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Colpa per colpa, tutti i carnefici di Mps

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IN EDICOLA/ECONOMIA

Colpa per colpa, tutti i carnefici di Mps

Colpa per colpa, tutti i carnefici di Mps

Nomi e ruoli. L’agonia della banca. Quante distrazioni Da Mussari e i suoi fino ai “vigilanti” Draghi, Tarantola, Vegas, a Orcel e all’ex ministro Padoan: ecco attori e comparse del disastro senese

di Nicola Borzi e Carlo Di Foggia | 6 AGOSTO 2021

 

L’ultima tappa del disastro Mps – lo spezzatino e la cessione a UniCredit – costerà allo Stato almeno 8 miliardi. A dispetto della cifra, però, nessuno, né il ministro dell’Economia né le autorità bancarie, si prende la briga di spiegare come si è arrivati a questo punto. Ecco una breve e inesaustiva lista dei volenterosi carnefici del Monte.

Giuseppe Mussari. Avvocato cresciuto nei Ds, banchiere dilettante per sua stessa ammissione, nasce dalemiano ma si fa apprezzare dai potentati senesi che lo fanno presidente della fondazione che controlla l’istituto. Nel 2006 si fa nominare presidente della banca e l’anno dopo decide lo sciagurato acquisto di AntonVeneta: la paga tre volte il valore pagato all’olandese Abn Amro dal Santander di Emilio Botin, che gliela vende a scatola chiusa tramite il capo italiano, Ettore Gotti Tedeschi, seguace dell’Opus Dei come Botin. L’acquisto, chiuso a crisi finanziaria mondiale già scoppiata, scasserà la banca. Le famose operazioni in derivati (Alexandria e Santorini) serviranno solo tamponare le falle. Chi ha appoggiato Mussari? La lista di chi applaudì all’operazione è lunghissima. In cima ci sono Franco Bassanini e Giuliano Amato, per un decennio eletti a Siena e forti influencer delle sorti di Mps.

Annamaria Tarantola. Nel 2007, responsabile dell’area vigilanza della Banca d’Italia, è la burocrate addetta a interfacciarsi coi vertici del Monte per l’acquisto di AntonVeneta. Li incontra più volte, una anche con il governatore Draghi. “Ci raccomandammo con Mussari di fare l’acquisto per bene”, spiegò ai pm senesi. Nessuno dei vertici di Bankitalia impone una due diligence della banca. “Non ci fu segnalato che Mps aveva acquisito AntonVeneta senza due diligence. Per prassi, Banca d’Italia caldeggia sempre, in caso di acquisizioni, la due diligence preventiva”, spiegò ai magistrati l’allora dg di Bankitalia, Fabrizio Saccomanni, deceduto nel 2019. Monti promuove Tarantola nel 2012 alla presidenza della Rai. Oggi è consigliera economica a Palazzo Chigi.

Vincenzo De Bustis. Banchiere dalemiano, a fine ’99 convince Mps a strapagare per 1,3 miliardi Banca 121, che guida. Operazione che inizia a picconare i conti: lui passa armi e bagagli a Siena, insieme ad alcuni manager fidati. Plurimultato dalle autorità di vigilanza, il suo nome comparirà anche nel disastro della Popolare di Bari.

Mario Draghi. È il governatore di Bankitalia quando Mussari decide di strapagare AntonVeneta. Nel 2008 autorizzò l’acquisto perché “non in contrasto con la sana e prudente gestione della banca”. Eppure la Vigilanza sapeva che AntonVeneta era decotta perché l’aveva ispezionata a fine 2006. Dopo che Mussari e il dg Antonio Vigni lo incontrano in Via Nazionale, il secondo si appunta “Bankitalia sarà al vs fianco”. A gestire la pratica ci sono Tarantola e Saccomanni. Draghi è riuscito a non essere mai sentito da nessuno sulla vicenda: né dai pm, né nei procedimenti giudiziari, né dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche dove il presidente Pier Ferdinando Casini si guardò bene dal convocarlo per non attirare le ire del Quirinale. A novembre 2011 passa alla Bce. Gli ispettori inviati a Siena hanno scoperto il derivato Alexandria. Nello stesso mese, il suo successore Visco convoca Mussari e Vigni e gli dice di togliersi di mezzo. “La Banca d’Italia ha fatto con Montepaschi tutto quanto doveva, in modo appropriato e a tempo debito. Si tratta di un caso isolato e legato non tanto alla gestione quanto a condotte criminali”, spiegherà qualche mese dopo.

