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Ruanda. Un sopravvissuto al genocidio: ‘Senza la preghiera la mia vita non avrebbe avuto senso’

Il 7 aprile è stato il trentesimo anniversario del genocidio del Ruanda.

Jean-Paul Habimana, quando ebbe inizio il genocidio, aveva appena dieci anni. Oggi insegna religione a Milano. Su questa vicenda ha scritto anche un libro.

Tutto cominciò quando, nel 1994, due razzi abbatterono l’aereo su cui viaggiavano il presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana, e il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira. L’attentato rappresentò il pretesto per la popolazione hutu per commettere un massacro a uomini, donne e bambini di etnia tutsi, la popolazione minoritaria del Paese. In poco più di tre mesi furono uccisi più di 800mila tutsi.

Jean-Paul Habimana aveva dieci anni quando ebbe inizio il genocidio. Oggi è insegnante di religione a Milano, e di questa vicenda ha scritto un libro: Nonostante la paura, il genocidio dei tutsi e Riconciliazione in Ruanda. Per il Sir ha raccontato la sua esperienza in occasione dell’anniversario del massacro.

Io e il resto della mia famiglia appartenevamo all’etnia dei tutsi. Quando ebbe inizio il genocidio io e mio fratello ci siamo rifugiati nella parrocchia.

Dopo alcuni giorni, gli hutu sono arrivati anche da noi e ci hanno tagliato le tubature dell’acqua. Oltre alle uccisioni, abbiamo subito anche la fame e la sete. Sono stato uno dei pochi che è riuscito a sopravvivere in quella parrocchia.

Ad un certo punto una mia vicina di casa di etnia hutu che non aveva partecipato al genocidio è venuta nella parrocchia per vedere se c’era ancora qualcuno, e mi ha portato a casa sua assieme a mio fratello. Siamo rimasti pochissimi giorni, perché poi ci hanno scoperto. Intorno a giugno mi hanno spostato in un campo profughi di Nyarushishi dove mi hanno raggiunto mia mamma, i miei fratelli e le mie sorelle”.

Solo nel settembre del 1994 Habimana ha potuto lasciare il campo profughi. Chi non ha fatto più ritorno da questo massacro è suo padre. Del suo destino, nessuno ha saputo più nulla. “Ho sentito molto la sua mancanza – confida Habimana. Potete immaginare cosa significhi per un bambino di dieci anni crescere senza il padre. Tuttavia, ho cercato di abbracciare questa mia croce e di andare avanti. La Chiesa, specialmente dopo il genocidio, è stata tutto per me.

Senza la preghiera, la mia vita non avrebbe avuto nessun senso. Tutti i giorni dopo il genocidio non facevo altro che pregare. Era l’unica nostra consolazione. Mi chiedo spesso come avrebbe fatto mia mamma, diventata vedova da giovane, senza la preghiera. Era la sua forza, come quella di tante altre donne e orfani. Per noi significava avere un contatto con Dio: lui ci ha fatto vivere tutto questo per un motivo che non abbiamo ancora compreso, ma ci ha fatto anche sopravvivere. Non ci ha mai deluso, ci ha messo sulle spalle l’esperienza più brutta che l’essere umano possa vivere, ma ci ha regalato anche la vita”.

Habimana sottolinea come la Chiesa si sia spesa molto anche dal punto di vista comunitario in Ruanda. Subito dopo il genocidio racconta come siano state istituite nel Paese delle comunità ecclesiali di base” Imiryangoremezo”. Qui, i sacerdoti aiutavano le persone a parlare. Con i superstiti al massacro si cercava anche di sostenere un dialogo con le mogli degli assassini, per approcciare una sorta di rinnovata convivenza. Un processo che dopo trent’anni Habimana affronta ancora dentro di sé.

