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Settimana sociale. Mons. Trevisi (vescovo Trieste): “Ritrovare le ragioni buone per rimetterci in gioco nel costruire la città e la Chiesa”

“Dobbiamo vivere i giorni della Settimana sociale come un respiro per una missione ancora più grande che ci deve vedere tutti un po’ più protagonisti”. Questo l’invito di mons. Enrico Treviso, vescovo di Trieste, nell’imminenza della 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia che si terrà nel capoluogo giuliano dal 3 al 7 luglio prossimi.

Eccellenza, mancano pochi giorni all’inizio della 50ª Settimana sociale. Con che spirito si vive l’attesa Come si è preparata la comunità ecclesiale di Trieste ad ospitare e partecipare all’evento?
Stiamo vivendo questi giorni con grande gioia per un grande dono immeritato. La visita del Papa, se non ci fosse stata la Settimana sociale dei cattolici, non l’avremmo avuta. E siamo molto contenti per il prossimo incontro con il Santo Padre. In modo spontaneo in questi giorni mi sono stati consegnati lettere, disegni, messaggi da parte degli anziani delle case di riposo piuttosto che dai bambini delle scuole e degli oratori. Un fatto molto bello che ci è di monito a prepararci bene per incontrarlo. Per quanto riguarda la 50ª Settimana sociale, ancora prima che sapessimo della venuta del Papa avevamo già registrato molta attenzione e curiosità. Tanta gente non sapeva cosa fosse, le stesse Istituzioni che si sono prestate con prontezza a collaborare. E per una Settimana sociale che sarà sul tema della partecipazione oltre che su quella della democrazia, dobbiamo riconoscere che

c’è stata fin dall’inizio una bella partecipazione, una corresponsabilità vissuta.

In pochi giorni Trieste accoglierà il presidente della Repubblica, che aprirà i lavori della 50ª Settimana sociale, e Papa Francesco, che li concluderà. Cosa si aspetta da questa doppia e significativa presenza
I lavori della Settimana sociale saranno dedicati a democrazia e partecipazione, questioni molto rilevanti che ci vedono tutti, sia come cittadini sia anche come cattolici, sia sul versante della cittadinanza sia su quello della fede cristiana, un po’ in difficoltà.

Siamo coscienti che gli indici della partecipazione sia alle elezioni come alle attività ecclesiali, tante volte sono in negativo, c’è una diminuzione di presenze, di attività, di compartecipazione.

Per cui ci aspettiamo che il presidente della Repubblica, tutto l’adattamento della Settimana fino alla conclusione con il Papa ci aiutino a

ritrovare le ragioni buone che portano a rimetterci in gioco nel costruire la città, nel costruire la Chiesa.

Non si tratta di lasciarsi andare soltanto a delle analisi sociologiche o a delle lamentele, ma c’è necessità di trovare delle buone ragioni e anche delle buone pratiche – a Trieste ci saranno i “Villaggi delle Buone pratiche” e 18 “Dialoghi delle buone pratiche” – per

rilanciare la partecipazione attiva da parte di tutti. Ci aspettiamo che Mattarella e il Papa ci diano qualche suggerimento, qualche indicazione, ci diano motivazioni su questo versante.

Ha già pensato a cosa dirà loro?
Non è previsto che debba dire qualcosa al presidente della Repubblica. Ci sarà magari l’occasione per qualche parola in modo informale, un saluto. Al Papa, invece, porgerò semplicemente un ringraziamento alla fine della celebrazione eucaristica di domenica. D’altra parte, la Settimana sociale è un evento della Chiesa italiana e come comunità diocesana noi siamo contenti di collaborare; siamo quelli che ospitano e vogliamo fare in modo che tutti si trovino a loro agio.

C’è uno specifico di Trieste che vi sentite di poter offrire come contributo per questa 50ª Settimana sociale?
Certo, sia come comunità civile sia come comunità cristiana. Ambiti che in realtà si intrecciano, pur avendo evidentemente caratteristiche molto diverse.

Trieste è una terra di frontiera e pertanto, come comunità civile ma anche come comunità cristiana, ci troviamo a confronto continuo con la differenza, l’alterità.

