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“Lay Confessor” il confessore laico… considerazioni e pensieri dell’Artista romano Gilberto di Benedetto

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“Lay Confessor” il confessore laico… considerazioni e pensieri dell’Artista romano Gilberto di Benedetto

La psicoterapia Ha le stesse basi della “confessione religiosa”: entrambe curano l’anima e’ quanto sostiene Padre Luca Monti vescovo della chiesa ortodossa Italiana che vuole aiutare le centinaia di psicologi e psicoterapeuti Italiani sospesi degli Ordini degli Psicologi per aver scelto la cultura della vita e non quella della morte rifiutando un siero sperimentale che alla luce delle recenti scoperte non e’ un vaccino.Padre luca intende costituire nelle professioni del benessere la figura del confessore laico ( lay confessor) in quanto la confessione e’ sinergica alla psicoterapia.

In un articolo pubblicato su Repubblica nel 2019 sinaffermava continua padre luca:Da Pitagora a Jung. Dall’”esame di coscienza” ai percorsi psicanalitici. Così, nei secoli, la scienza e l’uomo hanno esaminato i tormenti più profondi e la scoperta del sé.

I primordi di ogni trattamento analitico della psiche vanno ricercati nella confessione religiosa». Sono parole di Carl Gustav Jung, psichiatra e psicoterapeuta fondatore della psicologia analitica, vissuto nella prima metà del Novecento. Del resto, se l’etimologia della parola «psicoterapia» significa appunto «cura dell’anima», questa pratica affonda le sue radici nella civiltà greca, secoli prima dell’affermarsi del Cristianesimo.

«Sull’esame di sé e la ”confessione« delle proprie mancanze – spiega Claudio Risé, scrittore e psicoterapeuta autore del recente ”La scoperta di sé« (San Paolo ed.) – nasce la filosofia e la psicologia occidentale, con Pitagora, filosofo e scienziato greco. Nel pitagorismo, tuttavia, la ”confessione«, veniva fatta a sé stessi per riconoscere le proprie debolezze e gradualmente trasformarle. Questo era l’equivalente dell’«esame di coscienza« che il cristiano deve fare prima della confessione, ed ogni volta che può, per rimanere in contatto con la propria coscienza e mantenerla integra«.

Le intuizioni di Pitagora costituiscono il primo barlume di consapevolezza nella storia umana per sviluppare pratiche volte a organizzare la vita quotidiana, la personalità e la responsabilità delle persone. Per quanto la mentalità attuale spesso e volentieri conduca ad andare ”dove ci porta il cuore« (cosa che spesso può coincidere con la soddisfazione immediata di ogni capriccio) già gli antichi Greci mettevano in guardia dal cedere a quelle che, con lessico freudiano, si possono definire pulsioni.

”Ma tu non essere impulsivo« raccomandava Eschilo nel coro de ”I Sette contro Tebe«: nella tragedia greca, il disastro avveniva sempre a causa del cedimento a un impulso. Questo poteva provenire indifferentemente da un dio o da un demone; ecco perché, già secondo gli antichi, esso doveva essere sempre meditato e filtrato dall’uomo in un modo che conducesse a un’azione perfettamente libera».

Se l’insegnamento pitagorico giunse fino ai Romani («La confessione dei nostri peccati è il primo passo verso l’innocenza», scriveva il drammaturgo Publilio Siro nel I sec. a.C.) anche nel resto del mondo si è costantemente rivelata l’esigenza tipicamente umana di sgravarsi la coscienza parlando con qualcuno.

Nel Messico antico, i peccatori andavano a confessarsi dai sacerdoti della dea Tlaçolteotl (la «dea delle sozzure», cioè dei peccati specialmente carnali), i quali imponevano la penitenza. Nell’antico Perù, il penitente si confessava dall’ichuri, lo sciamano. Per espirare le proprie colpe ci si doveva sottoporre a lavacri o a salassi.

