Teleradio-News ♥ mai spam o pubblicità molesta

'Se un uomo non ha il coraggio di difendere le proprie idee, o non valgono nulla le idee o non vale nulla l'uomo' (Ezra W.Pound)

Teleradio-News ♥ mai spam o pubblicità molesta
Attualità

Un “pirata” senza ombre

Teleradio News ♥ Sempre un passo avanti, anche per te!

Era buono? Era cattivo? Forse, falco e colomba assieme, il primo dei giusti, collezionista di belle donne e “superman” dello Stato ebraico. Oppure, era solo un sionista, quel gelido arcangelo che difendeva il popolo della legge, con la benda nera da pirata sull’occhio? La Francia, per la quale lo perse quell’occhio nel 1941, tutti gli ebrei nel mondo e gli israeliani stessi furono, molto spesso, più severi con lui degli antisemiti.
Rivelatore e demistificatore allo stesso tempo, “antimodello” di ogni preconcetto e di ogni stereotipo, simbolo di un’avventura priva di senso, Moshe Dayan si presentò alla storia come un “mobile” (opera d’arte mobile) di Alexander Calder, come dei “vetrini colorati” di Bruno Munari o come un oggetto d’Arte Programmata del Gruppo T milanese, quella esposta, il 1960, al primo “Miriorama” (infinite visioni) di Milano. Un soggetto, cioè, non ben definito, capace di assumere tutti gli aspetti che gli si attribuivano. Definizioni forse fuorvianti, queste, magari poco comprensibili. Di certo, non solo il suo popolo, ma il mondo intero, cercava in lui il meglio, mentre era costruito proprio sul peggio. Come diceva il Nobel Henri-Louis Bergson, “le definizioni perfette sono solo quelle della realtà compiute e nessuna morale può imporre ad un essere vivente un ideale che lo uccide”. Ed il personaggio più emblematico dello Stato di Israele, fu l’eccezione che confermava la regola. Per lui, israeliani ed arabi non erano, come per noi oggi, un argomento di cronaca, di dissertazione su di un dramma antico, bensì una modernissima tragedia, da vivere con tutto il proprio peso, non solo politico. Per lui, la cortesia ed il caso non concedevano nulla, convinto che la minima distrazione si sarebbe conclusa, come in tutte le belle tragedia, con la morte. Non esisteva un tentativo, un’azione, un consiglio, un’esitazione, che non rivelasse o non confessasse l’unica ossessione di quell’uomo senza complessi: la sicurezza del suo paese. Perché, sotto le smorfie e le maschere, l’orrore era costantemente presente, e minaccioso.
Era nato il 20 maggio 1915 a Degania, la prima colonia collettivistica della Palestina, fondata sei anni prima dal padre, Shmuel Kritaigorski (cognome mutato in Dayan), e da altri pionieri, immigrati dall’Ucraina. Moshe aveva sei anni quando i genitori si trasferirono nella valle di Jezreel, in Galilea, per fondarvi Nahal, una cooperativa di piccoli proprietari, detta “moshav”. Venne iscritto ad una scuola femminile di agricoltura, che frequentò con fastidio sì, ma con diligenza, anche perché si sentiva fortemente portato per la letteratura e per i classici. Quando, nel 1929 iniziarono più violente le incursioni arabe nei kibbutz e nelle colonie ebree e quando vennero costituite unità di difesa, le “haganah”, che ben presto si trasformarono in milizie regolari, Dayan, che aveva meno di quindici anni, vi entrò di prepotenza. Da lì, iniziò la sua carriera militare e non solo.