Che non è soltanto al di là del confine. Da sempre, essendo una città di mare con un grande porto, qui sono arrivati popoli che poi si sono stabilizzati e si è vissuto insieme. A livello ecclesiale, la caratteristica è quella di una Chiesa cattolica che però costitutivamente è sia di lingua italiana che di lingua slovena. Una comunità che al suo interno già vive la diversità, tuttavia nella confessione dell’unica fede nel Signore Gesù. C’è poi una relazione con le comunità cristiane che storicamente qui si sono stabilizzate – quella greco-ortodossa, serbo-ortodossa, ‘protestanti’ – e con quella ebraica, quella musulmana. Siamo una comunità cristiana che già da tempo ha imparato a relazionarsi nella differenza ma anche nel rispetto, nella stima reciproca con altre comunità religiose. E così anche quella civile:

dopo, purtroppo, i dolori che ci sono stati nel secolo scorso per le due guerre mondiali e anche per le fatiche e le violenze che si sono subite un po’ da tutte le parti, c’è stato un imparare di nuovo a costruire una convivenza di pace, di rispetto reciproco. Un imparare, perché non si è mai imparato fino in fondo.

E, per questo, non è che siamo maestri, possiamo insegnare. Però siamo dentro a questa scuola, per cui Trieste certamente ha qualche cosa di suo da poter indicare; non con l’ambizione di avere da insegnare come fossimo maestri e gli altri apprendisti, ma invece come qualcuno che ci sta provando.

Domenica 7 luglio, prima della messa in piazza Unità d’Italia, il Papa incontrerà brevemente alcuni gruppi distinti: rappresentanti ecumenici, esponenti del mondo accademico e di un gruppo di migranti e disabili. Che messaggio pensa arriverà da questo momento?

Il desiderio è semplicemente quello che il Papa possa incontrare e salutare un po’ di persone che dicono l’identità di Trieste.

Ho detto delle diverse comunità religiose. Poi, essendo terra di frontiera e trovandoci sul confine, ci saranno gruppi di migranti. Tante volte pensiamo ai migranti come se fosse un blocco monolitico, in realtà ci sono quelli che pure venendo dalla rotta balcanica si sono già stabilizzati e per loro l’integrazione è già conseguita, mentre altri sono magari appena arrivati. C’è una migrazione continua, potremmo quasi dire uno stillicidio quotidiano. Qui non abbiamo l’arrivo dei barconi con centinaia di persone in una volta sola, ma invece tutti i giorni lungo tutto l’anno arrivano migranti dalla rotta balcanica. E il Papa saluterà anche queste persone, con il loro desiderio di vita e di speranza, provenendo da terre che invece che li hanno costretti a fuggire e incontrando anche le violenze, non soltanto quelle della loro patria, ma talvolta anche quelle del viaggio. Verso queste persone Trieste si trova in prima linea, in una dimensione che talvolta è di accoglienza e altre volte invece è di fatica nell’integrazione per via delle diffidenze, della paure, delle stanchezze delle persone. C’è sempre un grande lavoro che ci rimane da fare anche per dare il nostro contributo come comunità cristiana a questa dimensione.

Cosa si augura la 50ª Settimana sociale possa portare alla comunità ecclesiale e civile di Trieste?
Sarà bello poter fare un’esperienza di Chiesa, di una Chiesa sinodale nella quale ci si ascolta, si partecipa, si cresce insieme. Penso che questo dovrebbe essere il lascito più bello: una bella esperienza di Chiesa che è più grande di noi, che siamo sempre un po’ tentati dall’essere autoreferenziali, di ripiegarci un po’ sulle nostre idee o sulle cose che già stiamo facendo. Spero che questi giorni ci lascino questo grande regalo, questo grande risultato.

Mi auguro che le persone – chi parteciperà alle piazze tematiche, chi come volontario, chi si è preparato con la preghiera o con la propria partecipazione ad eventi che abbiamo fatto a livello diocesano piuttosto che nelle diverse comunità – maturino il desiderio di essere più protagonisti, più attivi, più partecipi, sia nella vita civile come anche in quella ecclesiale.