Giuseppe Vegas. È un monumento al vigilante distratto. Alla guida della Consob dal 2010, riesce, come la vigilanza di Bankitalia, a non vedere o a intervenire sempre in ritardo. Il trionfo è sulle operazioni in derivati usate dalla banca per mascherare le perdite. Basta leggere la sentenza che ha condannato a 6 anni per falso in bilancio i successori di Mussari e Vigni, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, chiamati a risolvere la grana senese. Nel settembre 2011, l’Authority di Borsa attiva gli ispettori di Bankitalia dopo un esposto anonimo (l’autore è un manager di Mps) sull’operazione Alexandria. Gli ispettori capiscono che si tratta di un derivato creditizio e affidano il sospetto a un rapporto che consegnano (giugno 2012) alla Consob, titolare del potere di vigilanza sui bilanci. Consob avvia un iter lungo e farraginoso per decidere se sono derivati o no e quindi come contabilizzarli (nel primo caso a “saldi chiusi” nel secondo a “saldi aperti”, con riflessi immediati sui bilanci). Insieme a Bankitalia, l’8 marzo 2013 redigono un documento per stabilire che vanno contabilizzati a “saldi aperti” e – incredibilmente – solo dopo chiede un parere agli organismi internazionali di settore. Pochi giorni dopo, il 21 marzo, redige una nota in cui i tecnici dell’Authority scrivono di ritenere Alexandria e Santorini due derivati a tutti gli effetti. Ma non accade nulla.

Risultato: solo nel 2015 Consob decide che Mps deve correggere i bilanci perché, trattandosi di derivati, andavano contabilizzati a “saldi chiusi” mentre l’omologa tedesca Bafin aveva imposto a Deutsche Bank di considerare Santorini come tale già nel 2013. Le multe per la vicenda a Mussari e compagnia arrivano solo nel 2018, sei anni dopo, e per questo gigantesco ritardo sono state quasi tutte annullate. La Corte d’appello di Catanzaro, per dire, ha annullato quella di Mussari “per decadenza della Consob dall’esercizio della potestà sanzionatoria, in ragione della riscontrata inerzia nel- l’accertamento degli illeciti” visto che l’Authority “già dal 2014 era al corrente almeno del nucleo essenziale delle condotte contestate”.

Pier Carlo Padoan. È il conflitto d’interessi incarnato. Nel 2016, da ministro dell’Economia lascia il Monte in crisi a bagnomaria per non disturbare la campagna referendaria di Renzi, di cui accetta tutti i diktat, compreso quello di cacciare l’ad di Mps Viola per far posto a un manager gradito a Jp Morgan, con cui Renzi si era speso in promesse. Nel 2017 nazionalizza Mps con 5,4 miliardi. Dopo averli bruciati, si candida a Siena col Pd, poi abbandona il seggio dopo la nomina a presidente di UniCredit, la banca che ora si prenderà la polpa di Mps dopo la pulizia a carico dello Stato.

Andrea Orcel. Oggi guida UniCredit e il cerchio si chiude. Dalla banca d’affari Merrill Lynch partecipa a tutte le tappe del disastro (non il solo della sua lunga carriera). È il consulente dello spezzatino di Abn Amro: prima rifila l’Antonveneta a Botin, poi convince Mussari a prendersela al triplo. Oggi, in UniCredit, può godersi il frutto di quelle scelte.