I miei sentimenti dipendono dalle giornate. Mi capita di avere diversi momenti di pace e riconciliazione. Purtroppo in questi giorni, specialmente quando si avvicina l’otto aprile, l’ultimo giorno in cui ho visto mio padre, non nascondo come emerga in me la rabbia. Mi è capitato di incontrare degli assassini pentiti dei loro crimini, oggi liberi in Ruanda. A volte, pur essendo vicini di casa, vorrei non rispondere ai saluti. Però so che bisogna andare avanti. Ormai tutto questo è successo. Devo saper perdonare, perché altrimenti ci si fa più male”.

Oggi Habimana racconta del Ruanda ai suoi studenti, che gli chiedono spesso delle sue esperienze. “Il libro che ho scritto sul genocidio l’ho pensato proprio per loro. Spesso si stupiscono. Loro faticano a raccontare dei piccoli dolori, mentre io sono un libro aperto per loro. Ma raccontare questa storia non è una passeggiata. Nei primi sei anni in Italia non l’ho mai raccontata a nessuno. L’ho fatto quando mi sono sentito pronto. Tanti oggi ancora non riescono ad aprire bocca. Quello che si può imparare da questa vicenda, è che è un genocidio che è avvenuto nello stesso popolo. Anche noi in Italia dobbiamo stare attenti a non pensare che siano degli avvenimenti lontani da noi.

Perché questo massacro è nato tra gente che non si odiava. Si salutava tutti i giorni, andava a prendere l’acqua alla fontana insieme, faceva tutto insieme. Da vent’anni vivo nella comunità italiana, e vedo divisioni tra gente che ha tutto in comune”.

(Lorenzo Garbarino – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

Genocidio in Ruanda. Habimana (sopravvissuto): “Senza la preghiera, la mia vita non avrebbe avuto nessun senso”

Il 7 aprile scorso è stato il trentesimo anniversario del genocidio del Ruanda. Tutto inizia il 6 aprile 1994 quando due razzi colpiscono l’aereo che trasportava l’allora presidente del Ruanda Juvènal Habyarimana, di etnia Hutu e il suo omonimo del Burundi, Cyprien Ntaryamira. L’attacco, le cui responsabilità non sono mai state definitivamente chiarite, rappresentò, per la popolazione hutu, il pretesto per dare vita a un genocidio tra i più sanguinosi del secolo scorso. Dal giorno seguente le violenze degli Hutu – esercito, milizie, ma anche cittadini comuni – si abbatterono contro la minoranza Tutsi, vittima di una campagna di propaganda d’odio. In poco più di tre mesi furono uccisi più di 800mila tutsi, etnia minoritaria, tra uomini, donne, anziani e bambini.
Jean-Paul Habimana, quando ebbe inizio il genocidio, aveva appena dieci anni. Oggi insegna religione a Milano. Su questa vicenda ha scritto un libro: “Nonostante la paura. Il genocidio dei tutsi e Riconciliazione in Ruanda” e al Sir ha raccontato la sua esperienza proprio in occasione dell’anniversario del massacro. “Io e il resto della mia famiglia apparteniamo all’etnia tutsi. Quando ebbe inizio il genocidio decidemmo di rifugiarci nella parrocchia. Dopo alcuni giorni, gli hutu arrivarono anche da noi. La prima cosa che fecero fu tagliare le tubature dell’acqua. Oltre alle uccisioni, abbiamo subito anche la fame e la sete. Sono uno dei pochi che in quella parrocchia è riuscito a sopravvivere. Ricordo che giorno una donna, una mia vicina di casa di etnia hutu, che non aveva partecipato al genocidio, venne in parrocchia per verificare se qualcuno era ancora vivo. Mi trovò e mi portò a casa sua assieme a mio fratello. Siamo rimasti lì pochissimi giorni perché poi ci scoprirono. Intorno a giugno fui spostato nel campo profughi di Nyarushishi dove poi mi raggiunsero mia mamma, i miei fratelli e le mie sorelle”. Solo nel settembre del 1994 Habimana ha avuto la possibilità di poter lasciare il campo profughi.
Chi invece non ha fatto più ritorno da questo massacro è stato suo padre. Di lui, nessuno ha saputo più nulla. “Ho sentito molto la sua mancanza – confida Habimana -. Potete immaginare cosa significhi per un bambino di dieci anni crescere senza il padre. Tuttavia, ho cercato di abbracciare questa mia croce e di andare avanti.

