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Come i centri in Albania. Borbone e Savoia, la deportazione degli scomodi ha tre precedenti

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Come i centri in Albania. Borbone e Savoia, la deportazione degli scomodi ha tre precedenti

DI MASSIMO NOVELLI
27 NOVEMBRE 2023

Non solo Albania. L’idea di deportare all’estero i “diversi”, immigrati, oppositori o “briganti”, non è nuova nella storia italiana. La si vagheggiò nel Regno delle Due Sicilie, fu messa in pratica nel Regno d’Italia. Il re Ferdinando I di Napoli ci provò, ma vanamente, come si racconta in una Storia d’Italia ottocentesca, quella iniziata da Giuseppe La Farina e continuata da Luigi Zini. Il sovrano borbonico “escogitò un partito onde sperava liberarsi d’un tratto da varia ragione molestie, e però intavolò e concluse un trattato colla Repubblica Argentina per consegnarle e commetterle alla sua custodia i condannati politici”, che avrebbero potuto lavorare poi in terre a loro assegnate. Tuttavia il governo argentino pose “la condizione di ricevere li coloni purché volontari, e senza obbligo di custodia”. Così tutto sfumò.

Più successo ebbe il governo del Regno d’Italia, poco dopo l’Unità. Lo ha rivelato Marco Fano, studioso della guerra (1865) di Argentina, Brasile e Uruguay contro il Paraguay nei volumi che compongono Il rombo del cannone liberale, pubblicati una decina di anni fa. Quella “sporca guerra” ebbe, tra le altre nefandezze, anche il concorso italiano. Nel settembre del 1865, infatti, autorità mai individuate delle nostre istituzioni stipularono segretamente un contratto con un agente commerciale dell’Argentina e alcuni sensali e armatori di Genova, con il fine di fare espatriare, ovviamente contro la loro volontà, oltre cento detenuti politici prelevati dalle carceri di Torino e Genova. Illustra un documento dell’epoca, vergato dal capitano della nave L’Emilia, che i 138 poveracci “facevano parte della sommossa di Torino”, avvenuta il 21 e 22 settembre 1864 per lo spostamento della capitale da Torino a Firenze, e che fece decine di vittime, cadute sotto il fuoco di polizia e militari. Erano tutti incarcerati illegalmente, dato che nel febbraio del 1864 il re Vittorio Emanuele II aveva firmato il decreto d’amnistia per gli arrestati durante i fatti di settembre dell’anno prima.

In ogni caso, l’imbarco avvenne senza problemi. A testimoniarlo c’è la memoria che Giacomo Ramò, capitano dell’Emilia, inviò al nostro console di Buenos Ayres. Il diplomatico, con coraggio, scrisse a sua volta ad Alfonso della Marmora, presidente del Consiglio, denunciando “siffatte violenze”.

Ma dall’Italia non ci fu risposta. Intanto i 138 nuovi schiavi erano arrivati in Argentina, all’inizio del 1866. Sparirono nel nulla. Di loro si persero le tracce, sebbene sia presumibile che molti vennero arruolati nell’esercito argentino e probabilmente morirono nella lunga guerra col piccolo Paraguay.

Sempre nel 1865, si tentò di inviare fuori dalla patria italiana i “briganti” del Sud. Il progetto non andò in porto, anche perché allora, a differenza di oggi, c’era ancora chi sapeva indignarsi e soprattutto sapeva agire. Il cavalier Vazio, ispettore delle carceri del Regno, sul giornale Effemeride Carceraria esternò a gran forza i suoi dubbi. “La deportazione de’ condannati a perpetuità in terre digià abitate”, osservò, “non sembra che meriti nel caso nostro l’onore della discussione, imperciocché tal genere d’espiazione sarebbe poco dissimile o dall’esilio in terra fissa o dalla schiavitù”.

FONTE:

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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