Amara, gli 8 mancati indagati: così iniziò la guerra tra pm

Amara, gli 8 mancati indagati: così iniziò la guerra tra pm

Milano. La vera storia dell’inchiesta che sta dividendo la Procura: Storari chiese di iscrivere alcune persone, ma non l’avvocato siciliano

di Gianni Barbacetto e Antonio Massari | 6 AGOSTO 2021

 

Il sostituto procuratore Paolo Storari chiese di iscrivere otto persone sul registro degli indagati, nella primavera 2020, dopo gli interrogatori dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, che tra dicembre 2019 e gennaio 2020 aveva raccontato a Storari e al procuratore aggiunto Laura Pedio l’esistenza di un presunto gruppo di pressione chiamato loggia Ungheria. Inizia così lo scontro che sta dividendo la Procura di Milano. Emerso molto tempo dopo, quando si è saputo che Storari aveva passato all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, i verbali segretati di Amara sulla loggia Ungheria: a sua autotutela – sostiene – poiché era preoccupato per l’inerzia investigativa dei suoi capi, l’aggiunto Pedio e il procuratore Francesco Greco.

Ora, negli atti del Csm che ha respinto la richiesta di spostare Storari dalla Procura di Milano per incompatibilità ambientale, l’inerzia investigativa è diventata preoccupazione e differenza di vedute tra il pm e i suoi capi. Ma quali sono i fatti accaduti? Il 24 aprile Storari affida alla polizia giudiziaria la delega a identificare alcune persone citate nei verbali di Amara. Il 26 manda a Laura Pedio la richiesta di iscrivere otto persone, tra cui il consigliere del Csm Marco Mancinetti e il magistrato torinese Andrea Padalino. Il giorno seguente, la proposta arriva a Greco, che convoca per il 29 aprile una riunione per discutere la vicenda.

Il procuratore propone di individuare alcuni criteri per scegliere chi iscrivere, tra le oltre 70 persone (magistrati, funzionari dello Stato, imprenditori, avvocati, generali, monsignori vaticani) citate da Amara nei suoi verbali. Propone anche di iniziare iscrivendo tre persone che non erano comprese nelle otto segnalate da Storari, ma avevano ammesso il loro coinvolgimento: e cioè Amara e i suoi collaboratori Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro; e magari anche Vincenzo Armanna.

Greco ha presente anche il problema della competenza territoriale, che sarebbe rimasta a Milano con l’iscrizione di Amara, Calafiore e Ferraro, già da tempo indagati a Milano per il cosiddetto complotto Eni; mentre avrebbe rischiato di passare a Roma o altrove, se le iscrizioni avessero riguardato fatti avvenuti a Roma o altrove. Il procuratore segnala che c’è pure il tema dell’inquadramento delle accuse: quella che Amara chiama loggia Ungheria è un insieme di gruppi di pressione o un gruppo stabile e organizzato? Esiste una lista degli iscritti? Amara promette di portarla in Procura ma poi rimpalla le responsabilità con Calafiore e la lista non compare. Ha una sede? Un capo? Dei rituali d’affiliazione? E il capo, se esiste, come è scelto? Tutte queste domande sono essenziali per poter iscrivere gli indagati per violazione della legge Anselmi (varata dopo la scoperta delle liste P2) che vieta le organizzazioni segrete. Poiché sono ancora senza risposta, i magistrati decidono di porle al più presto ad Amara, per poi procedere alle iscrizioni. Nel frattempo però l’indagine non precipita nel vuoto, perché – secondo il “rito ambrosiano” che ha dato buoni risultati fin dalle inchieste di Mani pulite – tutti gli atti restano saldamente ancorati al fascicolo “contenitore” (in questo caso quello del complotto Eni trattato da Pedio e Storari), da cui è possibile fare uno stralcio non appena si concretizzi un filone abbastanza consistente da poter diventare autonomo.

Ma intanto Amara non poteva più venire a Milano per essere interrogato. Era entrato in carcere, a Rebibbia, già il 10 febbraio 2020, in esecuzione dei suoi patteggiamenti per altre indagini a Messina e a Roma. Esce di cella il 14 febbraio, ma poi dall’8 marzo 2020 l’Italia diventa zona rossa ed è praticamente impossibile spostarsi, sia per gli indagati, sia per i magistrati.

