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'Se un uomo non ha il coraggio di difendere le proprie idee, o non valgono nulla le idee o non vale nulla l'uomo' (Ezra W.Pound)

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sanitario

Approvazione autonomia differenziata, un danno per la tenuta del Sistema Sanitario Regionale

La Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva il disegno di legge sull’autonomia differenziata. “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione”, questo il titolo del testo che era stato già licenziato dal Senato.
Si tratta di un provvedimento che rischia seriamente di aumentare il già marcato divario economico tra le regioni del nord e quelle del sud su temi di fondamentale importanza come la sanità, la scuola, i trasporti, la sicurezza sul lavoro, la ricerca scientifica, la tutela della salute e tanto altro ancora. E questo a causa dei criteri utilizzati per l’attribuzione dei fondi alle Regioni che con l’approvazione della Legge Calderoli avranno maggiore autonomia.
E proprio per queste ragioni, il definitivo licenziamento da parte dell’Aula della Camera dei Deputati della Legge sull’autonomia differenziata, preoccupa e non poco, medici e professionisti sanitari. “Oggi – ha dichiarato in merito all’agenzia Ansa il Prof. Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione Gimbe che nelle settimane scorse è intervenuto ad un convegno organizzato sul tema dall’Ordine Interprovinciale dei Fisioterapisti di Napoli, Avellino, Benevento e Caserta – siamo davanti ad una ‘frattura strutturale’ Nord-Sud che compromette qualità dei servizi sanitari, equità di accesso, esiti di salute e aspettativa di vita alla nascita, alimentando un imponente flusso di mobilità sanitaria dal Sud al Nord. E La legge sull’autonomia differenziata non potrà che amplificare le diseguaglianze già esistenti in sanità.
L’autonomia differenziata anzi – sottolinea – Cartabellotta -, renderà il Mezzogiorno ancora più dipendente dalle ricche Regioni del Nord, che a loro volta rischiano di peggiorare la qualità dell’assistenza per i propri residenti, perché non potranno aumentare in maniera illimitata la produzione di servizi e prestazioni sanitarie a favore dei ‘migranti della salute’”. Secondo il Presidente Gimbe, inoltre, “Oggi è stato dato anche il colpo di grazia al Servizio Sanitario Nazionale, pilastro della nostra democrazia e strumento di coesione sociale, per un machiavellico ‘scambio di cortesie’ tra le forze politiche di maggioranza”.
Sulla stessa lunghezza d’onda di Cartabellotta anche il Presidente dell’Ordine dei Fisioterapisti di Napoli, Avellino, Benevento e Caserta, Dott. Paolo Esposito, che ha dichiarato: “Sin dall’insediamento del nostro Ordine abbiamo espresso grande preoccupazione circa la proposta di autonomia differenziata che ora, diventando legge, rischia di disgregare ulteriormente il Servizio Sanitario Nazionale, oltre a mettere a rischio la tenuta di quello regionale. Inoltre, nel prossimo futuro è più che concreto il rischio che alcune regioni abbiano meno fondi disponibili rispetto ad altre creando, così, per cittadini italiani a seconda della regione in cui risiedono, le condizioni per una diversa qualità dell’offerta sanitaria. Gino Strada amava sottolineare che ‘Un diritto o lo è per tutti o non è un diritto ma un privilegio. Ecco, non vorremmo che il fondatore di Emergency fosse stato facile profeta anche in questo caso”.

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S. Maria C. Vetere. Arrestato operatore socio sanitario: voleva introdurre nel carcere stupefacente e strumenti di comunicazione

Nell’ambito della costante attività congiunta posta in essere dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, sotto le direttive del Procuratore Capo, Pierpaolo Bruni, d’intesa con la Direzione e con la Polizia Penitenziaria del Carcere di Santa Maria Capua Vetere, finalizzata alla repressione della cessione di stupefacenti e all’ingresso di strumenti di comunicazione nella citata struttura carceraria, si è dapprima proceduto al sequestro di un panetto di hashish pari a grammi 98 circa, 39 micro cellulari,  6 smartphone, un telefono di colore nero, 5 spine carica batteria completi di cavi Usb e 2 schede Sim Card.

All’esito della successiva attività investigativa sì procedeva, altresì, all’arresto di un operatore socio sanitario, in servizio presso l’istituto sammaritano, in quanto sorpreso nell’atto di introdurre in carcere: 40 cavetti Usb, 3 spine carica batteria completi di cavi Usb, 7 auricolari, 4 smartphone. I micro smartphone e 2 schede sim card, occultati nel proprio vestiario.