E poi, riguardo alle tante buone pratiche che verranno esposte e presentate, chissà che a qualcuno sorga l’idea di provare ad impiantarne qualcuna a Trieste dando vita ad iniziative che possono avvenire soltanto perché qualcuno di più si mette in gioco da protagonista.

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Comunità terapeutiche. Squillaci: “Ritrovare il senso di quello che facciamo e ricostruire alleanze”

“Dobbiamo interrogarci di più per allargare la conoscenza dei problemi e far appassionare alla sfida che essi rappresentano, sfida che non appartiene solo a coloro che ne sono coinvolti ma a tutti, perché vuol dire lottare contro una mentalità di dipendenza, quella che la produce, che si accontenta di circoscriverla e non di risolverla. È anche una domanda su cui tutta la Chiesa in Italia si deve interrogare per ritrovare attenzione, passione, gusto di curare tanti pezzi del nostro mondo, delle nostre comunità che dobbiamo affrancare dalle tante schiavitù”. Lo ha detto il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, collegato via Zoom al convegno promosso dalla Federazione italiana comunità terapeutiche (Fict) a Bologna su “La presa in carico delle fragilità tra il senso e il fare”. “Dovete aiutarci ancora di più a fare cultura, a far conoscere le sofferenze che portano le dipendenze e anche le tante possibilità di liberazione, che non richiedono solo delle bellissime comunità come sono le vostre, ma che chiedono che tutta la comunità sia attenta, consapevole, responsabile e vi aiuti in questo sforzo, che non può essere mai solo una delega, ma un coinvolgimento di tutti”, ha aggiunto il cardinale invitando a presentare anche delle intese per le diocesi. Abbiamo sentito Luciano Squillaci, presidente della Fict, per fare un’analisi del sistema attuale e le prospettive per il futuro.

(Foto Fict)

Qual è lo scenario attuale in cui si muovono le comunità terapeutiche?

Il convegno “La presa in carico delle fragilità tra il senso e il fare” si pone al termine di una due giorni che abbiamo vissuto a Bologna insieme a presidenti e direttori di diversi Centri di solidarietà della Federazione italiana comunità terapeutiche sparse in tutta Italia, un centinaio di persone delegate dei vari Centri. Si è posto alla fine questo incontro assieme al sociologo Andrea Volterrani e al card. Matteo Zuppi perché volevamo capire in che termini riusciamo a svolgere in questo momento e soprattutto in prospettiva futura la nostra responsabilità politica e culturale. Abbiamo preso in considerazione il rischio che stiamo attraversando noi e la gran parte del Terzo Settore, ma soprattutto noi nell’ambito delle dipendenze, ambito estremamente complesso dove interagiscono fattori sanitari, sociali, familiari, di contesto, giuridici. L’interrogativo è stato: all’interno di questa complessità, come possiamo evitare di farci schiacciare sul fare e quindi sui servizi, che sono sempre più difficili, complicati, dove si fa una fatica enorme per tantissimi motivi, dove c’è una frammentazione forte, continuando invece a svolgere anche un ruolo culturale di cambiamento all’interno delle comunità? Cioè come passare sostanzialmente dalla comunità terapeutica alla comunità territoriale, come svolgere il proprio ruolo in maniera adeguata sul territorio? Gli enti del Terzo Settore svolgono da sempre questo ruolo, noi come Federazione abbiamo centri fortemente radicati nel mondo ecclesiale, sociale e nei territori, ma il rischio è che questa enorme complessità in qualche modo ci porti a dimenticare che

il nostro obiettivo principale non è lavorare sugli effetti, ma andare alle cause del problema, del disagio, dell’abbandono, dell’emarginazione.

(Foto ANSA/SIR)

Come interpretare oggi questa mission?

È un ruolo politico e noi riteniamo che questa dimensione politica la possiamo mantenere e probabilmente implementare solo se terremo fede a due percorsi: il primo è

ritrovare il senso di quello che facciamo

e quindi tornare a ragionare non solo sull’essere bravi metodologicamente e scientificamente – quello è indispensabile -, ma anche sul lato più valoriale, dei riferimenti, tant’è che noi abbiamo rinnovato con queste due giorni la nostra carta dei valori della Federazione proprio perché abbiamo bisogno di aggrapparci al senso di quello che facciamo, per evitare che siamo solo un fare, senza che abbiamo dietro un significato. Quindi, tutti i valori, tipo la centralità della persona, il rispetto per la vita, la scelta degli ultimi sono nella carta dei valori.

