Cercheranno l’errore umano. Anzi, già lo stanno cercando. Spasmodicamente. In fondo il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini l’ha già dichiarato: “pare che sia stato un errore umano, poi non sta a me giudicare da parte di chi”. Quasi come se la strage di Brandizzo (TO), i cinque operai manutentori morti ammazzati da un treno che correva lungo i binari a 160km/h, fosse un “giallo” che si può concludere solo quando salterà fuori il nome dell’assassino. Quello contro cui puntare il dito. E interrogarsi poi sulle cause: dormiva Aveva bevuto? Semplice distrazione?La ricerca dell’errore umano è, invece, il più classico dei depistaggi. Serve a sviare l’attenzione affinché il vero colpevole non emerga mai. E il colpevole non ha le sembianze di un unico individuo, ma quelle – più impersonali – di un sistema.

Sfido a spiegare sulla base dell’errore umano la differenza che corre tra l’Italia, maglia nera per gli omicidi bianchi, e Germania, Svezia o Olanda, che – fortuna loro – di morti sul lavoro ne hanno assai meno: qualcuno oserebbe dire che i lavoratori in Italia muoiono come mosche perché più disattenti dei colleghi a Berlino, Stoccolma o Amsterdam?

In fondo, l’espressione che più si rincorre sulle pagine dei giornali è solo una variante dell’errore umano: “errore di comunicazione” – scrivono. Delle due, in effetti, l’una: o gli operai non dovevano trovarsi su quei binari, perché era previsto il passaggio del treno; o, all’opposto, quel treno non sarebbe dovuto passare perché avrebbe dovuto ricevere l’avviso di uomini al lavoro. Qualcosa evidentemente non ha funzionato, qualcuno non è stato avvisato. E torniamo alla spasmodica ricerca dell’errore umano: “chi” ha sbagliato? “Chi” non ha comunicato a dovere?

Sarà stato il cosiddetto Titolare dell’Interruzione (TI), la persona sul posto di Rfi e responsabile della manutenzione? O forse il Dirigente Centrale Operativo (DCO), sempre dipendente di Rfi, che opera a distanza e riceve la richiesta di interruzione del flusso ferroviario? O, ancora, il responsabile della ditta appaltatrice, la Sigifer di Borgo Vercelli, impresa che, tra l’altro, aveva una certificazione per la sicurezza scaduta il 27 luglio?

Queste comunicazioni avvengono per via telefonica. In un mondo – ma anche in un sistema ferroviario – sempre più automatizzato e tecnologico un passaggio chiave per la sicurezza dei lavoratori si basa ancora su una tecnologia del XX secolo, i dispacci telefonici. Il che non è necessariamente un problema, lo diventa quando i passaggi si moltiplicano e, alla stregua del telefono senza fili, ogni anello in più rischia di complicare le cose. Solo che qui in gioco non è il divertimento di bambini, ma la vita di lavoratori e lavoratrici.

La moltiplicazione dei passaggi, delle comunicazioni, non è casuale. È il frutto di un sistema sempre più frammentato da una infinita catena di appalti e subappalti che hanno come unica ragion d’essere la ricerca di risparmi sui costi da parte dei committenti, così da poter raggranellare più profitti. Via via che si scende lungo la catena di appalti, anello dopo anello, per i lavoratori si fa più rovente un inferno fatto di meno tutele, meno garanzie, meno sicurezza, più precarietà, meno salari. Ogni anello della catena è parzialmente strozzato da quello che gli sta immediatamente sopra e l’unico modo che praticano per trovare aria – cioè profitti – è schiacciare quello più in basso e i propri dipendenti.

Anche la relazione tra Rfi e Sigifer non scappa a questa logica. Sigifer operava in subappalto della C.L.F. (Costruzione Linee Ferroviarie); secondo quanto riportato da un ex operaio Sigifer (dimessosi solo una settimana fa) a Gad Lerner, “la tabella è questa: primo contratto di un mese, poi tre contratti di sei mesi, solo dopo questa trafila, se gli vai bene, tempo indeterminato. Ci mandavano in cantiere con le lampadine sul casco che fanno pochissima luce. Nessun lampione. Ci facevano firmare un corso sulla sicurezza mai effettuato. E siccome non timbri ma hai solo il foglio ore, capitava di fare sia il turno del mattino che quello di notte. I più anziani fra i colleghi morti arrivavano a prendere 1.700-800€ al mese per un lavoro duro in cui rischiavi la pelle. Se fossi rimasto probabilmente ieri sarei morto anch’io”.