L’attività investigativa proseguiva con una perquisizione domiciliare a casa dell’operatore socio sanitario, nel corso della quale venivano rinvenuti: somma di Euro 1,200, un micro cellulare, 12 smartphone. 10 spine caricabatterie, 12 cavetti usb, un bilancino di precisione.

(Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

Open day al Consultorio del Distretto Sanitario di Santa Maria Capua Vetere

Oggi dalle ore 8.30 alle ore 13.00 Open day al Consultorio del Distretto Sanitario 21 di Santa Maria Capua Vetere ubicato in Via Mazzocchi. Senza prenotazione e senza impegnativa medica sarà possibile effettuare lo screening gratuito per la prevenzione del tumore del collo dell’utero, Pap Test, HPV Test per le donne dai 25 ai 64 anni. Inoltre per le ragazze ed i ragazzi fino a 18 anni è possibile ricevere la vaccinazione HPV. Il tutto gratuitamente. La giornata di prevenzione è organizzata dall’Azienda Sanitaria Locale di Caserta e rientra nel programma “Il tuo incontro con la salute!”.

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Servizio sanitario nazionale. Turati (Un. Cattolica): “Manca il dibattito su come si vogliono davvero spendere le risorse”

“Dal punto di vista finanziario non si può dire che si sia tagliato. Non è discutendo se la spesa in termini reali, scontando l’inflazione, sia più o meno quella del passato che risolviamo i problemi. Quello che mi sembra continui a mancare è il dibattito su cosa si vuole davvero fare con le risorse che abbiamo”. Così Gilberto Turati, professore ordinario di Scienza delle Finanze all’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove coordina la laurea magistrale in Management dei Servizi e tiene seminari nell’ambito dei programmi di formazione dell’Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi sanitari (Altems), commenta al Sir il contenuto dell’appello diffuso nei giorni scorsi da quattordici personalità del mondo della scienza e della ricerca a difesa del Servizio sanitario nazionale.

Professore, partiamo dall’aspetto finanziario. Vengono chieste più risorse per salvare il Servizio sanitario nazionale…
La prima questione che viene posta è quella del sottofinanziamento al Ssn, al quale si prevede di destinare il 6,2% del Pil nel 2025, una percentuale inferiore a quella destinata alla sanità da altri Paesi europei come Francia e Germania.

Posto che nessuno sarebbe contrario ad aumentare la spesa per la sanità pubblica, il tema è da dove si recuperano le risorse. Sarebbe interessante chiedere agli italiani se siano d’accordo ad introdurre qualche nuova imposta per questo fine. Oppure a tagliare qualche altra spesa o combattere seriamente l’evasione fiscale.

Tra gli interrogativi posti nell’appello ce n’è uno che riguarda modernità ed adeguatezza delle strutture. Cosa pensa
I fondi per ammodernare le strutture e il loro parco tecnologico li ha previsti il Pnrr. La diatriba di questi giorni tra Governo e Regioni è proprio su questo; ed è giusto che si faccia chiarezza. Poi, mi lasci dire che in alcuni casi è da 20 anni che si discute sulla realizzazione di qualche nuovo ospedale senza addivenire ad una conclusione; dobbiamo attenderne altri 20 perché inizi a muoversi qualcosa

Altro punto messo in evidenza è quello della continuità assistenziale…
Sono ovviamente totalmente d’accordo che

non sia più procrastinabile la realizzazione di una continuità assistenziale tra ospedale e cure territoriali e domiciliari; ma da quanti anni ci stiamo dicendo che serve migliorare i servizi territoriali?

Il “decreto Balduzzi” è una riforma del 2012: perché non ci siamo ancora riusciti? È un problema di risorse, di organizzazione o di volontà politica Le categorie che saranno inevitabilmente toccate da queste riforme sono d’accordo a procedere in questa direzione? Perché, se non sono d’accordo diventa difficile.

I medici di base accettano la sfida di essere i protagonisti della sanità territoriale e sono pronti a popolare le Case della comunità?

Nell’appello si afferma che “l’autonomia differenziata rischia di ampliare il divario tra Nord e Sud d’Italia in termini di diritto alla salute”. Sarà così?

Penso che il problema dell’autonomia differenziata sia soprattutto quello di una possibile confusione normativa, di un Paese “arlecchino” con venti autonomie speciali. Per come è stata disegnata nelle ultime versioni del decreto, rischi che il Paese si disgreghi sembrano non vedersene, alla luce del fatto che la partita finanziaria è fortemente influenzata dall’assenza di qualsiasi imposta a livello locale e i soldi continuerà a darli lo Stato centrale.

