Matteo Salvini si è convinto: la Lega deve entrare nel governo Draghi. Il sostegno all’ex presidente della Bce potrebbe arrivare già stamani dopo le consultazioni con il presidente incaricato o dopo un ulteriore passaggio con la segreteria politica formata da capigruppo, amministratori locali e governatori che in queste ore lo stanno pressando per dire “sì” al banchiere. L’ingresso in maggioranza, mette le mani avanti chi ha parlato con il segretario, non è ancora ufficiale perché “prima dobbiamo andare ad ascoltare Draghi”, ma ieri è stato lo stesso Salvini a far capire che la decisione è presa: “Mattarella ha fatto un appello e noi ci siamo – ha spiegato a Sky Tg24– mi piacerebbe che in questo governo ci fossero tutti”. Sicuramente non c’è la possibilità che la Lega si astenga, ma come condizione per entrare in maggioranza Salvini chiede ministri propri o di area leghista: “Non facciamo le cose a metà – ha continuato il segretario del Carroccio – se sei dentro, dai una mano e ti prendi onori e oneri”.

Ma che la volontà della Lega sia quella di entrare si capisce quando nel pomeriggio, mentre Giorgia Meloni conferma il suo “no”, Salvini cita Papa Francesco per eliminare quel veto posto giovedì dopo la segreteria (“Draghi scelga tra noi e Grillo”): “Chi sono io per dire tu no? – ha concluso il segretario – Noi a Draghi non diremo che non vogliamo tizio. Se poi il M5S dice che vuole la patrimoniale, noi diremo che vogliamo meno tasse”.

Quindi il tema non è più il se, ma il come. Perché il leader del Carroccio vuole anche capire cosa succede nel campo avverso – quello dei giallorosa – dove ieri è stato il giorno delle condizioni poste da LeU e Pd. Il segretario dem Nicola Zingaretti ha chiesto una riforma fiscale “progressiva” (inconciliabile con la flat tax) e LeU ha dichiarato la propria “incompatibilità” con la Lega. “Ma nessuno potrà impedirci di entrare, dopo l’appello di Mattarella” sostiene l’ex ministro dell’Interno.

E se la delegazione del Carroccio composta da Salvini e i capigruppo Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo (non Giancarlo Giorgetti) questa mattina andrà ad “ascoltare” Draghi, porterà anche i propri paletti: taglio delle tasse, una riforma della giustizia garantista e il controllo delle frontiere. Che, anche se non saranno veti espliciti, vuol dire discontinuità rispetto al Conte bis. Quindi niente Bonafede, Azzolina e tantomeno Lamorgese. E magari, sostiene Giorgetti, incassare la disponibilità ad andare a votare nella primavera del 2022, dopo che la prossima maggioranza avrà issato Draghi al Quirinale.

Per questo l’obiettivo del leghista è quello di spoliticizzare il governo che nascerà per renderlo un “esecutivo di salvezza nazionale” e non lasciare l’autostrada dell’opposizione a Meloni che ieri, dopo aver incontrato Draghi, ha lanciato diverse frecciate al leghista: “Io non vorrei un governo con tutti e non ho chiesto ministri a Draghi, a differenza di altri”.

A spingere Salvini verso il “sì” ci sono i governatori – da Zaia a Fedriga – ma anche i tanti imprenditori del nord che in queste ore lo stanno chiamando invitandolo a “non tirarsi indietro”. Quel ceto produttivo che un no a Draghi proprio non lo capirebbe. E poi c’è Giorgetti che gli fa da guida per entrare al governo (potrebbe diventare ministro dei Rapporti col Parlamento) e così facendo accreditarsi nelle cancellerie internazionali per poi arrivare a Palazzo Chigi con Draghi al Colle. Ma i segnali della conversione arrivano anche dall’ala euroscettica del Carroccio, da Alberto Bagnai (“Draghi è un pragmatico”) a Claudio Borghi (“È un fuoriclasse ma deve giocare con noi”). Tutti segnali per una strada che sembra ormai segnata.