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Il percorso di sviluppo dei vaccini a mRNA, una storia che parte da lontano

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Pochi giorni fa, l’assegnazione del Premio Nobel per la medicina 2023 agli scienziati Katalin Karikó e Drew Weissman. Motivazione del prestigioso riconoscimento: avere gettato le basi per i vaccini a mRNA (RNA messaggero), che hanno reso possibili i vaccini anti Covid-19.
Tutti ricordiamo come, durante i giorni più duri della pandemia, la notizia della disponibilità di questi nuovi vaccini tanto attesi ha generato speranza nella maggior parte delle persone e scetticismo (a volte pregiudiziale) in alcuni, soprattutto per la rapidità inusuale con cui sono stati sviluppati e immessi nel mercato dalle case farmaceutiche (previa approvazione degli enti regolatori preposti).
Ma la storia dei vaccini a mRNA non inizia certo nei giorni convulsi della pandemia. Piuttosto, essi sono il risultato di decenni di studi teorici (peraltro, a lungo snobbati), che hanno rivelato la loro reale utilità quando più ne abbiamo avuto bisogno.
Fondamentalmente – e in estrema sintesi – a rendere possibili i vaccini anti-covid a mRNA sono stati i progressi raggiunti in tre diversi filoni di ricerca:

1. la scoperta dell’mRNA e di come usare quella stringa di codice genetico per insegnare alle cellule a produrre pezzetti di virus e rafforzare il sistema immunitario (ricerca cominciata 60 anni fa e proseguita nei 30 anni successivi);

2. aver capito come proteggere quelle fragili molecole dalla degradazione una volta introdotte nel corpo umano;

3. la ricerca, negli anni ’90 negli Usa, sulla proteina spike del virus dell’Hiv, nel tentativo disperato di trovare un vaccino contro l’epidemia di Aids allora in piena espansione.

Ebbene, nel 2020, l’alleanza virtuosa tra queste tre “tessere” di sapere ha permesso di ottenere vaccini a mRNA efficaci e sicuri, diretti contro la corretta proteina-bersaglio.