«Il senso di colpa – spiega il neuropsichiatra e scrittore Giuseppe Magnarapa – esiste da sempre ed è legato al principio di autorità il quale serve, a propria volta, a garantire la pace sociale. In assenza di un qualunque sistema di regole, infatti, non esiste la società. Se si infrange la regola, la psiche esprime l’esigenza di espiare, di produrre a se stessi lo stesso lutto o danneggiamento che si è procurato all’esterno per ”pareggiare i conti« e ritrovare un nuovo adattamento. L’esigenza di confessare anche pubblicamente la propria colpa esprime esattamente questa necessità. Una forma ancestrale di questo bisogno si avverte, ad esempio nella cosiddetta ”televisione verità« con persone che spettacolarizzano senza vergogna la propria intimità anche confessando azioni non esattamente edificanti».

Pubbliche erano, non a caso, le confessioni dei peccatori nei primi secoli del Cristianesimo: la preghiera, le buone azioni, il digiuno e l’elemosina erano le azioni grazie alle quali si otteneva il perdono del peccato. Questo viene definito dal Catechismo «una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni».

All’inizio, lo stato di penitente era molto gravoso e comportava forme di temporanea emarginazione. Nei secoli, la confessione dei peccati si è sempre più sistematizzata, ha iniziato a svolgersi privatamente, prima col vescovo e poi col semplice sacerdote, il quale è tenuto ancor oggi a osservare il più totale segreto «professionale» su quanto ascoltato durante il sacramento.

Carl Gustav Jung nel suo studio

Secondo Jung il processo psicoterapico si articola in quattro fasi. Durante quella che lui definisce Confessione, il paziente svuota i propri segreti, estrinsecando la propria condizione e sofferenza. Nella Chiarificazione, egli diventa consapevole dei propri sentimenti, intuisce i motivi che lo hanno condotto al dolore. Nell’Educazione, si propone di assumere nuovi comportamenti e atteggiamenti e infine, nella Trasformazione, il paziente assiste ai risultati dell’effettivo cambiamento nella sua vita.

Il parallelo col sacramento cattolico è abbastanza evidente, tanto che anche questo si articola in quattro fasi: la Contrizione, in cui il fedele si pente del male commesso, l’Esame di coscienza, in cui riflette su come e dove ha sbagliato; la Confessione, nella quale esprime al sacerdote tutti i peccati che in sincerità ricorda; infine la Soddisfazione, che implica un cambiamento nella propria vita e l’espiazione per il male compiuto con azioni risarcitorie, o con la preghiera.

Vi è infine da ricordare che alla base di tutto vi è il principio della Misericordia divina, che consente all’uomo di rialzarsi dopo i cedimenti e di proseguire sulla strada del perfezionamento spirituale. Negli ultimi anni, in ambito cattolico, si è parlato molto di Misericordia, meno spesso si è ricordato come questa non possa essere svincolata dal pentimento e dal riconoscimento dei propri peccati.

Fu il cardinale santo Carlo Borromeo, alla metà del ‘500, a regolare e a diffondere il confessionale nella sua classica struttura che, poi, si diffuse in tutto il mondo. Si tratta, come noto, di una cabina di legno dotata di inginocchiatoi; fitte grate metalliche celano il viso del penitente il quale non è tenuto a rivelare la propria identità al prete. Con il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha aperto anche alla confessione vis à vis.

Tuttavia, sarebbe interessante indagare quali benefici possa produrre l’atto rituale di liberare la propria coscienza in un soffio di parole, «spifferando» il male compiuto all’orecchio del sacerdote, ieratico e invisibile intermediario fra Dio e l’uomo, senza vederlo e senza farsi da lui vedere. Il diaframma costituito dalla grata era pensato in modo utile anche per il prete, per metterlo al riparo da contatti troppo ravvicinati e forieri di tentazioni. Probabilmente San Carlo aveva intuito, già cinque secoli fa, quello di cui da pochi decenni si occupa la Programmazione Neuro Linguistica, ovvero il linguaggio più o meno volontario che esprimono gli occhi e la posizione del corpo.

Per quanto, infatti, un pastore debba ascoltare con neutra benevolenza la confessione di un penitente, non è detto che egli riesca a controllare le sottili reazioni della sua postura e del suo sguardo che possono veicolare una quantità di messaggi involontari.