Intanto si compie l’atto che segna tutta questa storia: Storari ad aprile (ma non c’è certezza oggettiva sulla data) consegna a Davigo copie word e senza firma dei verbali segreti di Amara sulla loggia Ungheria. Questo prima che Greco rifiuti, nella riunione del 29 aprile, le otto iscrizioni proposte da Storari. E prima di ricevere la richiesta di fissare dei criteri oggettivi per scegliere chi iscrivere e di delineare i contorni del reato per cui iscrivere. Difficile anche scegliere a chi delegare le indagini di polizia giudiziaria: sul complotto Eni era già al lavoro la squadra della Guardia di finanza di Milano, cui non viene però dato il mandato di indagare sulla loggia Ungheria: perché – secondo Amara – ne facevano parte anche due generali delle Fiamme gialle.

Ora la Cassazione acquisirà dal Csm la lettera anonima

Ora la Cassazione acquisirà dal Csm la lettera anonima

La Procura generale della Cassazione ha chiesto al Csm di acquisire una lettera anonima molto importante, per allegarla al fascicolo disciplinare a carico del pm milanese Paolo Storari, indagato anche a Brescia per rivelazione di segreto, per aver dato, lo scorso anno, all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo – indagato pure lui – una copia non firmata, in Word, dei verbali segreti dell’avvocato Piero Amara, che descriveva una presunta loggia massonica denominata Ungheria. La richiesta della Procura generale arriva dopo che Il Fatto ha reso nota quella lettera, che era nel plico con una copia dei verbali di Amara, spediti al nostro giornale, per la seconda volta, a novembre. C’era scritto: “Salvi (Giovanni, Pg della Cassazione, ndr) è al corrente ma non vuole fare nulla”. E ancora: “È al corrente anche Erbani (Stefano, consigliere giuridico del presidente Mattarella, ndr), aggiungendo che c’erano “molti altri al corrente, soprattutto alcuni di Area”. Salvi, per chiarire che Davigo gli aveva parlato solo di un conflitto a Milano, scrive una nota: “Né io né il mio ufficio abbiamo mai avuto conoscenza della disponibilità da parte di Davigo o di altri, di copie di verbali” di Amara. Torniamo all’anonimo: secondo la procura di Roma si tratta dell’ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contrafatto, anche sotto procedimento disciplinare amministrativo. Ed è nel suo fascicolo disciplinare che si trova, secondo quanto ci risulta, una copia della lettera anonima, trasmessa dalla procura di Roma. Quel fascicolo è a disposizione dei consiglieri del Csm, diversi dei quali sono giudici disciplinari, dato che a luglio c’è stato un plenum, aggiornato poi a settembre, per votare sul licenziamento della funzionaria.

Il Fatto ha scoperto anche che quel biglietto non è stato trasmesso alla Procura generale della Cassazione per il procedimento a carico di Storari. Perché è un particolare importante? Non certo perché Storari abbia a che fare con le spedizioni di cui è accusata Contrafatto, quanto perché potrebbe corroborare la tesi della Procura generale di violazione della mancata astensione del pm dall’inchiesta milanese sulla fuga dei verbali. Una violazione negata dai giudici disciplinari che hanno rigettato la richiesta di trasferimento e cambio di funzioni per Storari. Nell’ordinanza si legge che dal Pg “non sono stati forniti neppure meri indizi” di questa ipotizzata violazione, ritenendo, quindi, che a un pm esperto come Storari, vedendo la copia dei verbali consegnati dal Fatto, a prescindere dalla lettera anonima che i giudici non hanno, non gli possa venire il dubbio che siano identici a quelli dati a Davigo e che debba astenersi. Una circostanza è certa: se la procura generale avesse ricevuto quella lettera, l’avrebbe allegata alla richiesta di cautelare e sarebbe stata a disposizione del collegio. A quel punto, per i giudici sarebbe stato arduo sostenere, come hanno fatto con una tesi singolare, che Storari fosse inconsapevole. In realtà Il Fatto ha consegnato ai pm Pedio e Storari anche un’altra lettera anonima, ricevuta con il primo plico dei verbali a fine ottobre: “Una testa l’hanno fatta cadere a causa di questi documenti”. Forse si parla del togato Marco Mancinetti dimessosi a settembre per un disciplinare legato alle chat di Palamara. Secondo Amara faceva parte della loggia Ungheria insieme al consigliere Sebastiano Ardita, su cui, però, ha fatto retromarcia in tv: “Non ha mai fatto nulla di illecito”.



(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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