La Chiesa, specialmente dopo il genocidio, è stata tutto per me. Senza la preghiera, la mia vita non avrebbe avuto nessun senso. Tutti i giorni dopo il genocidio non facevo altro che pregare. Era l’unica nostra consolazione.

Oggi mi chiedo spesso come avrebbe fatto mia mamma, diventata vedova da giovane, ad andare avanti senza la preghiera. Pregare era la sua forza, come quella di tante altre donne e orfani. Per noi significava avere un contatto con Dio: Lui ci ha fatto vivere tutto questo per un motivo che non abbiamo ancora compreso ma ci ha fatto anche sopravvivere. Non ci ha mai deluso, ci ha messo sulle spalle l’esperienza più brutta che l’essere umano possa vivere ma ci ha regalato anche la vita”.
Habimana sottolinea come la Chiesa si sia spesa molto anche dal punto di vista comunitario in Ruanda. Subito dopo il genocidio, racconta come siano state istituite nel Paese le Imiryangoremezo, comunità ecclesiali di base, luoghi di ritrovo e condivisione dove i sacerdoti aiutavano le persone a parlare. Attraverso il dialogo con i superstiti al massacro si è cercato di riallacciare la comunicazione con le mogli degli assassini con l’obiettivo di approcciare una sorta di rinnovata convivenza tra le due popolazioni. Un processo che dopo trent’anni Habimana affronta ancora dentro di sé. “I miei sentimenti dipendono dalle giornate. Mi capita a volte di vivere diversi momenti di pace e riconciliazione. Purtroppo in questi giorni, specialmente quando si avvicina l’otto aprile, l’ultimo giorno in cui ho visto mio padre, non nascondo come invece emerga in me la rabbia.

Mi è capitato di incontrare degli assassini pentiti dei loro crimini, oggi liberi in Ruanda. A volte, pur essendo vicini di casa, vorrei non rispondere ai saluti. Però so che bisogna andare avanti. Ormai tutto questo è successo. Devo poter riuscire a perdonare perché altrimenti ci si fa più male”.

Oggi Habimana racconta della tragedia del Ruanda ai suoi studenti, spesso gli chiedono di raccontare le sue esperienze. “I libri che ho scritto sul genocidio li ho pensati proprio per loro. Spesso si stupiscono. Loro faticano a raccontare i propri piccoli grandi dolori, mentre io mi presento a loro come un libro aperto. Capisco comunque che raccontare questa storia non è una passeggiata. Durante i primi sei anni in Italia non ne ho parlato mai con nessuno. L’ho fatto quando mi sono sentito pronto. Tanti, ancora oggi, non riescono ad aprire bocca. La lezione che possiamo trarre da questa vicenda è che un genocidio si può scatenare anche all’interno di uno stesso popolo. Anche qui, in Italia, bisogna stare attenti e vigilare e non ritenere che vicende di questo tipo siano solo degli eventi avvenuti tempo fa e lontani da noi. Questo massacro infatti è nato e cresciuto tra gente che fino a un determinato giorno non si odiava. Gente che si salutava tutte le mattine, che andava insieme a prendere l’acqua alla stessa fontana, gente che viveva e faceva tutto insieme. Dico questo perché da vent’anni vivo nella comunità italiana, e vedo anche tante divisioni tra gente che ha tutto in comune”.

