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Covid-19: guerra contro un nemico sconosciuto narrata da un professionista impegnato in prima linea

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Il dottor Carlo Alfaro, Dirigente Medico di Pediatria presso gli Ospedali Riuniti Stabiesi, analizza le criticità 

che incontra nella guerra contro il Covid. 

 

Arriva la notizia che aspettavamo: l’epidemia migliora. Ma non esultiamo troppo: migliora perché stiamo mettendo in atto le misure di mitigazione introdotte dal governo con drastica riduzione delle interazioni fisiche tra le persone. I dati potranno continuare ad aprire uno spiraglio solo se continuiamo a sacrificarci.

Secondo il monitoraggio settimanale dell’Istituto superiore di sanità (Iss) e Ministero della Salute, nel periodo 9 – 15 novembre 2020 l’indice di trasmissibilità, Rt, è sceso a 1,18 – con valori tra 1 e 1,25 nella maggioranza delle Regioni – contro l’1,43 della settimana precedente.

Come ormai noto, Rt calcola, nel corso di un’epidemia, quanti soggetti vengono mediamente contagiati da un paziente infetto: più è elevato, più significa che l’epidemia è in crescita, mentre più si riesce a ridurlo, più vuol dire che le misure di contenimento stanno avendo efficacia. Se l’Rt è >1 significa che l’epidemia è in espansione, se è <1 significa che l’epidemia si sta ritirando. L’obiettivo è dunque la decrescita della curva, quando Rt scenderà sotto 1.

Restano preoccupanti, tuttavia, l’aumento di incidenza dei casi (732,6 per 100.000 abitanti), diffuso ovunque in Italia, del numero dei ricoveri ordinari e nelle terapie intensive, con superamento a livello nazionale delle soglie considerate critiche, che sono il riempimento del 40% dei posti per l’area medica e del 30% per l’area intensiva (il che determina riduzione delle risorse disponibili per l’assistenza ospedaliera ai pazienti non-Covid, anche considerando che il tempo medio di occupazione di un posto letto di terapia intensiva da parte di un paziente Covid si aggira su ben 21 giorni), dei decessi (che continuano a mantenere un trend esponenziale, come ricorda il Gimbe nel suo monitoraggio settimanale indipendente, perché l’effetto delle misure restrittive riduce prima gli indici di contagio quali Rt e incremento percentuale dei casi, poi i ricoveri e le terapie intensive, e solo da ultimo i decessi).

 

È ancora impossibile, dato l’elevato numero di nuovi casi, tenere traccia di tutte le catene di trasmissione. Dunque, nonostante i segnali di miglioramento, il livello dell’epidemia italiana rimane “critico” per la pressione sui servizi territoriali e assistenziali sull’intero territorio nazionale. Le Regioni più colpite in questa seconda ondata epidemica sono la Lombardia seguita dalla Campania. Praticamente tutte le Regioni si trovano in uno scenario di tipo 2 o 3.

 

Resta fondamentale, raccomanda l’Iss, che la popolazione eviti tutte le occasioni di contatto non siano strettamente necessarie con persone al di fuori del proprio nucleo abitativo e cerchi di rimanere a casa il più possibile, oltre a rispettare le misure igieniche rigorose, il distanziamento fisico, l’uso corretto delle mascherine, l’isolamento dei casi accertati e le quarantene dei loro contatti stretti.

L’aspettativa è che la curva continui a crescere lentamente fino a raggiungere il picco all’inizio di dicembre, dopodiché potrebbe iniziare una graduale discesa. Una crescita esponenziale come quella di ottobre avrebbe provocato il tilt dei sistemi sanitari e le misure previste nei due Dpcm di ottobre, fortunatamente, sembrano avere ottenuto l’effetto di rallentarla.

Questo andamento ricalca quanto avvenuto nella prima ondata, quando, il lockdown in poco più di un mese, a metà aprile, ha abbassato il tasso di crescita dei contagi, che però ad agosto ha iniziato a risalire fino a ottobre, quando ha ripreso a crescere molto rapidamente.

Tanti ancora i motivi di dibattito in questo momento dell’epidemia italiana.

Uno riguarda i cosiddetti 21 indicatori, scelti dal governo nel DM Salute 30 aprile 2020 per fotografare tre aspetti della situazione epidemica ai fini della valutazione del rischio: probabilità di diffusione dell’epidemia, impatto sui sistemi sanitari, resilienza territoriale. È dalla loro interpretazione che le Regioni sono classificate in zona rossa, arancione o gialla.