Non sappiamo se, nel mondo della psicoterapia, si sia mai sperimentata una soluzione tecnica come quella della grata del confessionale tradizionale, magari nell’ottica di assicurare maggiore libertà e comfort emotivo al paziente attraverso il completo

Il grande scrittore cattolico Gilbert Keith Chesterton riassumeva: «La psicoanalisi è una confessione senza assoluzione». In effetti, l’ approccio laico non prevede generalmente un sistema morale, né la credenza in un’entità trascendente. Mentre il sacerdote, con un segno di croce, riporta il fedele nella pace con se stesso, lo psicoterapeuta conduce il paziente a sciogliere dai solo i propri nodi attraverso un percorso che può essere lungo e difficile.

Ciò che emerge è che i contatti fra tradizione religiosa, (cattolica, ma non solo) e il mondo della psicoterapia-psichiatria offrono un fertile terreno di scambio. Ad esempio, oggi si parla spesso di narcisismo, di depressione; di disturbi alimentari come anoressia e bulimia; di sex addiction o ipersessualità. Non ci si trova dunque di fronte a versioni più o meno patologiche degli antichi vizi come superbia, accidia, gola e lussuria?

Margriet Sitskoorn, docente di Neuropsicologia clinica all’Università di Tilburg (Olanda), in un capitolo del suo libro «I sette peccati capitali del cervello» mostra, attraverso vari studi neuroscientifici, come il soddisfacimento dei bisogni più elementari, privi di riflessione etica e di controllo, conduca al rilascio di sostanze come dopamina e oppioidi, che producono piacere immediato anche se questo comporterà conseguenze negative per se stessi e per gli altri. E’ stata scoperta, dunque, la radice biochimica della seduzione del Male?

Tra religione e scienza «c’è piuttosto antipatia sentimentale che opposizione logica», sentenziava il colombiano Nicolás Gómez Dávila. Tuttavia, considerando che l’esperienza religiosa si è applicata allo studio dell’uomo per alcuni millenni, si potrebbe dare ragione ad Albert Einsteinj quando aprì al confronto fra i due mondi con una frase rimasta celebre: «La religione senza la scienza è cieca, la scienza senza la religione è zoppa».

Una dichiarazione di peccati, fatta a un laico (uno in nessun senso negli Ordini), al fine di ottenere il perdono. Come pratica, esisteva in certe aree e in certi momenti nella Chiesa. Dottrinalmente, tuttavia, nessun insegnante autorevole ha mai ritenuto che il laico abbia il potere di assolvere sacramentalmente. Eppure la pratica mostrava grande stima per il valore della confessione nel processo di pentimento, che si stava ancora sviluppando in quei tempi. In quanto fatto religioso, la confessione laicale appartiene storicamente a tre periodi diversi, e sia alla Chiesa greca che a quella latina, sebbene in modi diversi.

Dal 1 ° al 4 ° secolo. Non solo i diaconi, ma i cristiani senza rango gerarchico a volte agivano come confessori. I laici appartenevano a una classe chiamata “santi” (lo spirituale ); era una sorta di ordine carismatico, che godeva di grazie e doni speciali, compreso il potere di ascoltare le confessioni, persino di assolvere (tra i molti testimoni ci sono Tertulliano-Montanista, Clemente d’Alessandria e Origene). Questa classe, che funzionava a fianco della gerarchia, era coinvolta in una pratica abusiva, che potrebbe essersi sviluppata da un’interpretazione errata di Gv 20.22-23. Almeno era parallelo a una pratica in alcuni dei monasteri del tempo, dove i “santi” ricoprivano il ruolo di confessore. Tuttavia, durante questo periodo, per i peccati gravi, il penitente era obbligato a sottomettersi al vescovo in pubblica penitenza.

4 ° al 13 ° secolo. L’origine prossima della confessione laicale in questo periodo fu duplice: originariamente, era un’estensione della pratica monastica della confessione, prescritta da entrambi i SS. Basilico e Colombano; in seguito accompagnò lo sviluppo dottrinale della Penitenza: l’obbligo di confessione aumentò gradualmente, man mano che diminuiva il peso delle penitenze esterne.