È una autonomia “monca”: a differenza di quanto avvenne negli anni ‘90 quando vennero introdotte Irap e addizionale Irpef per cercare di finanziare con imposte regionali il sistema, adesso di imposte locali non parla più nessuno. La mia impressione è che l’attivazione dell’autonomia differenziata sia stata la risposta delle Regioni (di alcune, in particolare, come Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto) rispetto all’inazione del governo nazionale di fronte alle loro richieste legittime (visto che rispettavano il mandato dei Lea e avevano i bilanci in ordine), per esempio in termini di personale.

Nel periodo della pandemia sembrava essere diventato patrimonio comune l’esigenza che sulla sanità bisognasse intervenire. Come Paese ce ne siamo già dimenticati?

Non credo che sia diffusa la percezione di alcune difficoltà del sistema, se non per la questione dei tempi di accesso. Aspetto sul quale tutti sono preoccupati.

Però, mi lasci dire, sarebbe utile avere i dati che ci spiegano di quanto siamo in ritardo rispetto al recupero delle prestazioni perse con la pandemia. Quali sono i numeri? Qual è la reale situazione? Per esempio, magari in lista d’attesa figurano persone che nel frattempo sono decedute o hanno già comprato il servizio dal privato. Le Regioni hanno pulito le liste d’attesa Perché se non abbiamo questa informazione è impossibile parlarne. La mia impressione è che ci siano molte differenze anche nella gestione di questo aspetto. Su tutte le altre questioni,

forse c’è interesse solo se sono a rischio chiusura i piccoli ospedali che sono rischiosi. E al posto di arrabbiarsi, la gente dovrebbe chiedere alla politica di chiarire come fare a raggiungere l’ospedale più grande e più sicuro che non è più sotto casa ma magari in un’altra città.

Un’ultima domanda sulla qualità della spesa sanitaria. È efficace ed efficiente?
A parità di risorse,

gli outcome in termini di raggiungimento dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) sono drammaticamente diversi. Segno che la spesa è gravata da inefficacia e inefficienza.

Peraltro sono anni che sappiamo che alcune Regioni non ce la fanno ad arrivare ad un certo standard di servizio; la domanda è: quali sono le politiche che si vogliono mettere in atto per aiutare le Regioni che faticano a raggiungere gli standard? In altri termini: come riorganizzare i sistemi in quelle Regioni per consentire anche a queste di migliorare il servizio? Altro segno dell’inefficienza sono i pazienti che “scappano” da alcuni ospedali: cosa non funziona E, soprattutto, in questi ospedali cosa si fa per evitare che la gente scappi? Se abbiamo una struttura che nessuno usa la Regione paga due volte: per gli stipendi dei dipendenti dell’ospedale che nessuno usa e per rimborsare l’ospedale fuori Regione che ha fornito davvero il servizio. Per queste ragioni

dovremmo attivare processi di revisione della spesa che ci consentano di spendere meglio.

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Servizio sanitario nazionale. Viglietti (Comitato Settimane sociali): “Un bene da preservare e una grande responsabilità”

Il Servizio sanitario nazionale (Ssn) “è in crisi e fortemente sottofinanziato”; “il pubblico arretra, e i cittadini sono costretti a rinviare gli interventi o indotti a ricorrere al privato”. E ancora: “La spesa sanitaria in Italia non è grado di assicurare compiutamente il rispetto dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) e l’autonomia differenziata rischia di ampliare il divario tra Nord e Sud d’Italia in termini di diritto alla salute”. Per questo, in Italia, “la vera emergenza è adeguare il finanziamento del Ssn agli standard dei Paesi europei avanzati (8% del Pil), ed è urgente e indispensabile, perché un Ssn che funziona non solo tutela la salute ma contribuisce anche alla coesione sociale”. Questo l’appello – articolato attorno a 10 interrogativi – lanciato nei giorni scorsi da quattordici personalità del mondo della scienza e della ricerca a difesa del Servizio sanitario nazionale. Delle questioni sollevate abbiamo parlato con il dottor Mario Viglietti, medico di medicina generale e membro del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane sociali dei cattolici in Italia.

“Il nostro – ricorda – è un servizio sanitario che è un unicum mondiale ed è ovviamente un bene da preservare contro qualsiasi pretesa che viene avanzata da un sistema privato crescente”.

Il Ssn, sottolinea subito anche in qualità di operatore,

“è un grande dono ma è anche una grande responsabilità, perché implica il senso di partecipazione della cosa pubblica, il senso di comunità e, dunque, di responsabilità”.

