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Attualità

Anna Politkovskaja e le altre, quelle donne che scrivono il vero e spaventano il potere di Helena Janeczek L’Espresso, 13 agosto 2023

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Anna Politkovskaja e le altre, quelle donne che scrivono il vero e spaventano il potere

di Helena Janeczek

L’Espresso, 13 agosto 2023

 

In this handout photo released by Novaya Gazeta Europe via web site Novayagazeta.eu on Tuesday, July 4, 2023, Novaya Gazeta journalist Elena Milashina sitts after giving her a medical treatment in Grozny, Russia. Unidentified masked assailants in the Russian province of Chechnya have attacked and beaten a journalist and a lawyer. The violent incident underlines human rights abuses in the region. Novaya Gazeta journalist Elena Milashina and lawyer Alexander Nemov had just arrived in Chechnya to attend the trial of Zarema Musayeva, the mother of two local activists who have challenged Chechen authorities. (Novaya Gazeta Europe Novayagazeta.eu via AP)

Colpite da violenza fisica, messe alla gogna, uccise. Sono giornaliste, scrittrici, attiviste. Voci libere che, dalla Russia all’Ucraina, fino al Medio Oriente, svelano orrori della guerra, intrecci criminali e abusi dei dittatori. Che cercano di fermarle nei modi più feroci.

Ai piedi dei nuovi grattacieli c’è un po’ di verde ignorato dai passi milanesi sempre di corsa. “Giardini Anna Politkovskaja” si chiama. “Ti avessero ascoltata, da viva” rimugino, pensiero che ha ripreso a far male dopo il 5 luglio scorso. Dopo aver visto le foto di una donna rapata, il volto verde-alieno, le dita spezzate, la schiena massacrata con metodo, come chi è abituato a torturare. Una donna colpita da una violenza anche simbolica, da mettere alla gogna: i capelli si tagliano alle streghe e alle “puttane andate col nemico”, alle internate nei riformatori e manicomi e lager.

Ma Elena Milašina, che aveva conosciuto Politkovskaja a Novaja Gazeta, ha scelto di assumerne l’eredità come quella di Natalja Estemirova, rapita e uccisa nel 2009 a Grozny, attivista di Memorial e collaboratrice dello stesso giornale. Il direttore Dmitrij Muratov ha ricevuto il Nobel per la pace nel 2021, il premio è andato a Memorial l’anno dopo: proprio perché sia l’associazione co-fondata da Sacharov che il più importante organo d’opposizione sono stati soppressi in Russia. Minacciata di morte, già assalita in passato, Milašina stessa ha divulgato la prova di quanto le è accaduto. Appena lei e l’avvocato Nemov hanno preso un taxi all’aeroporto di Grozny, un commando li ha rapiti, pistola alla tempia.

Per ironia della sorte hanno ricevuto le prime cure a Beslan, teatro del più orribile atto di terrorismo ceceno, un orrore utilissimo perché fino all’invasione dell’Ucraina ci si scordasse della Cecenia “pacificata”. Eppure Politkovskaja e le sue eredi non hanno smesso di denunciare che la guerra del 1999, secondo loro orchestrata da Putin tramite gli attentati a Mosca attribuiti ai ceceni, era stata la base per la sua ascesa al potere e tutto ciò che ne è seguito. Milašina si è avventurata a Grozny per seguire il processo farsa contro Zarema Musaeva, madre dei dissidenti fratelli Yangulbaev, rapita e sbattuta in una prigione dove rischiava di morire anche solo di diabete. In più, mentre una campagna d’odio centrava i Yangulbaev, una quarantina di membri della famiglia sono scomparsi senza traccia.

È questa la Cecenia di Ramzan Kadyrov, con la sua faccia da venduto a Mordor, i suoi “Allah akbar” risonanti insieme alle benedizioni della santa guerra russo-ortodossa. Putin lo ha spedito a Rostov, a disarmare le truppe Wagner, ma non c’è stata ombra di scontro. La ferocia riesce meglio contro i deboli e gli inermi. Come in Siria, dove c’erano i Kadyrovcy, i mercenari Wagner e, soprattutto, le bombe russe – sui corridoi umanitari, gli ospedali e altri obiettivi civili – a fare più vittime dell’Isis. E se le forze russe e (filo)iraniane a sostegno di Assad non hanno mai infierito sulle zone dello “Stato islamico”, va detto che nell’Is comandavano spesso i ceceni formati dalla brutalità della guerra in patria.