La chiesa greca. Il vescovo, da sempre il principale direttore delle anime, il confessore per eccellenza, ha delegato sacerdoti ordinati per assistere ai lavori. I cristiani orientali aggiunsero il requisito della chiaroveggenza e della santità per costituire un vero direttore delle anime. I confessori senza ordini sacerdotali iniziarono quando i monaci estesero il loro lavoro di padri spirituali e confessori oltre il chiostro. Probabilmente prima, ma sicuramente nell’VIII e nel XIX secolo, i monaci si trasferirono tra la gente. Impressionato dall’abito caratteristico dei monaci, dal celibato (che il clero secolare aveva rifiutato a Nicea) e dall’ascetismo, il popolo si rivolse con entusiasmo ai monaci per ricevere istruzioni, confessione e persino remissione. I monaci furono giudicati i “santi” per eccellenza, e ben presto sostituirono completamente il clero secolare nel ministero della Penitenza. Questo abuso fu denunciato dall’imperatore Baldovino (XIII secolo) e dottrinalmente contrastato da Balsamon, ma i monaci confessori senza Ordini si moltiplicarono dal X al XII secolo ad Alessandria, Costantinopoli e Antiochia.

La Chiesa Latina. Qui la pratica risale all’XI secolo. In precedenza, i peccati mortali venivano confessati solo a vescovi e sacerdoti. Sebbene siano sempre rimasti gli unici ministri ufficiali del Sacramento, la confessione ai laici, in casi di necessità, era in uso generale nel XIII secolo. La prima sanzione veniva da Il vero e il falso pentimento 10.25: “Così grande è il potere della confessione, che se nessun sacerdote è disponibile, confessalo al tuo prossimo” (Patrologia Latina, ed. JP Migne [Parigi 1878–90] 40: 1122). Con il prestigio del nome di Agostino, l’opinione ottenne l’accettazione. Laddove in precedenza al penitente (Lanfranc) era permesso confessare i peccati minori (San Beda, Raoul Ardent) ai laici, ora si diceva che fosse obbligato a confessare peccati sia minori che gravi (Lom-bardo, Alain de Lille, San Tommaso nei primi scritti) a un laico; San Bonaventura riteneva che tale confessione fosse consentita, ma non obbligatoria.

A questo periodo appartengono diversi abusi nati dalla pratica. Ad esempio, Innocenzo III, in una lettera apostolica, condannò e ordinò l’estirpazione della pratica di alcune badesse cistercensi che predicavano pubblicamente e ascoltavano le confessioni dei loro sudditi.

XIII secolo e dopo. I teologi hanno chiesto: qual è il valore di una confessione per un laico? È un sacramento? Tutte le scuole hanno convenuto che non era formalmente sacramentale, perché era destinato a chi non poteva assolverlo. Con questa riserva si può affermare che la scuola agostiniana era incline a una sorta di valore sacramentale; per San Tommaso era in qualche modo sacramentale, ma non completamente; e per i francescani, niente affatto sacramentale. Scoto, insegnando che l’assoluzione sacerdotale è l’essenza della penitenza, si chiedeva se la confessione laica fosse persino lecita.

La sua scomparsa. La confessione laicale è scomparsa a causa di tre fattori: (1) la natura del Sacramento è stata meglio compresa e resa esplicita; (2) gli insegnanti eretici hanno tentato di utilizzare la pratica come argomento per rivendicare il potere di remissione per tutti gli uomini (H. Denzinger, manuale dei simboli, ed. A. Schönmetzer [Friburgo 1963] 1260); e (3) l’azione ufficiale della Chiesa al Quarto Concilio Lateranense ha reso la confessione annuale al proprio sacerdote una questione di precetto (Manuale dei simboli; 810). Il colpo finale è venuto dalla definizione del Concilio di Trento: non può esserci carattere sacramentale in nessuna confessione fatta a un laico (Manuale dei simboli; 1684, 1710). Entro la metà del XVI secolo, la pratica era già scomparsa in Spagna, sebbene continuasse a essere menzionata in altri luoghi (Inghilterra, ad esempio).