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Genocidio in Ruanda. Habimane (sopravvissuto): “Senza la preghiera, la mia vita non avrebbe avuto nessun senso”

Il 7 aprile scorso è stato il trentesimo anniversario del genocidio del Ruanda. Tutto inizia il 6 aprile 1994 quando due razzi colpiscono l’aereo che trasportava l’allora presidente del Ruanda Juvènal Habyarimana, di etnia Houti e il suo omonimo del Burundi, Cyprien Ntaryamira. L’attacco, le cui responsabilità non sono mai state definitivamente chiarite, rappresentò, per la popolazione hutu, il pretesto per dare vita a una tra le guerre civili più sanguinose del secolo scorso. Dal giorno seguente le violenze degli Hutu – esercito, milizie, ma anche cittadini comuni – si abbatterono contro la minoranza Tutsi, vittima di una campagna di propaganda d’odio. In poco più di tre mesi furono uccisi più di 800mila tutsi, etnia minoritaria, tra uomini, donne, anziani e bambini.
Jean-Paul Habimane, quando ebbe inizio il genocidio, aveva appena dieci anni. Oggi insegna religione a Milano. Su questa vicenda ha scritto un libro: “Nonostante la paura. Il genocidio dei tutsi e Riconciliazione in Ruanda” e al Sir ha raccontato la sua esperienza proprio in occasione dell’anniversario del massacro. “Io e il resto della mia famiglia apparteniamo all’etnia tutsi. Quando ebbe inizio il genocidio decidemmo di rifugiarci nella parrocchia. Dopo alcuni giorni, gli hutu arrivarono anche da noi. La prima cosa che fecero fu tagliare le tubature dell’acqua. Oltre alle uccisioni, abbiamo subito anche la fame e la sete. Sono uno dei pochi che in quella parrocchia è riuscito a sopravvivere. Ricordo che giorno una donna, una mia vicina di casa di etnia hutu, che non aveva partecipato al genocidio, venne in parrocchia per verificare se qualcuno era ancora vivo. Mi trovò e mi portò a casa sua assieme a mio fratello. Siamo rimasti lì pochissimi giorni perché poi ci scoprirono. Intorno a giugno fui spostato nel campo profughi di Nyarushishi dove poi mi raggiunsero mia mamma, i miei fratelli e le mie sorelle”. Solo nel settembre del 1994 Habimane ha avuto la possibilità di poter lasciare il campo profughi.
Chi invece non ha fatto più ritorno da questo massacro è stato suo padre. Di lui, nessuno ha saputo più nulla. “Ho sentito molto la sua mancanza – confida Habimane -. Potete immaginare cosa significhi per un bambino di dieci anni crescere senza il padre. Tuttavia, ho cercato di abbracciare questa mia croce e di andare avanti.

La Chiesa, specialmente dopo il genocidio, è stata tutto per me. Senza la preghiera, la mia vita non avrebbe avuto nessun senso. Tutti i giorni dopo il genocidio non facevo altro che pregare. Era l’unica nostra consolazione.

Oggi mi chiedo spesso come avrebbe fatto mia mamma, diventata vedova da giovane, ad andare avanti senza la preghiera. Pregare era la sua forza, come quella di tante altre donne e orfani. Per noi significava avere un contatto con Dio: Lui ci ha fatto vivere tutto questo per un motivo che non abbiamo ancora compreso ma ci ha fatto anche sopravvivere. Non ci ha mai deluso, ci ha messo sulle spalle l’esperienza più brutta che l’essere umano possa vivere ma ci ha regalato anche la vita”.
Habimane sottolinea come la Chiesa si sia spesa molto anche dal punto di vista comunitario in Ruanda. Subito dopo il genocidio, racconta come siano state istituite nel Paese le Imiryangoremezo, comunità ecclesiali di base, luoghi di ritrovo e condivisione dove i sacerdoti aiutavano le persone a parlare. Attraverso il dialogo con i superstiti al massacro si è cercato di riallacciare la comunicazione con le mogli degli assassini con l’obiettivo di approcciare una sorta di rinnovata convivenza tra le due popolazioni. Un processo che dopo trent’anni Habimane affronta ancora dentro di sé. “I miei sentimenti dipendono dalle giornate. Mi capita a volte di vivere diversi momenti di pace e riconciliazione. Purtroppo in questi giorni, specialmente quando si avvicina l’otto aprile, l’ultimo giorno in cui ho visto mio padre, non nascondo come invece emerga in me la rabbia.