Tutto questo lo sapeva bene Elizabeth Tsurkov. Emigrata con la famiglia da Leningrado in Israele, diventa da giovane adulta – soprattutto dal periodo delle “primavere arabe” – una studiosa stimata per il suo appassionato approfondimento delle questioni dei diritti in Medio Oriente. Per svolgere le ricerche sul campo per la sua dissertazione a Princeton, era stata in Siria, Libano e Iraq, Paesi dove poteva entrare solo grazie al passaporto russo.

Il 21 marzo twitta di cinque civili curdi siriani uccisi da una milizia filo-turca mentre celebravano Nowruz, il capodanno persiano. Il suo account conta 80.000 follower ma su Instagram posta foto scattate in Iraq. In quel periodo, una telecamera interna la mostra entrare in un caffè di Bagdad in compagnia di un uomo: in jeans e maglietta, a capo scoperto, rilassata. In altri video appare tutta in nero, alla maniera delle sciite tradizionaliste, mentre si fa intervistare sul movimento che studia: quello di Muqtada al-Sadr, capo della maggiore milizia sciita in lotta contro l’invasione Usa del 2003, ora leader di un movimento con un enorme seguito popolare.

Karrada, il quartiere dove si era stabilita – mi dice Marta Bellingreri, che a Bagdad è tornata da poco scrivendone per L’Espresso – è il luogo d’incontro dei ragazzi che, dal 2019, si battono per un Paese più equo e libero, meno settario, meno corrotto. Una sfida per chiunque veda nell’Iraq una terra di conquista da sfruttare. A febbraio viene rapito Jassim al-Asadi, ecologista iracheno. Prima ancora, negli anni caldi delle proteste, sono centinaia gli attivisti uccisi o fatti sparire dalle milizie filo-iraniane. Questo contesto inquadra meglio la notizia – scoppiata sempre il 5 luglio – che Tsurkov sia da mesi ostaggio di Kataib Hezbollah, la formazione più potente legata a Teheran e pure al nuovo governo iracheno che ne è prono.

Sono pessimi i rapporti di queste milizie con il movimento di al-Sadr, ostile non solo agli Usa e Israele ma a ogni ingerenza straniera, compresa quella iraniana. Altrettanto pessimi i giudizi che Tsurkov ha espresso verso i governi dei Paesi di cui è cittadina. Per i nazionalisti sionisti una traditrice che sta con i palestinesi e gli arabi, per la controparte una “spia del Mossad”. Sembrerebbero piuttosto le spie vere, attratte dal clima libero di Karrada, ciò da cui Tsurkov non ha tutelato abbastanza né se stessa né i suoi contatti. Princeton rilascia una nota accorata, d’altronde non ha fatto meglio Cambridge per Giulio Regeni che era “solo” italiano.

Neanche le università più prestigiose coprono i dottorandi quando devono fare ricerca in certi luoghi. Il rischio è tutto loro, gli allori ricadono sull’ateneo se va liscia. Per Patrick Zaki, Bologna ha dimostrato invece che anche l’Alma Mater più antica può non perdere l’anima. L’unica speranza di rivedere Tsurkov è che, obtorto collo, Israele ottenga uno scambio di prigionieri grazie alla mediazione russa. Netanyahu non ha mai rotto con Putin e Putin è grande acquirente di know how e droni iraniani. I più micidiali, diretti sul Kurdistan iracheno come sull’Ucraina, si chiamano Shaheed, cosa che dovrebbe esaltare Kadyrov.

Erano invece russi i due missili mirati alla pizzeria Ria di Kramatorsk il 27 giugno. I morti e i feriti causati da quel crimine di guerra allungano l’elenco mostruoso di vittime dovute ai metodi inaugurati in Cecenia, come ripeteva Politkovskaja. Il 5 luglio si sono celebrati anche i funerali di Victoria Amelina, scrittrice e preziosa intellettuale ucraina, prestatasi a documentare i crimini russi. Una mano che, scrivendo, raccoglie il vero – anche se è la mano di una donna – resta ancora così pericolosa che il potere dispotico riesce a fermarla solo con la violenza. Non è una consolazione.

 

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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