Il profilo, il berretto floscio, l’elmetto, i grossi occhiali da deserto attorno al collo, il sorriso contratto e la testa rasata, evocavano vagamente la star americana Yul Brynner, con qualche riflesso, nonostante un volto più tondo, dell’attore, anch’esso statunitense, Franchot Tone. Da lontano, l’insieme sconcertava, con quelle mani grandi come mestoli, il bacino largo, pesante, quasi femminile, sotto il busto troppo giovane, dando l’impressione di un errore di distribuzione. Dal volto traspariva distacco e sfida, simile al disprezzo. Il sorriso malizioso, lucente, l’espressione da “enfant terrible”, attiravano una simpatia, che lo sguardo freddo non ricambiava e che l’amarezza affiorante dall’espressione imbronciata rifiutava e respingeva. Quella benda nera sull’occhio sinistro era così ostentata che, istintivamente, tutti cercavano di comprendere cosa nascondesse sotto, se una ferita o lo stratagemma per poter vedere più agevolmente nell’oscurità.
Ma il suo dramma era davvero quell’occhio perduto o un incidente ancora più vecchio, oppure altri conflitti interiori? Quale freccia lo trafisse, per poi trasformarsi in armatura? Non vi furono, mai, sue testimonianze dirette. Solo la figlia Yael, raccontò, una volta, di una sconcertante intervista fatta al padre da Jacques Boetsch, caporedattore del quotidiano francese “Express”. “Lei ha amici?”, domandò Dayan allo sconcertato giornalista, “perché c’era un uomo che si considerava mio amico, ma non lo vedo più, non ho più nessun motivo pratico per vederlo”. Boetsch gli chiese, di contra: “Lei, generale, ha paura della morte?”. “No, non ho paura della morte. Molte volte mi sono detto, questa volta ci siamo e poi, beh, decisamente non è per questa volta!”, rispose.
Infatti, Moshe Dayan partecipava personalmente ai raids, anche da Ministro della Difesa. Era il comandante militare che aveva attraversato su di una jeep scoperta il campo di battaglia, tra gli spari. Ma era stato anche l’appassionato di archeologia che, in pieno scontro sul Sinai, fece recintare una zona e diede l’ordine di cominciare gli scavi. E, sfidando la legge, si tenne in casa dei pezzi archeologici, appartenenti a musei nazionali egiziani che, sosteneva, “avrebbero fatto una brutta fine”. Era uno che si addormentava in un campo, durante gli scontri, e che silurava, con un solo sguardo, i propri dipendenti, quelli che, era solito specificare, lavoravano non con lui, ma per lui. I suoi figli, che costrinse ad esporsi in combattimento, lo adoravano. Amava sua moglie Ruth Schwartz, sposata nel 1935, ed aveva la fama, sicuramente eccessiva, di esercitare lo “ius primae noctis” nei bivacchi, senza nemmeno chiedere alle ragazze il loro nome. Non ebbe mai una vera vita familiare, né amici, né alleati in politica. Guidava l’auto sempre a tutta velocità, passando soventemente con il semaforo rosso.
Squilibri causati dalla celebrità? Sintomi di infantilismo? Di quelle leggendarie stranezze, Yael ne fece un romanzo, dal titolo “Enviez celui qui a peur” (Invidiate chi ha paura). Nel libro, il personaggio principale vuole continuamente dimostrare a se stesso di essere un eroe e diventa una specie di malato di audacia. “Dayan non è un uomo che ha dominato le sue paure. È un uomo che ha ucciso le sue paure”, Uri Avneri, giornalista e pacifista israeliano, nelle pagine del saggio “Israel sans Sionisme”. Quest’uomo, che appassionò i suoi avversari, che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro e che ha incarnato la resurrezione del popolo eletto, è stato, per molti, uno “zombi”, un essere scavato, senza nevrosi, senza ombre, che vantava di sé una sola passione, quella dell’indifferenza. Diceva, ancora di lui, sua figlia: “Fratello israeliano de L’Étranger (NDR: Lo Straniero) di Camus e dell’uomo senza qualità (NDR: Der Mann ohne Eigenschaften) di Musil, un uomo che ha coscientemente e deliberatamente scelto di essere solo e che tiene da sé le chiavi della sua prigione”. Asociale, antintellettuale, non leggeva, pur avendo scritto addirittura dei poemi, e non si intralciava con riferimenti. Era un pragmatico, che risolveva i problemi istintivamente e che, se