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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La psicoterapia Ha le stesse basi della “confessione religiosa”: entrambe curano l’anima e’ quanto sostiene Padre Luca Monti vescovo della chiesa ortodossa Italiana che vuole aiutare le centinaia di psicologi e psicoterapeuti Italiani sospesi degli Ordini degli Psicologi per aver scelto la cultura della vita e non quella della morte rifiutando un siero sperimentale che alla luce delle recenti scoperte non e’ un vaccino.Padre luca intende costituire nelle professioni del benessere la figura del confessore laico ( lay confessor) in quanto la confessione e’ sinergica alla psicoterapia.

In un articolo pubblicato su Repubblica nel 2019 sinaffermava continua padre luca:Da Pitagora a Jung. Dall’”esame di coscienza” ai percorsi psicanalitici. Così, nei secoli, la scienza e l’uomo hanno esaminato i tormenti più profondi e la scoperta del sé.

I primordi di ogni trattamento analitico della psiche vanno ricercati nella confessione religiosa». Sono parole di Carl Gustav Jung, psichiatra e psicoterapeuta fondatore della psicologia analitica, vissuto nella prima metà del Novecento. Del resto, se l’etimologia della parola «psicoterapia» significa appunto «cura dell’anima», questa pratica affonda le sue radici nella civiltà greca, secoli prima dell’affermarsi del Cristianesimo.

«Sull’esame di sé e la ”confessione« delle proprie mancanze – spiega Claudio Risé, scrittore e psicoterapeuta autore del recente ”La scoperta di sé« (San Paolo ed.) – nasce la filosofia e la psicologia occidentale, con Pitagora, filosofo e scienziato greco. Nel pitagorismo, tuttavia, la ”confessione«, veniva fatta a sé stessi per riconoscere le proprie debolezze e gradualmente trasformarle. Questo era l’equivalente dell’«esame di coscienza« che il cristiano deve fare prima della confessione, ed ogni volta che può, per rimanere in contatto con la propria coscienza e mantenerla integra«.

Le intuizioni di Pitagora costituiscono il primo barlume di consapevolezza nella storia umana per sviluppare pratiche volte a organizzare la vita quotidiana, la personalità e la responsabilità delle persone. Per quanto la mentalità attuale spesso e volentieri conduca ad andare ”dove ci porta il cuore« (cosa che spesso può coincidere con la soddisfazione immediata di ogni capriccio) già gli antichi Greci mettevano in guardia dal cedere a quelle che, con lessico freudiano, si possono definire pulsioni.

”Ma tu non essere impulsivo« raccomandava Eschilo nel coro de ”I Sette contro Tebe«: nella tragedia greca, il disastro avveniva sempre a causa del cedimento a un impulso. Questo poteva provenire indifferentemente da un dio o da un demone; ecco perché, già secondo gli antichi, esso doveva essere sempre meditato e filtrato dall’uomo in un modo che conducesse a un’azione perfettamente libera».

Se l’insegnamento pitagorico giunse fino ai Romani («La confessione dei nostri peccati è il primo passo verso l’innocenza», scriveva il drammaturgo Publilio Siro nel I sec. a.C.) anche nel resto del mondo si è costantemente rivelata l’esigenza tipicamente umana di sgravarsi la coscienza parlando con qualcuno.

Nel Messico antico, i peccatori andavano a confessarsi dai sacerdoti della dea Tlaçolteotl (la «dea delle sozzure», cioè dei peccati specialmente carnali), i quali imponevano la penitenza. Nell’antico Perù, il penitente si confessava dall’ichuri, lo sciamano. Per espirare le proprie colpe ci si doveva sottoporre a lavacri o a salassi.