Mentre le Regioni chiedono di ridurli e l’Istituto Superiore di Sanità li difende, molti esperti li considerano poco chiari e trasparenti. Per esempio, non è univoco su quale numero totale di tamponi venga calcolata la percentuale di positivi (visto che ogni Regione decide se inserire solo i positivi per tampone molecolare o meno), se i posti letti “attivabili” in area intensiva (ma non attivi di fatto) vadano considerati nel calcolo della percentuale di saturazione delle terapie intensive, quali reparti siano annoverati dalle Regioni come posti disponibili in area medica, infine quali sono i dati sulla base dei quali l’Iss calcola l’Rt.

 

Anche sulla diagnostica ci sono dei dubbi. L’unico test per la diagnosi certa è il tampone molecolare, ma ci sono problemi sul momento giusto per eseguirlo (rischio falsi negativi se fatto troppo presto rispetto al contagio) o per la lunga attesa talvolta per esecuzione e risultati, e qualche dubbio sulla sua interpretazione dato che esamina tre geni del virus, di cui il gene E potrebbe essere comune anche ad altri Coronavirus, il gene RdRP un segno di replicazione del virus, il gene N è il più specifico, per cui la presenza di solo gene N o solo E richiedono ripetizione del prelievo naso-faringeo dopo 48 ore.

I tamponi “rapidi”, quindi antigenici, sono poco specifici, quindi se risultano negativi non sono certi, mentre abbastanza sensibili quindi se positivi è probabile sia vero, ma comunque è necessario confermarli sempre con un tampone molecolare. Novità sono i tamponi di auto-diagnosi messi a punto dall’Ospedale Meyer di Firenze (chiamato “Uffa”), e il tampone “fai-da-te” della Regione Veneto, che saranno estensivamente testati nelle prossime settimane.

Un ultimo punto da chiarire è la difficoltà di una valida organizzazione territorio-ospedale. Sono ben 205 i medici deceduti dall’inizio dell’epidemia italiana di Covid-19, di cui 26 colpiti nella seconda ondata, a partire dal primo ottobre. E sono più di 20mila gli operatori sanitari (tra medici ospedalieri, medici territoriali e infermieri) infettati da settembre a oggi.

Questi numeri testimoniano anche errori di organizzazione. La situazione avrebbe dovuto essere meglio gestita facendo seguire i pazienti dalle USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale) attivate dalla legge per l’assistenza domiciliare ai pazienti Covid che non necessitano di ricovero ospedaliero, al fine di consentire ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta di garantire l’attività assistenziale ordinaria e di evitare l’intasamento degli ospedali. Le Usca non sono chiamate direttamente dal paziente ma dal medico di famiglia che continua a gestirlo e monitorarlo. La legge prevedeva 1 unità ogni 50mila abitanti, al momento in Italia ce ne sono appena 610.

 

Interessanti conclusioni emergono dalla nuova edizione del rapporto Health at a Glance (“Salute a colpo d’occhio”) dell’Ocse (Organizzazione promozione e sviluppo economico) che ogni anno raccoglie statistiche economiche e medico-sanitarie dei Paesi europei. La relazione ha sottolineato che la pandemia che con le due ondate della primavera e dell’autunno si è diffusa in Europa nel 2020 ha messo in luce le varie fragilità latenti dei sistemi sanitari riportando bruscamente il tema della salute pubblica al centro dell’agenda politica ed evidenziando la necessità impellente di inserire la resilienza dei sistemi sanitari fra le dimensioni chiave di valutazione della performance dei sistemi sanitari.

L’impatto del Covid è stato sproporzionato sulle persone anziane, su quelle con co-morbilità, sui residenti nelle Rsa, sui poveri e su coloro che vivono in zone disagiate. Questo dato evidenzia la necessità di una forte attenzione alle politiche volte ad affrontare la prevenzione delle malattie croniche e i determinanti sociali e inclusivi della salute.

Anche la carenza di operatori sanitari è stata determinante nella difficoltà di gestione del Covid. Troppi tagli e scarsi investimenti nella sanità hanno prodotto le gravi carenze di fronte alla pandemia. La statistica vede purtroppo l’Italia sempre in coda per la spesa sanitaria rispetto la media Ocse.

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