Mi è capitato di incontrare degli assassini pentiti dei loro crimini, oggi liberi in Ruanda. A volte, pur essendo vicini di casa, vorrei non rispondere ai saluti. Però so che bisogna andare avanti. Ormai tutto questo è successo. Devo poter riuscire a perdonare perché altrimenti ci si fa più male”.

Oggi Habimane racconta della tragedia del Ruanda ai suoi studenti, spesso gli chiedono di raccontare le sue esperienze. “I libri che ho scritto sul genocidio li ho pensati proprio per loro. Spesso si stupiscono. Loro faticano a raccontare i propri piccoli grandi dolori, mentre io mi presento a loro come un libro aperto. Capisco comunque che raccontare questa storia non è una passeggiata. Durante i primi sei anni in Italia non ne ho parlato mai con nessuno. L’ho fatto quando mi sono sentito pronto. Tanti, ancora oggi, non riescono ad aprire bocca. La lezione che possiamo trarre da questa vicenda è che un genocidio si può scatenare anche all’interno di uno stesso popolo. Anche qui, in Italia, bisogna stare attenti e vigilare e non ritenere che vicende di questo tipo siano solo degli eventi avvenuti tempo fa e lontani da noi. Questo massacro infatti è nato e cresciuto tra gente che fino a un determinato giorno non si odiava. Gente che si salutava tutte le mattine, che andava insieme a prendere l’acqua alla stessa fontana, gente che viveva e faceva tutto insieme. Dico questo perché da vent’anni vivo nella comunità italiana, e vedo anche tante divisioni tra gente che ha tutto in comune”.

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Giovani e droga a Roma: quei “vuoti di senso” che le organizzazioni criminali occupano con le sostanze

Roma capitale del narcotraffico con zone di spaccio spudorato, il consumo di stupefacenti in costante aumento e l’Mdma-ecstasy la “droga epidemica tra giovanissimi”. Sembrerebbero titoli sensazionalistici, ma è la cruda realtà emersa dal convegno “Giovani e droga a Roma” organizzato dalla diocesi, nell’aula magna del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre. Spaccato di una piaga sociale che fa affiorare il vuoto di senso che vivono i giovani, i quali credono di trovare in uno spinello la carica necessaria per affrontare la giornata di scuola, o in una pasticca la spinta utile per sentirsi leader del gruppo in discoteca.
Giovani con i quali ilprofessor Fabio Cannatà, dirigente scolastico dell’istituto superiore Ambrosoli di Centocelle, si relaziona tutti i giorni. Ha lavorato a Tor Bella Monaca, a San Basilio, quartieri noti per lo spaccio. Eppure dice che ciò che tutte le mattine lo stupisce a Centocelle “è vedere spudoratamente girare le sostanze già alle 7.15 del mattino” quando esce dalla metropolitana. Per il preside bisogna colmare quei “vuoti di senso” che i ragazzi avvertono e che le organizzazioni criminali sono pronte a riempire con le loro sostanze. Vorrebbe che “i giovani avessero un altro luogo dove poter trascorrere le ore pomeridiane – ha affermato -. Un luogo che dialoghi con la scuola e che a casa i genitori si sentano supportati”. Se avesse più personale ausiliario a disposizione vorrebbe anche una “scuola aperta fino al tardo pomeriggio” per offrire un’alternativa alla piazza perché “nessuno può farcela da solo”.
Della mancanza di luoghi di aggregazione ha parlato anche don Antonio Coluccia, vice parroco di San Filippo Apostolo, da anni impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata.