«Il senso di colpa – spiega il neuropsichiatra e scrittore Giuseppe Magnarapa – esiste da sempre ed è legato al principio di autorità il quale serve, a propria volta, a garantire la pace sociale. In assenza di un qualunque sistema di regole, infatti, non esiste la società. Se si infrange la regola, la psiche esprime l’esigenza di espiare, di produrre a se stessi lo stesso lutto o danneggiamento che si è procurato all’esterno per ”pareggiare i conti« e ritrovare un nuovo adattamento. L’esigenza di confessare anche pubblicamente la propria colpa esprime esattamente questa necessità. Una forma ancestrale di questo bisogno si avverte, ad esempio nella cosiddetta ”televisione verità« con persone che spettacolarizzano senza vergogna la propria intimità anche confessando azioni non esattamente edificanti».

Pubbliche erano, non a caso, le confessioni dei peccatori nei primi secoli del Cristianesimo: la preghiera, le buone azioni, il digiuno e l’elemosina erano le azioni grazie alle quali si otteneva il perdono del peccato. Questo viene definito dal Catechismo «una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all’amore vero, verso Dio e verso il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni».

All’inizio, lo stato di penitente era molto gravoso e comportava forme di temporanea emarginazione. Nei secoli, la confessione dei peccati si è sempre più sistematizzata, ha iniziato a svolgersi privatamente, prima col vescovo e poi col semplice sacerdote, il quale è tenuto ancor oggi a osservare il più totale segreto «professionale» su quanto ascoltato durante il sacramento.

Carl Gustav Jung nel suo studio

Secondo Jung il processo psicoterapico si articola in quattro fasi. Durante quella che lui definisce Confessione, il paziente svuota i propri segreti, estrinsecando la propria condizione e sofferenza. Nella Chiarificazione, egli diventa consapevole dei propri sentimenti, intuisce i motivi che lo hanno condotto al dolore. Nell’Educazione, si propone di assumere nuovi comportamenti e atteggiamenti e infine, nella Trasformazione, il paziente assiste ai risultati dell’effettivo cambiamento nella sua vita.

Il parallelo col sacramento cattolico è abbastanza evidente, tanto che anche questo si articola in quattro fasi: la Contrizione, in cui il fedele si pente del male commesso, l’Esame di coscienza, in cui riflette su come e dove ha sbagliato; la Confessione, nella quale esprime al sacerdote tutti i peccati che in sincerità ricorda; infine la Soddisfazione, che implica un cambiamento nella propria vita e l’espiazione per il male compiuto con azioni risarcitorie, o con la preghiera.

Vi è infine da ricordare che alla base di tutto vi è il principio della Misericordia divina, che consente all’uomo di rialzarsi dopo i cedimenti e di proseguire sulla strada del perfezionamento spirituale. Negli ultimi anni, in ambito cattolico, si è parlato molto di Misericordia, meno spesso si è ricordato come questa non possa essere svincolata dal pentimento e dal riconoscimento dei propri peccati.

Fu il cardinale santo Carlo Borromeo, alla metà del ‘500, a regolare e a diffondere il confessionale nella sua classica struttura che, poi, si diffuse in tutto il mondo. Si tratta, come noto, di una cabina di legno dotata di inginocchiatoi; fitte grate metalliche celano il viso del penitente il quale non è tenuto a rivelare la propria identità al prete. Con il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha aperto anche alla confessione vis à vis.

Tuttavia, sarebbe interessante indagare quali benefici possa produrre l’atto rituale di liberare la propria coscienza in un soffio di parole, «spifferando» il male compiuto all’orecchio del sacerdote, ieratico e invisibile intermediario fra Dio e l’uomo, senza vederlo e senza farsi da lui vedere. Il diaframma costituito dalla grata era pensato in modo utile anche per il prete, per metterlo al riparo da contatti troppo ravvicinati e forieri di tentazioni. Probabilmente San Carlo aveva intuito, già cinque secoli fa, quello di cui da pochi decenni si occupa la Programmazione Neuro Linguistica, ovvero il linguaggio più o meno volontario che esprimono gli occhi e la posizione del corpo.

Per quanto, infatti, un pastore debba ascoltare con neutra benevolenza la confessione di un penitente, non è detto che egli riesca a controllare le sottili reazioni della sua postura e del suo sguardo che possono veicolare una quantità di messaggi involontari.