Il secondo passaggio per svolgere il ruolo politico è rappresentato dalle alleanze,

ricordarsi che abbiamo la responsabilità del cambiamento ma non possiamo cambiare le cose da soli. In questo il card. Zuppi molto concretamente ha ribadito l’esigenza che soprattutto a livello territoriale si rinnovi con forza la capacità di lavorare insieme tra comunità territoriali, parrocchie, associazioni, gruppi come i nostri, insomma che ci sia una condivisione reale e concreta di intenti. Rispetto a questo il cardinale ha ribadito di poter strutturare dei percorsi anche di alleanze e di intese che siano buone prassi da esportare.

(Foto: ANSA/SIR)

Le dipendenze negli anni hanno subito evoluzioni?

Le dipendenze sono un problema enormemente diffuso e sempre di più tra l’altro con delle specifiche di genere, un aspetto, quest’ultimo, che deve essere approfondito. Mentre una volta tra i consumatori di sostanza c’era una maggioranza schiacciante di uomini, tanto che nel sistema dei servizi tra le persone che sono prese in carico solo il 14% è costituito da donne, oggi i dati ci dicono che le quindicenni e le sedicenni ormai hanno raggiunto e in alcuni casi superato i ragazzi coetanei nel consumo. Questo ci lascia immaginare che da qui a breve ci troveremo a fare i conti con tantissime donne che avranno necessità di supporto, sostegno e accompagnamento nell’ambito delle dipendenze, ma noi siamo pronti? Il nostro sistema è pronto ad affrontare le specificità di genere? La dipendenza di genere fino a oggi è stata poco approfondita e neanche in maniera adeguata. Noi abbiamo avviato alcune sperimentazioni di strutture ad hoc tutte al femminile, ad esempio a Mestre c’è un percorso ad hoc, nei prossimi anni è necessario che su questi aspetti soprattutto ci si lavori.

Il card. Zuppi ha anche parlato del fatto che il fenomeno delle dipendenze oggi sia abbastanza sottaciuto nella società…

Questo è abbastanza naturale all’interno del contesto che stiamo vivendo. Nell’ambito dei rapporti educativi tra genitori e figli, ad esempio, l’enorme paura che hanno i genitori nell’affrontare alcune questioni li porta a negarle, ma attenzione: questo non è amore, è egoismo da parte dei genitori, tante volte nascondiamo la testa come gli struzzi sotto la sabbia e preferiamo non vedere. È una società che va in questa direzione. Per quanto riguarda in modo particolare le dipendenze, questo ha portato a sempre più normalizzarle. C’è una sorta di normalizzazione:

paradossalmente l’enorme diffusione delle sostanze come mai prima sta producendo questo effetto collaterale di farla considerare un fatto normale, ma ciò è di una pericolosità estrema.

Adesso è scoppiata la polemica su Sniffy, venduta in Francia in tabaccheria, ma che c’è il rischio che arrivi anche in Italia, è una polverina con dentro caffeina, taurina e creatina, che fanno comunque male in grosse quantità e in ogni caso non vanno sniffate, è una modalità per rilanciare messaggi che sono assolutamente contro-educativi perché rimandano all’uso di cocaina. Trovo questo fatto di una gravità inaudita sotto il profilo educativo, è una di quelle questioni come la cannabis light che sono messaggi diseducativi che noi diamo ai ragazzi e che in qualche modo aiutano a naturalizzare l’uso di sostanze, a normalizzare l’eccesso.

(Foto ANSA/SIR)

Di fronte a tale crisi educativa che è sempre grave e ancor di più in questo ambito, che risposta può dare il nostro mondo?