sbagliava, rimediava agli errori con capovolgimenti folgoranti, colpi di scena, raddoppiando gli eccessi. La mancanza di punti di riferimento culturali e di valvole emozionali, serviva solo a spingerlo avanti, a ruota libera. Accadeva che le sue dichiarazioni di maggior effetto creassero sensazioni di irrealtà, l’impressione sconcertante che l’ingiustizia, l’antisemitismo, i fanatismi, che indignavano il popolo israeliano, erano per lui strumenti e valori d’uso. Calcolo macchiavellico? Chissà. Dayan era solito paragonarsi, biblicamente, ai figli di Zurinah, che lo stesso re David rimproverava per la loro durezza. Secondo una certa critica, egli dava l’impressione di essere un uomo senza viscere, piuttosto che senza cuore. La spada di Brenno diventava flagello, la bilancia era al punto morto e tutto rimaneva uguale. La sua indifferenza corrispondeva, fondamentalmente, al neutralismo iniziale nasseriano. Avevano, lui e Gamal Abd el-Nasser, nemico rispettato e battuto nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, un grande carattere e ruoli di primissimo piano. In un suo discorso, due anni dopo, il Presidente egiziano, esaltò il valore delle Forze Armate Sioniste e del loro comandante. Furono, entrambi, teatranti che recitavano con un tono troppo alto, come se si battessero su due fronti, alla ricerca della stessa legge perduta. La traversata dei propri deserti interiori, intrapresa da Dayan, apparteneva a ciò che si potrebbe definire, senza paradossi, psico-patologia del successo. Risvolti degli stessi smarrimenti, al di là delle vittorie e delle sconfitte. “Israele è l’unico paese al mondo, dove non si può perdere una guerra”, sosteneva il Generale Ygal Allon, suo braccio destro, nella citata guerra. “Moshe ha la stessa maledizione di Mida, trasforma tutto in oro, glorie, trionfi, genio, sudori e lacrime”.
Secondo alcune teorie politiche locali, Israele era un’isola sprofondata in un oceano arabo o, al contrario, una cittadella fortificata, che conteneva gli arabi al suo interno, e Dayan ne fu l’archetipo perfetto, “un po’ come un personaggio di teatro gonfio ed esagerato”, commentava Uri Avneri. Di certo, lui, uomo di guerra, politico, amministratore ed intelligente riorganizzatore dell’esercito, fu prima di tutto un “sabra”. Sabra, termine usato per definire, senza distinzione di genere, una persona ebrea nata nella “terra promessa”, derivante dal vocabolo ebraico “tzabar” (fico d’India, le cui spine feriscono chi vuole gustarne il frutto), era in passato il nucleo originario, cioè la marza, la gemma isolata che, col suo innesto, generò e stabilizzò definitivamente una razza nuova.
Moshe Dayan, contadino o soldato, fu il facsimile dell’uomo del futuro, il primitivo del XX Secolo, uno che sapeva pilotare un aereo a Mach 2,04 (due volte la velocità del suono), programmare un calcolatore elettronico e concimare il terreno. Eppure dissero che fu scandaloso, per le occasioni perdute che rappresentò. Gli arabi, segretamente, si riconoscevano in lui, nel “commando di mezzanotte”, straniero a se stesso ed ai suoi, nascosto dietro la maschera dell’eterna giovinezza, molto più che in tutti i loro “pirati”. Fu il simbolo di una storia senza fine, come senza fine sarà sempre la “questione palestinese”. Chissà, forse un giorno si dirà che, quella del Generale israeliano, pirata con una benda sull’occhio, fu una delle più grandi avventure di quest’era moderna.
Rimase, fino al 16 ottobre 1981, giorno della sua scomparsa, un guerriero ed un politico. E non si sentì, mai, né un “soldataccio”, né un uomo della provvidenza.

(Fonte: DeaNews – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

Teleradio News ♥ Sempre un passo avanti, anche per te!