Non sappiamo se, nel mondo della psicoterapia, si sia mai sperimentata una soluzione tecnica come quella della grata del confessionale tradizionale, magari nell’ottica di assicurare maggiore libertà e comfort emotivo al paziente attraverso il completo

Il grande scrittore cattolico Gilbert Keith Chesterton riassumeva: «La psicoanalisi è una confessione senza assoluzione». In effetti, l’ approccio laico non prevede generalmente un sistema morale, né la credenza in un’entità trascendente. Mentre il sacerdote, con un segno di croce, riporta il fedele nella pace con se stesso, lo psicoterapeuta conduce il paziente a sciogliere dai solo i propri nodi attraverso un percorso che può essere lungo e difficile.

Ciò che emerge è che i contatti fra tradizione religiosa, (cattolica, ma non solo) e il mondo della psicoterapia-psichiatria offrono un fertile terreno di scambio. Ad esempio, oggi si parla spesso di narcisismo, di depressione; di disturbi alimentari come anoressia e bulimia; di sex addiction o ipersessualità. Non ci si trova dunque di fronte a versioni più o meno patologiche degli antichi vizi come superbia, accidia, gola e lussuria?

Margriet Sitskoorn, docente di Neuropsicologia clinica all’Università di Tilburg (Olanda), in un capitolo del suo libro «I sette peccati capitali del cervello» mostra, attraverso vari studi neuroscientifici, come il soddisfacimento dei bisogni più elementari, privi di riflessione etica e di controllo, conduca al rilascio di sostanze come dopamina e oppioidi, che producono piacere immediato anche se questo comporterà conseguenze negative per se stessi e per gli altri. E’ stata scoperta, dunque, la radice biochimica della seduzione del Male?

Tra religione e scienza «c’è piuttosto antipatia sentimentale che opposizione logica», sentenziava il colombiano Nicolás Gómez Dávila. Tuttavia, considerando che l’esperienza religiosa si è applicata allo studio dell’uomo per alcuni millenni, si potrebbe dare ragione ad Albert Einsteinj quando aprì al confronto fra i due mondi con una frase rimasta celebre: «La religione senza la scienza è cieca, la scienza senza la religione è zoppa».

Una dichiarazione di peccati, fatta a un laico (uno in nessun senso negli Ordini), al fine di ottenere il perdono. Come pratica, esisteva in certe aree e in certi momenti nella Chiesa. Dottrinalmente, tuttavia, nessun insegnante autorevole ha mai ritenuto che il laico abbia il potere di assolvere sacramentalmente. Eppure la pratica mostrava grande stima per il valore della confessione nel processo di pentimento, che si stava ancora sviluppando in quei tempi. In quanto fatto religioso, la confessione laicale appartiene storicamente a tre periodi diversi, e sia alla Chiesa greca che a quella latina, sebbene in modi diversi.

Dal 1 ° al 4 ° secolo. Non solo i diaconi, ma i cristiani senza rango gerarchico a volte agivano come confessori. I laici appartenevano a una classe chiamata “santi” (lo spirituale ); era una sorta di ordine carismatico, che godeva di grazie e doni speciali, compreso il potere di ascoltare le confessioni, persino di assolvere (tra i molti testimoni ci sono Tertulliano-Montanista, Clemente d’Alessandria e Origene). Questa classe, che funzionava a fianco della gerarchia, era coinvolta in una pratica abusiva, che potrebbe essersi sviluppata da un’interpretazione errata di Gv 20.22-23. Almeno era parallelo a una pratica in alcuni dei monasteri del tempo, dove i “santi” ricoprivano il ruolo di confessore. Tuttavia, durante questo periodo, per i peccati gravi, il penitente era obbligato a sottomettersi al vescovo in pubblica penitenza.

4 ° al 13 ° secolo. L’origine prossima della confessione laicale in questo periodo fu duplice: originariamente, era un’estensione della pratica monastica della confessione, prescritta da entrambi i SS. Basilico e Colombano; in seguito accompagnò lo sviluppo dottrinale della Penitenza: l’obbligo di confessione aumentò gradualmente, man mano che diminuiva il peso delle penitenze esterne.