“A Roma – ha affermato – il narcotraffico è qualcosa di spaventoso. Per questo sono tante le piazze di spaccio, specie dove ci sono sacche di povertà abbandonate dallo Stato. Persone che non hanno nulla e che sono completamente assoggettate alle organizzazioni criminali. Mancano le alternative, manca una cultura della bellezza”.

Passiamo ai dati forniti da Antonio Bolognese, dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri di Roma e Provincia, responsabile scientifico del gruppo multidisciplinare di lavoro per la prevenzione, valutazione e divulgazione delle conseguenze prodotte dalla dipendenza di sostanze psicotrope. Il trend di consumo di sostanze che provocano dipendenze tra i giovani è “drammaticamente aumentato”, ha affermato analizzando i dati della relazione annuale presentata a giugno al Parlamento dal dipartimento delle politiche antidroga.
Tra il 2021 e il 2022, l’uso di cannabis nella fascia d’età tra i 15 e i 19 anni è aumentata dal 18,7 al 27,9%. Gli esperti stanno avviando una campagna di sensibilizzazione anche tra gli alunni delle 4° e 5° elementari. “Le organizzazioni che vogliono creare dipendenze si rivolgono a una fascia d’età sempre più giovane”, ha spiegato prima di sfatare i falsi miti sorti intorno ai cannabinoidi. Nell’incontro, moderato dalla giornalista Rai Francesca Ronchin, Bolognese ha infatti affermato che a differenza di quanto si pensi fanno parte delle droghe pesanti (rispetto agli anni ‘90 il livello del principio attivo Thc è cresciuto dal 3-5% al 20-25%), creano dipendenze e disturbi della personalità, compromettono la salute, anche quella mentale. Oltre a fumare gli spinelli i giovani fanno uso di pasticche. “A Roma l’Mdma-ecstasy è una droga epidemica tra giovanissimi”, ha rivelato Alessandro Vento, psichiatra dell’Asl Roma 2 e responsabile dell’osservatorio sulle dipendenze. Una droga, questa, che crea danni gravissimi e irreversibili sulla salute e solo se “la rete scientifica si associa con la scuola e la diocesi è possibile fare un grande lavoro di prevenzione”.

Il convegno è servito per “mettersi in ascolto di una situazione che conoscevamo per sommi capi – ha detto al termine dell’incontro il vescovo vicegerente Baldo Reina della diocesi di Roma -. La risposta della diocesi di Roma non è una risposta magica ma di attenzione a quello che accade intorno a noi”.

“Insisteremo sulla prevenzione, chiederemo ai nostri oratori e aggregazioni giovanili di fare in modo che i dati circolino perché i giovani hanno il diritto di crescere sani e di sapere cosa accade quando fumano uno spinello”.

Un primo passo è stato fatto già ieri, lunedì 16 ottobre. I promotori del convegno si sono incontrati per stabilire le attività da mettere in campo coinvolgendo “i prefetti di settore, i parroci, i formatori, le associazioni sportive – ha concluso il vescovo -. È l’inizio di un cammino che ci auspichiamo sia proficuo”. All’incontro, svoltosi nell’aula magna del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, hanno partecipato anche i vescovi ausiliari Benoni Ambarus, Dario Gervasi e Daniele Libanori. In quattro aule del dipartimento erano stati allestiti quattro stand informativi sulle attività operative già presenti sul territorio. Come la campagna di peer education, ossia educazione tra pari, promossa nei circoli sportivi e nelle scuole dal gruppo di lavoro scientifico dedicato alla prevenzione, alla valutazione e alla divulgazione delle conseguenze dell’uso della cannabis sulla salute mentale dei giovani. Statistiche e dati forniti ai giovani da altri giovani, loro pari appunto, con un linguaggio semplice e diretto. Anche perché i ragazzi vogliono essere più coinvolti e motivati. Lo ha detto Andrea, 19 anni, studente di un liceo musicale romano, il quale ha lamentato la mancanza di coinvolgimento a scuola: “I professori non sempre ci motivano o si preoccupano di destare il nostro interesse”.