Ma torniamo a richiamare brevemente il percorso di ciascuna delle tre componenti, partendo… dall’ultima!
Era il 1996, quando Bill Clinton – allora presidente degli Usa -, convocando lo scienziato Anthony Fauci per essere informato sull’epidemia di Aids (dovuta al virus dell’Hiv) che, in poco più di 10 anni, aveva già ucciso 350.000 persone soltanto negli Usa e sei milioni nel mondo, gli pone la domanda più ovvia per un non addetto ai lavori: come mai non esiste ancora un vaccino contro l’Hiv?
Fauci rilancia, chiedendo la creazione di un centro multidisciplinare dedicato. Nel 2000, nasce così il Vaccine research center, presso il National institutes of health’s campus di Bethesda, nel Maryland. Il budget iniziale è di 43,9 milioni di dollari (attuali), con uno staff di 56 scienziati (tra cui tra cui Barney Graham, che poi avrà un ruolo fondamentale nel vaccino anti-covid). Da allora, ben oltre 85 candidati vaccini sono stati testati in quel centro e in altri sparsi su tutto il territorio Usa, ma nessuno ha funzionato, soprattutto perché il virus dell’Hiv ha una capacità incredibile di mutare aspetto (varia in un giorno con la stessa rapidità con cui il virus dell’influenza cambia in un anno) e, così, sfuggire alle difese del sistema immunitario.
Tale evidenza scientifica, dunque, spinge i ricercatori del centro vaccinale ad adottare un approccio più teorico: mappare l’intera superficie del virus dell’Hiv, in particolare la struttura atomica delle proteine che usa per invadere le cellule, le cosiddette “spike”. Nell’Hiv e non solo, queste proteine uncinate cambiano costantemente forma: ne hanno una prima di invadere le cellule e una diversa una volta agganciate. Capire quale parte della spike sia più vulnerabile agli anticorpi, e soprattutto quale forma della spike riprodurre con un vaccino, è la sfida che gli studiosi devono vincere. Tra questi c’è anche il 27enne Jason McLellan, che con la tecnica della cristallografia ai raggi X studia la struttura 3D delle proteine. Qualche mese dopo, sarà fondamentale il suo incontro con Barney Graham, che invece sta concentrando le sue ricerche sul virus respiratorio sinciziale (Vrs), che causa affezioni dei polmoni e delle vie aeree. Analizzando la struttura della proteina che il Vrs usa per fondersi alle cellule, i due scienziati aprono la strada a nuovi possibili vaccini ora in sperimentazione. Anche se non ne sono ancora consapevoli, la loro collaborazione sarà alla base anche del vaccino contro il CoViD-19.
Per ripercorre, invece, le tappe della scoperta dell’RNA messaggero (mRNA), occorre tornare al 15 aprile 1960, quando un gruppo di scienziati del King’s College a Cambridge (Regno Unito) – tra cui i futuri Premi Nobel Francis Crick e Sydney Brenner – individua finalmente la molecola che fa da tramite tra il Dna (il codice delle istruzioni per produrre proteine nel cuore della cellula) e le fabbriche di proteine vere e proprie (le strutture cellulari dette “ribosomi”). La molecola di mRNA, porta copie di segmenti trascritti di Dna ai ribosomi, dove queste istruzioni vengono tradotte in proteine.
Ma come sfruttare concretamente una simile scoperta Isolare l’mRNA dalle cellule è infatti impossibile senza che esso si degradi completamente. Nel 1984 il biologo di Harvard Doug Melton scopre come riprodurre l’mRNA in laboratorio, ma il problema è sempre la sua delicatezza. Questa difficoltà, fa calare progressivamente l’attenzione nei confronti di questo tema, finché… due scienziati “controcorrente” non si incrociano sulle tortuose strade della ricerca!
Dato che le cellule del corpo umano utilizzano continuamente mRNA per trascrivere le istruzioni genetiche e produrre proteine essenziali, perché non ottenere versioni sintetiche di mRNA che aiutino a contrastare malattie? Una possibilità a cui, negli anni ’90, comincia a lavorare la biochimica ungherese Katlin Karikò, scontrandosi però con la mancanza di finanziamenti e con un importante ostacolo scientifico: produrre un mRNA sintetico che non venga immediatamente rigettato come “estraneo” dall’organismo.
Ebbene, dopo anni di studi e tentativi, la svolta arriva in seguito alla collaborazione con Drew Weissmann, dell’Università della Pennsylvania, da tempo impegnato a cercare un vaccino contro l’Hiv. Nel 2005, i due scoprono che modificando una “lettera” dell’mRNA (uno dei mattoncini che compongono la sua molecola, i nucleosidi) si inibisce la reazione immunitaria problematica. L’mRNA riesce così a sfuggire ai meccanismi di controllo e ad arrivare alle cellule.
Va ricordato che, fino al momento, i vaccini “tradizionali” avevano sempre sfruttato virus modificati o frammenti di essi per allenare il sistema immunitario ad attaccare i patogeni invasori. Karikò e Weissmann si rendono conto invece che un vaccino a mRNA potrebbe istruire l’organismo a produrre le proprie proteine virali, un approccio che imita l’infezione in modo più preciso e, dunque, dovrebbe generare una migliore riposta immunitaria.
Ma l’ipotesi che una molecola fragile come l’mRNA possa riuscirci sembra al momento poco probabile. Infatti, anche se ora l’mRNA è protetto dal rigetto cellulare, occorre comunque riuscire a consegnarlo integro alle cellule stesse. Alla fine degli anni ’90, l’ostacolo viene superato da un team di biochimici della Inex, un’azienda canadese fondata da un certo Pieter Cullis, che sintetizzano delle membrane lipidiche delle dimensioni di un centesimo di una cellula. A quel punto, è lo stesso Cullis chiedere di collaborare con i produttori di vaccini a mRNA.
Riassumendo, i ricercatori hanno ora un mRNA in grado di istruire il sistema immunitario e un involucro di grasso che lo tiene al sicuro. Manca ancora il codice preciso da fornire alle cellule perché inizino a produrre la loro versione della spike, e scatenare la risposta immunitaria. Ma c’è un altro problema da risolvere: in molti virus, come i coronavirus e l’Hiv, la proteina spike tende continuamente a cambiare aspetto. Quindi, per poterla usare per un vaccino occorre “bloccarla” nella conformazione che assume quando attacca le cellule. Dopo varie peripezie (che omettiamo per brevità), sarà Nianshuang Wang, un ricercatore cinese che lavora negli Usa insieme a Graham, a trovare il rimedio. Dopo alcuni tentativi, infatti, i due scienziati individuano un punto particolare della spike in cui aggiungere due mutazioni dei blocchi di base (gli amminoacidi) per “irrigidirla” e bloccarla nella sua configurazione iniziale.

A questo punto, la cronaca di intreccia con la scienza!
E’ l’alba del 31 dicembre 2019 quando il professor Graham legge di una misteriosa polmonite iniziata a circolare a Wuhan, in Cina. Mette in allerta il suo laboratorio e resta in attesa. Una settimana più tardi, si diffonde la notizia che sia un coronavirus la più probabile causa della malattia e, dopo pochi giorni, alcuni ricercatori cinesi pubblicano la sequenza genetica del virus. A questo punto, Graham e colleghi individuano in breve la sezione che riguarda le spike e ottengono la stringa di codice della proteina-bersaglio, in cui incorporare la tecnica per “bloccarla” elaborata da Wang.
Il 15 febbraio 2020, Graham e il suo collega McLellan pubblicano un articolo con la struttura della spike su un sito liberamente accessibile di lavori scientifici (quel paper sarà in seguito pubblicato su “Science”).

E’ fatta: sapendo con precisione dove inserire le mutazioni utili a stabilizzare la proteina, Pfizer-BioNTech e Moderna riescono a creare vaccini anti-covid “sartoriali” con il 95% di efficacia; per renderli accettabili alle cellule, utilizzano l’alterazione chimica scoperta 15 anni prima da Weissman e Karikó, e per proteggerli l’involucro lipidico messo a punto dai ricercatori canadesi.
In pochi mesi, a novembre 2020, il mondo ha il suo primo vaccino estremamente efficace contro il covid-19. Preparato “troppo in fretta”? Si direbbe proprio di no!

(Fonte: AgenSIR – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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