La chiesa greca. Il vescovo, da sempre il principale direttore delle anime, il confessore per eccellenza, ha delegato sacerdoti ordinati per assistere ai lavori. I cristiani orientali aggiunsero il requisito della chiaroveggenza e della santità per costituire un vero direttore delle anime. I confessori senza ordini sacerdotali iniziarono quando i monaci estesero il loro lavoro di padri spirituali e confessori oltre il chiostro. Probabilmente prima, ma sicuramente nell’VIII e nel XIX secolo, i monaci si trasferirono tra la gente. Impressionato dall’abito caratteristico dei monaci, dal celibato (che il clero secolare aveva rifiutato a Nicea) e dall’ascetismo, il popolo si rivolse con entusiasmo ai monaci per ricevere istruzioni, confessione e persino remissione. I monaci furono giudicati i “santi” per eccellenza, e ben presto sostituirono completamente il clero secolare nel ministero della Penitenza. Questo abuso fu denunciato dall’imperatore Baldovino (XIII secolo) e dottrinalmente contrastato da Balsamon, ma i monaci confessori senza Ordini si moltiplicarono dal X al XII secolo ad Alessandria, Costantinopoli e Antiochia.

La Chiesa Latina. Qui la pratica risale all’XI secolo. In precedenza, i peccati mortali venivano confessati solo a vescovi e sacerdoti. Sebbene siano sempre rimasti gli unici ministri ufficiali del Sacramento, la confessione ai laici, in casi di necessità, era in uso generale nel XIII secolo. La prima sanzione veniva da Il vero e il falso pentimento 10.25: “Così grande è il potere della confessione, che se nessun sacerdote è disponibile, confessalo al tuo prossimo” (Patrologia Latina, ed. JP Migne [Parigi 1878–90] 40: 1122). Con il prestigio del nome di Agostino, l’opinione ottenne l’accettazione. Laddove in precedenza al penitente (Lanfranc) era permesso confessare i peccati minori (San Beda, Raoul Ardent) ai laici, ora si diceva che fosse obbligato a confessare peccati sia minori che gravi (Lom-bardo, Alain de Lille, San Tommaso nei primi scritti) a un laico; San Bonaventura riteneva che tale confessione fosse consentita, ma non obbligatoria.

A questo periodo appartengono diversi abusi nati dalla pratica. Ad esempio, Innocenzo III, in una lettera apostolica, condannò e ordinò l’estirpazione della pratica di alcune badesse cistercensi che predicavano pubblicamente e ascoltavano le confessioni dei loro sudditi.

XIII secolo e dopo. I teologi hanno chiesto: qual è il valore di una confessione per un laico? È un sacramento? Tutte le scuole hanno convenuto che non era formalmente sacramentale, perché era destinato a chi non poteva assolverlo. Con questa riserva si può affermare che la scuola agostiniana era incline a una sorta di valore sacramentale; per San Tommaso era in qualche modo sacramentale, ma non completamente; e per i francescani, niente affatto sacramentale. Scoto, insegnando che l’assoluzione sacerdotale è l’essenza della penitenza, si chiedeva se la confessione laica fosse persino lecita.

La sua scomparsa. La confessione laicale è scomparsa a causa di tre fattori: (1) la natura del Sacramento è stata meglio compresa e resa esplicita; (2) gli insegnanti eretici hanno tentato di utilizzare la pratica come argomento per rivendicare il potere di remissione per tutti gli uomini (H. Denzinger, manuale dei simboli, ed. A. Schönmetzer [Friburgo 1963] 1260); e (3) l’azione ufficiale della Chiesa al Quarto Concilio Lateranense ha reso la confessione annuale al proprio sacerdote una questione di precetto (Manuale dei simboli; 810). Il colpo finale è venuto dalla definizione del Concilio di Trento: non può esserci carattere sacramentale in nessuna confessione fatta a un laico (Manuale dei simboli; 1684, 1710). Entro la metà del XVI secolo, la pratica era già scomparsa in Spagna, sebbene continuasse a essere menzionata in altri luoghi (Inghilterra, ad esempio).

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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