Il tema della partecipazione degli avvocati alle valutazioni di professionalità dei magistrati tiene inquiete le toghe. Non che l’avvocatura non sia già presente nei Consigli giudiziari e, attraverso le designazioni parlamentari, anche all’interno dello stesso Csm. Ma finora – a livello locale – gli avvocati erano stati tenuti fuori da un recinto così delicato come quello eretto dalla corporazione quando si tratta di dare una pagella di merito ai giudici e ai pubblici ministeri. Sia il quesito referendario che la riforma Cartabia in discussione in Parlamento intendono allargare le maglie di questa partecipazione e la cosa agita la magistratura in modo praticamente trasversale tra tutte le correnti dell’Anm, anche perché si accompagna all’idea di creare vere e proprie pagelle a punti con cui pesare la professionalità delle singole toghe.

Il tema è delicato, inutile nasconderlo. I giudici, per definizione e salvo rari casi, devono necessariamente scontentare una delle parti in causa: la difesa o l’accusa, l’attore o il convenuto. Uno dei due avrà (quasi sempre) da recriminare sulla soluzione adottata e il numero degli appelli e dei ricorsi per Cassazione costituiscono prova eloquente della scarsa propensione delle parti ad accettare il verdetto civile o penale. Si teme che il partito degli scontenti, delle parti scontente possa “vendicarsi” sul singolo giudice o sul singolo pubblico ministero assegnandogli un rating basso o, comunque, inferiore ai suoi meriti. Insomma, le periodiche valutazioni di professionalità (una ogni quattro anni) potrebbero prestarsi – è la tesi dei contrari – a consumare piccoli sgarbi o pesanti incursioni e questo non è un bene. In un paese di camarille, fazioni e sistemi l’obiezione sembra ragionevole. Sembra. Ma i conti non tornano e per più di una ragione. Da oltre due decenni, infatti, il processo civile e quello penale hanno considerato la collegialità un lusso insopportabile e hanno trasferito la decisione nella stragrande maggioranza delle cause penali e civili di primo grado in mano a giudici monocratici. La perdita, irragionevole e tutt’altro che efficientista, della collegialità ha comportato che moltissimi giudici esercitino le proprie funzioni in una dimensione solitaria, sostanzialmente impermeabile a qualunque controllo. In nome del principio del libero convincimento nessuna decisione può essere messa in discussione dai capi degli uffici salvo abnormità e, nei fatti, la sentenza resta relegata in uno spazio anomico per la professionalità il cui unico rimedio è l’appello.

È vero, alcune sentenze vengono portate all’attenzione del Csm, ma questo non esaurisce la necessità di un controllo meno episodico sull’effettiva professionalità di ciascun magistrato. D’altronde se tutti scrivono sentenze impeccabili o esercitano l’azione penale in modo appropriato occorrerebbe pur spiegare la quantità di assoluzioni o di riforme nei gradi successivi. In questa enclave l’unico controllo effettivo compete agli avvocati che, tante volte, conoscono pregi e difetti del singolo giudice meglio del suo capo d’ufficio chiamato a valutarne la professionalità. Il “tribunale” del foro è, a spanne, abbastanza preciso ed è una fonte preziosa per apprezzare le vere capacità del monocrate decidente. Qualcuno dirà che così si finisce nell’oclocrazia, nel potere della piazza che manda a morte Gesù e libera Barabba. Antipatie, simpatie, disappunti, maldicenze insomma un mondo malmostoso e ribollente fuori controllo troverebbe spazio – per legge – nelle valutazioni dei giudici con il rischio di pesanti storture.
Naturalmente questa conclusione porta per implicito, anzi per nascosto, un corollario inconfessabile: ossia che gli avvocati si prestino nei Consigli giudiziari a camarille e pettegolezzi, invece di esercitare con rigore questa delicata funzione.