L’ago della bilancia è sempre più spostato dalla parte delle indagini, come se quello fosse il momento in cui la giustizia dà la sua risposta certa, infallibile e imparziale. E così accade che le inchieste vengano spettacolarizzate o finiscano per incidere sul corso della vita politica di una città, di una regione, del Paese, o ancora che le nomine dei capi delle Procure diventino il centro d’interesse di logiche di potere come emerso dal cosiddetto caso Palamara. Perché?

«Purtroppo è anche il frutto di una particolare velocità delle informazioni e della identificazione dell’indagine come luogo in cui già si stabilisce la verità dei fatti. È un fenomeno ormai antico ma devastante», spiega Raffaello Magi consigliere della prima sezione penale della Corte di Cassazione e già giudice presso il Tribunale di Santa Maria Maria Vetere dove ha firmato, tra le tante, la famosa sentenza del processo Spartacus, verdetto che definì il primo maxi processo al clan dei Casalesi.

Quanto influisce il protagonismo del singolo magistrato e quanto il sistema per come è strutturato?
«C’è sempre una componente umana e, se si smarrisce il senso del limite e della funzione, il protagonismo, quello del singolo ma anche quello mediatico che ci ha afflitto nell’ultimo ventennio, porta ad amplificare il ruolo della Procura e dell’indagine come luogo in cui si dà già una soluzione, cosa che ovviamente non è: quella che si forma in sede di indagini è un’ipotesi che ha un suo fondamento, altrimenti neanche sarebbe formulata, ma non la possiamo ritenere ancora una verità. A ciò si aggiunga un dato essenzialmente culturale, per cui occorrerebbe affidarsi a una migliore gestione del rapporto tra indagine e mezzi di informazione e a una sorta di opportuno senso del limite da parte di chi gestisce questa fase».

Il tema si collega alla crisi di immagine e di fiducia che la magistratura sta attraversando dopo il caso Palamara.

«L’idea che sta passando, e su cui bisognerebbe riflettere, è che certi incarichi di vertice in alcuni uffici, soprattutto in alcune Procure, siano il frutto di mediazioni dove al di là della competenza e della professionalità prevalgono altre logiche. Il che sta creando un effetto preoccupante di attacco alla credibilità generale della istituzione e degli uomini che in qualche modo la impersonano. È un aspetto serio sul quale bisogna intervenire innanzitutto al nostro interno per fare in modo che il desiderio di carrierismo e la volontà di emersione, che non appartengono a tutti – sono in magistratura da trent’anni e posso dire che moltissimi colleghi lavorano in condizioni di difficoltà e di anonimato avendo come unica stella polare l’affermazione dei diritti -, vengano contrastati da noi stessi magistrati, recuperando ciò che c’è già e cioè il piacere di risolvere i piccoli casi che tanto contano nella vita delle persone. Questa è la grande sfida da raccogliere. Parallelamente è necessaria una riorganizzazione degli uffici con la possibilità di figure intermedie che aiutino il giudice a svolgere una serie di attività e rendano più produttivi gli uffici in termini quantitativi. Siamo un Paese estremamente complesso e litigioso e questa tendenza sarà amplificata dalla crisi. Cerchiamo di fare in modo che non sia importante chi fa il procuratore capo di Roma o Milano e rimbocchiamoci tutti le maniche affinché le opportunità economiche che arriveranno servano a ridurre i tempi di trattazione dei processi e organizzare meglio gli uffici».

Sullo sfondo resta però il grande tema delle nomine, delle logiche di potere delle correnti in seno al Csm. Come evitare un nuovo caso Palamara per il futuro?
«Il nodo centrale resta quello delle Procure, infatti non mi risulta che ci siano state grandi questioni sulle nomine degli uffici giudiziari di tipo giudicante che invece hanno un’importanza strategica enorme perché sono quelli che offrono il servizio diffuso ai cittadini. Sulle nomine dei procuratori influisce un’idea sbagliata anche della componente laica della politica di poter in questo modo influenzare la linea futura di chi farà il procuratore capo indirizzando secondo certe strategie di priorità le attività di indagine. Serve innanzitutto un’operazione trasparenza con la pubblicazione, in maniera accessibile a tutti, delle pratiche di maggior interesse come quelle che riguardano le nomine degli uffici più grandi di Italia. Inoltre, strategie di decentramento delle funzioni, innalzamento dei requisiti di partecipazione al Csm da parte dei laici, autoriforma della magistratura associata che deve passare, e lo sta già facendo, per delle grosse forme di autocritica. Siamo in una fase di transizione estremamente delicata per la tenuta degli equilibri sociali, economici e della democrazia, quindi bisogna utilizzare le risorse in arrivo per mettere in campo delle riforme strutturali che riguardano i tempi della giustizia. Poniamoci soprattutto il problema di un recupero di credibilità che passi attraverso una risposta più rapida della giustizia, soprattutto di quella civile».

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