Queste sono sfide che si possono vincere soltanto stando e lavorando nelle comunità territoriali, con la dovuta pazienza ma correndo il rischio della speranza, provando a far comprendere che non tutto è perduto, che è ancora possibile di invertire la tendenza purché ci sia un adeguato sostegno vicendevole ai diversi nodi della società: istituzioni, associazionismo, famiglie. Questo è il percorso da fare anche se è più difficile in un mondo che va esattamente al contrario, dove tutto deve essere veloce, efficiente, fare percorsi di questo genere che richiedono tempo e fatica non trova facile accoglienza, ma è il ragionamento che abbiamo fatto nella due giorni:

abbiamo la necessità di tornare nei territori, di ricostruire reti e alleanze e di muoverci di conseguenza.

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9 maggio, Festa d’Europa: per ritrovare la memoria

Perché una festa Cosa e per quale ragione festeggiare? Il 9 maggio è la Giornata, o Festa, dell’Europa. Ricorda la dichiarazione di Robert Schuman, allora ministro degli Esteri francese, rilasciata il 9 maggio 1950, che diede origine al processo di integrazione europea. L’anno successivo infatti veniva firmato il Trattato per la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), la prima comunità sovranazionale del continente. Quella che potremmo considerate la “nonna” dell’attuale Unione europea. Nel 1957 nasceva invece la Comunità economica europea (Cee), con la quale i sei Paesi fondatori – Italia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo – di fatto ampliavano la loro collaborazione economica e politica che aveva al fondo un obiettivo prioritario: rinsaldare la pace dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, costruendo legami e reciproci interessi secondo il principio di solidarietà.
Ebbene oggi, alla vigilia delle elezioni europee, ricordare questi elementi essenziali aiuta a fare memoria, anche perché al giorno d’oggi uno dei problemi dell’integrazione europea, che agli occhi di molti cittadini ha perso slancio e credibilità, sembra proprio derivare dall’aver dimenticato o trascurato perché è nata la “casa comune”. Il cui obiettivo di fondo rimane la pace, da costruire mediante forti legami comuni tra Stati membri (diventati nel frattempo 27) e popoli europei, creando collaborazione reciproca, sviluppo e benessere, rafforzando democrazia e diritti, il tutto mantenendo la porta aperta al mondo.
La Festa d’Europa per questo è divenuta uno dei “simboli” dell’Unione europea, assieme al motto “Unità nella diversità”, alla bandiera blu con le 12 stelle, all’Inno alla gioia di Beethoven, e all’euro, moneta unica.
La memoria nasce da una storia condivisa, dunque. “La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”, affermava il 9 maggio del ’50 Robert Schuman. “Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche”. L’Europa, specificava, “non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Il governo francese, previo accordo con gli altri 5, proponeva di “mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri Paesi europei La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime”.
Schuman, assieme agli altri padri e madri dell’Europa unita, si dimostrava così un politico visionario, e al contempo un concreto costruttore della pace.Ai molti – troppi – che oggi hanno smarrito la memoria, che invocano sovranismi che pongono in conflitto gli Stati (l’aggressione russa all’Ucraina ce lo ricorda ogni giorno), la Festa d’Europa potrebbe richiamare i valori di fondo per cui è sorta l’attuale Unione europea, indicando a tutti noi la necessità di rafforzare il processo verso una maggiore unità, per una Europa della pace, della democrazia e dei diritti. Anche qui ritroviamo quell’“anima” dell’Europa che spesso, e giustamente, invochiamo.

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Papa Francesco: “l’Europa ha bisogno di ritrovare passione ed entusiasmo”

“Il Mediterraneo è culla di civiltà, e una culla è per la vita! Non è tollerabile che diventi una tomba, e nemmeno un luogo di conflitto”. Lo ha detto Papa Francesco, che ha dedicato la catechesi dell’udienza di oggi, in piazza San Pietro, al recente viaggio apostolico a Marsiglia, per partecipare alla conclusione dei Rencontres Méditerranéennes. “Questo è il sogno, questa è la sfida”, ha spiegato: “che il Mediterraneo recuperi la sua vocazione, di essere laboratorio di civiltà e di pace”.  “Il Mare Mediterraneo è quanto di più opposto ci sia allo scontro tra civiltà, alla guerra, alla tratta di esseri umani”, la tesi del Papa: “È l’esatto opposto, perché il Mediterraneo mette in comunicazione l’Africa, l’Asia e l’Europa; il nord e il sud, l’oriente e l’occidente; le persone e le culture, i popoli e le lingue, le filosofie e le religioni”. “Certo, il mare è sempre in qualche modo un abisso da superare, e può anche diventare pericoloso”, ha ammesso Francesco: “Ma le sue acque custodiscono tesori di vita, le sue onde e i suoi venti portano imbarcazioni di ogni tipo. Dalla sua sponda orientale, duemila anni fa, è partito il Vangelo di Gesù Cristo. Questo naturalmente non avviene per magia e non si realizza una volta per tutte. È il frutto di un cammino in cui ogni generazione è chiamata a percorrere un tratto, leggendo i segni dei tempi in cui vive”.