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Dal Concilio al Sinodo. P. Magno: “Ogni battezzato è protagonista, serve inversione di rotta nel senso di comunione, missione e partecipazione”

“Se si fatica ancora a mettere a frutto le indicazioni del Concilio, è perché il processo avviato ha bisogno di tempi lunghi. Il Sinodo ecclesiale potrebbe accorciarli”. Padre Vito Magno, sacerdote rogazionista e giornalista, è l’autore del volume “Conversione sinodale” (San Paolo), nel quale ha raccolto le interviste realizzate in 50 anni di attività giornalistica alle più grandi personalità del dopo Concilio.

Mezzo secolo di interviste che aiutano a comprendere l’eredità del Concilio Vaticano II. A che punto siamo?
“Già e non ancora!”. Condivido l’eufemismo di mons. Luigi Bettazzi, l’ultimo dei Padri conciliari viventi, nell’intervista che introduce il libro. Molte cose si sono fatte in sessanta anni nel campo della liturgia, della carità, dell’ecumenismo, delle comunicazioni sociali, molte restano da fare in quello della Parola di Dio, dei ministeri ecclesiali e in particolare del coinvolgimento dei laici nella vita della Chiesa.

(Foto Rogazionisti)

Ha raccolto l’impressione di una Chiesa in uscita O si fatica ancora a mettere a frutto gli insegnamenti del Concilio e le indicazioni di Francesco?
Questo libro non è un album di ricordi, ma di testimonianze. Ho perciò raccolto le esperienze della “Chiesa in uscita” attraverso i racconti dei miei interlocutori. Se si fatica ancora a mettere a frutto le indicazioni del Concilio, è perché il processo avviato ha bisogno di tempi lunghi. Il Sinodo ecclesiale potrebbe accorciarli.

“Uscire” significa abbandonare un luogo chiuso per avventurarsi su nuove strade. Il post-concilio, che è stato ricco di pionieri in questo senso, non è stato un periodo vuoto.

“Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” dice un proverbio! Tra il Concilio e il Sinodo ecclesiale un consistente numero di “marinai” ha permesso alla barca di Pietro di navigare, nonostante le tempeste. Il libro è nato anche per non dimenticarli.

Nel volume troviamo uno spaccato del popolo di Dio: laici, religiosi, uomini, donne, santi e pontefici. C’è un filo conduttore che accomuna tante voci?
Sì, è la testimonianza di chi ha creduto che l’attuazione del Concilio era un bene per la Chiesa; di chi pur parlando lingue diverse, abitato in continenti diversi, affrontato situazioni diverse, si è fatto capire da tutti, perché il suo linguaggio è stato il più semplice da sempre, l’amore.

Perché è necessaria una “conversione sinodale”?
Perché, come dice Papa Francesco, nella Chiesa nessuno è una comparsa, ogni battezzato è protagonista. Questo concetto basilare, che troviamo nella costituzione conciliare Lumen Gentium, trova ostacoli nel clericalismo, nei formalismi, nell’autoreferenzialità.

La parola “conversione” suggerisce invece l’immagine di un’inversione di rotta nel senso della comunione, della missione e della partecipazione richieste dal Concilio Vaticano II. Un cammino, però, da fare non da soli, ma insieme agli altri, che è poi il senso del termine “sinodale”.

Si è appena chiusa la prima fase del Sinodo con la pubblicazione dell’Instrumentum laboris e, a ottobre, si aprirà la seconda. Nel documento si parla di “comunione, missione e partecipazione” come questioni prioritarie per affrontare temi quali gli abusi, i divorziati risposati, le persone Lgbtq+. E si chiede più spazio ai laici e alle donne, per una “sana decentralizzazione” nell’esercizio del primato…
È bene che dietro la spinta venuta, nei mesi scorsi, dalle assemblee diocesane del popolo di Dio e dalle Conferenze episcopali, tornino nel prossimo Sinodo argomenti scottanti.

