra i 35 saggi incaricati della riforma della seconda parte della Costituzione, l’anno dopo è alla Corte costituzionale dove sale fino alla vicepresidenza, sia con Giuliano Amato sia con Silvana Sciarra.

Torniamo alla presentazione del libro di Barbano. Zanon racconta gli accadimenti del 20 luglio scorso, quando la Corte costituzionale, di cui Zanon era ancora giudice, si pronuncia sul conflitto di attribuzioni sollevato dal Consiglio superiore della magistratura.

Il Csm richiede l’utilizzo delle intercettazioni dell’ex parlamentare Cosimo Ferri, e la Camera glielo rifiuta. Ferri era stato intercettato in lungo e in largo mentre parlava con Luca Palamara, ex magistrato, ex componente del Csm, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, esuberante mediatore fra le correnti della magistratura per l’occupazione delle cariche più ambite.

L’intercettato è lui, Palamara. Ferri è parlamentare, e intercettarlo non si può. Ma siccome a Palamara hanno inoculato (bel verbo) un trojan nel telefonino, lo si ascolta da mattina a sera, e qualche volta la notte, che sia impegnato nelle trame a beneficio della casta in toga o in conversazioni con la cugina sul menù del compleanno della zia. Con Ferri le chiacchierate sono centinaia, comprese quelle celebri all’Hotel Champagne, dove politica e magistratura, da trent’anni in lotta e pure in combutta, concertano il loro risiko giudiziario.

Palamara è intercettato dalla procura di Perugia, da cui sarà coperto di imputazioni, compresa la corruzione, e poi svilite nella solita banale e nebbiosa condanna per traffico d’influenze. La dimostrazione magnifica che morale e legge non sempre coincidono, e non è necessario essere criminali per inzaccherare la dignità dei ruoli, di magistrato o di deputato. Vabbè, altra divagazione. Quelle intercettazioni continuano comunque a essere necessarie a Cassazione e Csm per i provvedimenti disciplinari di Palamara e soci, compresa la radiazione del primo. E lì nasce il conflitto di attribuzioni. Secondo la Camera, e secondo la legge, almeno credevamo, la procura di Perugia avrebbe dovuto interrompere gli ascolti e le registrazioni a causa della presenza di un parlamentare della repubblica. A dimostrarlo c’è proprio una recente sentenza sul caso di Matteo Renzi della Corte costituzionale, che ha valutato inutilizzabili dalla procura di Firenze gli whatsapp e le mail del senatore raccattate attraverso conversazioni con indagati e senza l’autorizzazione del Senato. E quindi, dice la Camera, spiacenti ma non se ne può fare nulla. Il Csm non si arrende e chiede conforto alla Corte costituzionale. Che il 20 luglio dà ragione proprio al Csm ribaltando sé stessa, dopo aver dato ragione al Parlamento nella vicenda di Renzi. Zanon racconta bene la motivazione addotta: “Non è pensabile che si dia ragione alla Camera, perché se si dà ragione alla Camera le intercettazioni acquisite diventano prove non più valide e il rischio a catena è che tutti i processi disciplinari [finiscano in nulla]”.

Mica male. Il giudice costituzionale, Franco Modugno, oggi vicepresidente di Augusto Barbera, si rifiuta di stendere la sentenza perché non la condivide e perché gli toccherebbe scrivere l’opposto di quanto ha scritto nella sentenza su Renzi. Si rifiuta, in definitiva, di andare in una direzione quando tocca dare torto alla procura di Firenze e di andare nell’altra quando tocca dare ragione al Csm, impegnato – aggiungo io – a darci dentro con Palamara e soci con un accanimento che ha sempre avuto l’aria dell’autopurificazione: loro erano i cattivi, tutti gli altri nulla sapevano, nulla c’entravano.

Ed è un gran peccato: non se ne parla (ho visto un pezzo sul Dubbio, uno sul Giornale, uno sul Foglio, un quadratino sul Fatto) e si continuerà a non parlarne, temo. E invece sarebbe indispensabile che la Corte chiarisse, se non vuole legittimare il sospetto di una Carta interpretata a seconda di chi ne debba beneficiare, in un comportamento che di palamaresco avrebbe più di un po’. La notte della giustizia è lontana dall’alba, e la notte del Parlamento è ancora più scura mentre i parlamentari dormono della grossa.