Dall’evento di Marsiglia “è uscito uno sguardo sul Mediterraneo che definirei semplicemente umano, non ideologico, non strategico, non politicamente corretto né strumentale, no, umano, cioè capace di riferire ogni cosa al valore primario della persona umana e della sua inviolabile dignità”,

il bilancio del Papa. “E nello stesso tempo è uscito uno sguardo di speranza”, ha proseguito Francesco: “Questo è oggi molto sorprendente: quando ascolti i testimoni che hanno attraversato situazioni disumane o che le hanno condivise, e proprio da loro ricevi una professione di speranza, e anche uno sguardo di fraternità”. L’incontro di Marsiglia, ha ricordato il Papa, è venuto dopo quelli simili svoltisi a Bari nel 2020 e di e a Firenze l’anno scorso:

“Non è stato un evento isolato, ma il passo in avanti di un itinerario, che ebbe i suoi inizi nei Colloqui Mediterranei organizzati dal Sindaco Giorgio La Pira, a Firenze, alla fine degli anni ’50 del secolo scorso. Un passo avanti per rispondere, oggi, all’appello lanciato da San Paolo VI nella sua Enciclica Populorum progressio, a promuovere ‘un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti abbiano qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri’” .

“Il Mediterraneo deve essere un messaggio di speranza”, ha ribadito Francesco a braccio: “Questa speranza non può e non deve volatilizzarsi, no, al contrario deve organizzarsi, concretizzarsi in azioni a lungo, medio e breve termine”, l’appello di Francesco:

“perché le persone, in piena dignità, possano scegliere di emigrare o di non emigrare”.

“Occorre ridare speranza alle nostre società europee, specialmente alle nuove generazioni”, l’altro invito del Papa: “come possiamo accogliere altri, se non abbiamo noi per primi un orizzonte aperto al futuro? Dei giovani poveri di speranza, chiusi nel privato, preoccupati di gestire la loro precarietà, come possono aprirsi all’incontro e alla condivisione?”. “Le nostre società tante volte ammalate di individualismo, di consumismo, di vuote evasioni hanno bisogno di aprirsi, di ossigenare l’anima e lo spirito, e allora potranno leggere la crisi come opportunità e affrontarla in maniera positiva”, l’analisi:

“L’Europa ha bisogno di ritrovare passione ed entusiasmo,

e a Marsiglia posso dire che li ho trovati: nel suo pastore, il cardinale Aveline, nei preti e nei consacrati, nei fedeli laici impegnati nella carità, nell’educazione, nel popolo di Dio che ha dimostrato grande calore nella Messa allo Stadio Vélodrome. “Ringrazio tutti loro e il presidente della Repubblica, che con la sua presenza ha testimoniato l’attenzione della Francia intera all’evento di Marsiglia”, l’omaggio a Macron: “Possa la Madonna, che i marsigliesi venerano come Notre Dame de la Garde, accompagnare il cammino dei popoli del Mediterraneo, perché questa regione diventi ciò che da sempre è chiamata a essere: un mosaico di civiltà e di speranza”.

“Ricordatevi dei vostri fratelli e sorelle dell’Ucraina,

costretti a lasciare la propria patria, afflitta dalla guerra, che cercano l’aiuto, il rifugio e la benevolenza nel vostro Paese. Manifestate loro l’accoglienza evangelica”, l’invito ai fedeli polacchi, nei saluti al termine dell’udienza.  “L’odierna memoria liturgica di San Vincenzo de’ Paoli ci ricorda la centralità dell’amore del prossimo”, il saluto ai fedeli di lingua italiana.

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