Gesù ha detto di essere “la via, la verità e la vita”: la Chiesa non può nascondersi!

Aspettiamo di sapere cosa il Sinodo dirà in autunno sugli argomenti citati. Ciò che trovo positivo è che nel Documento di lavoro “non è stato messo il carro davanti ai buoi”! Si sono poste domande a cui i partecipanti al Sinodo – vescovi, sacerdoti, consacrati e laici – dovranno rispondere, con l’aiuto dello Spirito Santo. Vedremo!

Intanto che risposta ha trovato alla domanda che apre il suo libro: dove ci condurrà il Concilio?
Temo che continuerà a tormentarmi, pensando che nella storia molte indicazioni dei concili devono ancora essere messe in atto! Ma dalle interviste a protagonisti della Chiesa postconciliare ho capito una cosa: ogni cristiano è chiamato a fare la propria parte. Si era appena chiuso il Concilio quando a Madre Teresa di Calcutta chiesi da dove la Chiesa avrebbe dovuto cominciare ad attuarlo: “Amarsi gli uni gli altri come Dio ci ama – fu la risposta -. Fare tutto per Gesù. Dove c’è amore di Dio, c’è pace, c’è gioia, c’è unità”.

(Fonte: AgenSIR – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

VIVERE INTENSAMENTE IL REALE IL SENSO RELIGIOSO

Qual è il senso ultimo della vita? Di che cosa e per cosa è fatta la realtà? Perché c’è il dolore e la morte? Perché, in fondo, vale la pena vivere?

Di fronte a queste domande costitutive luomo, più si addentra nel tentativo di dare una risposta, più si rende conto di non essere capace di raggiugere da sé una spiegazione sensata. E allora assume continuamente atteggiamenti irragionevoli, svuotandole di significato o sminuendone il contenuto, fino a rischiare di perdere la possibilità di raggiungere il proprio destino, la propria libertà. Egli, infatti, può essere realmente libero solo se ammette l’esistenza in sé di qualcosa che è diretto rapporto con l’infinito.

E’ questo il senso religioso dell’uomo, un impatto continuo con la realtà che si impone e che non è fatta da lui. Una presa di coscienza del proprio “io” che dipende da un “tu” senza volto che la tradizione religiosa chiama “Dio”. Una verifica della fede vissuta come giudizio sulla realtà, capace di suscitare un’umanità piena, una ragione che resiste davanti agli assalti del tempo.                                  

Il senso religioso è il primo volume dell’opera educativa pubblicata tra il 1986 e il 1992 da Don Luigi Giussani (15 ottobre 1922 – 22 febbraio 2005), teologo, docente, educatore, scrittore e sacerdote fondatore del movimento di Comunione e Liberazione. In esso l’autore mette a tema le esigenze del cuore dell’uomo di qualsiasi tempo: il desiderio di verità, di bellezza, di giustizia e di felicità.

Esigenze alle quali si riesce a dare risposta solo vivendo intensamente il reale.

Stampato nella nuova edizione con prefazione di Jorge Maria Bergoglio, Il senso religioso sarà il testo di riferimento per la Scuola di Comunità di Comunione e Liberazione.

L’ evento di presentazione si terrà martedì 2 maggio 2023, alle ore 21.00, presso il Teatro SMODA in via E. Capone 3 a Sant’ Arpino (CE).

In collegamento dall’Italia e dal mondo, interverrà Javier PRADES, rettore dell’Università Ecclesiastica “San Dàmaso di Madrid nonchè professore ordinario di Teologia dogmatica.

Ad introdurre l’incontro, Davide PROSPERI, Presidente della Fraternità di Comunione e liberazione.

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