Viglietti individua come principale criticità il fatto che “la gestione della cosa pubblica è data attraverso una nomina politica, che in alcuni casi può risultare essere virtuosa e in altri casi no”. Diversi sono gli esempi nei quali “non necessariamente si tiene conto di competenze o meriti”. Ma – ammonisce “la sanità è un bene da tutelare a prescindere da quello che è il governo pro-tempore;

la salute delle persone è un bene primario e andrebbe gestito da chi ne ha competenze”.

Questo, osserva, “il privato lo sa fare; evitando gli sprechi riesce ad offrire servizi migliori e risulta essere più performante per il paziente contribuendo alla drastica riduzione delle liste d’attesa”. “Ma – prosegue nel ragionamento – bisogna cercare un giusto equilibrio per evitare di drenare troppe risorse pubbliche verso il sistema privato”. Di fronte a questa situazione, sostiene Viglietti,

“è necessario un grande senso di responsabilità a tutela del Servizio sanitario nazionale” che chiama in causa tutti: politica, dirigenza, operatori sanitari e cittadini/utenti. Invece, rileva, “non c’è una cultura, né politica né sociale, orientata al bene comune. In molti pensano che la sanità pubblica sia un rubinetto al quale poter attingere in continuazione”.

Sistemi sanitari mutualistici, come il Bismarck in Germania, o quelli assicurativi privati, come negli Stati Uniti o in Africa, “considerato da un lato il livello della disoccupazione e dall’altro quello di redditi poco elevati, in Italia non garantirebbero le cure necessarie a tutta la popolazione”. “Francamente – afferma – ancora inorridisco pensando a quanto ho visto in Ghana dove si assiste a bambini che muoiono fuori gli ospedali perché le famiglie non possono pagare la prestazione o non viene portato il cedolino dell’assicurazione”. Verso il nostro Servizio sanitario “c’è un clima di sfiducia generale, dovuto al fatto che – spiega – le risorse mancano ma manca anche l’ideale”. E se per un verso “è capitato anche a me di essere vessato non solo verbalmente ma anche fisicamente dai pazienti”, dall’altro “il personale sanitario deve scegliere se credere o meno nell’attuale Servizio sanitario nazionale. Purtroppo la soddisfazione della sola professione non è sufficiente a ripagare il carico di lavoro richiesto. Forse, se venissero aumentati i compensi, che sono abbondantemente inferiori alla media europea e dei Paesi più sviluppati, anche i medici ci crederebbero un pochino di più”. Viglietti insiste poi sull’importanza che ha “la volontà di responsabilità, partecipazione e, dunque, di protagonismo della nostra società.

Anche dall’utenza deve partire la richiesta che si evitino gli sprechi, aspetto sul quale, ovviamente, la gestione deve essere più oculata”.

Per il medico

“il Ssn è veramente un bene impagabile e, certo, sarebbe una grande sconfitta se questo Paese demolisse una delle cose migliori che può vantare e che non ha nessun eguale al mondo”.

Questo però non toglie che, ribadisce, “vadano fatte necessariamente delle scelte un pochino più audaci e più severe nella gestione per ridurre i tanti sprechi; bisognerebbe chiedersi, per esempio, se il trattamento previsto – a parità di efficacia – è quello che mi fa sprecare di meno?”.
Viglietti si dice preoccupato per l’impatto dell’autonomia differenziata in sanità: “Andrà a danneggiare quelle che sono le Regioni già sfavorite – evidenzia –, dove nonostante ci sia un personale sanitario a tutti i livelli e in tutti gli ambiti di estremo valore e capacità, il servizio offerto è inevitabilmente limitato da deficit strutturali e strumentali”.

“L’autonomia differenziata – continua – tenderà a far aumentare il divario già in essere tra Regioni. Questo farà sì che, soprattutto al Sud, sempre meno pazienti si cureranno nella propria Regione, ma sceglieranno di andare altrove dove gli sarà garantito un servizio migliore. Alla lunga, questo potrà determinare anche un esodo del personale perché – nonostante il legame con il proprio territorio e la volontà di spendersi per la propria terra – diventeranno più attrattive quelle Regioni che saranno in grado di pagare il personale sanitario molto meglio di altre”.

Il tema della salute, ricorda in conclusione Viglietti, sarà uno di quelli affrontati nelle “Piazze della democrazia” che si terranno a Trieste, durante i lavori della 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia (3-7 luglio 2024). Significativo, sottolinea, il titolo “Curare i diritti di tutti”, scelto “proprio per rimarcare l’importanza di tutelare il nostro Servizio sanitario nazionale, per far sì che ogni persona riceva le cure migliori, quindi quelle più efficaci, a prescindere dal proprio ceto di appartenenza e dalla propria condizione sociale”. “La verità – chiosa – è che

invece di abbandonare il nostro Servizio dovremmo fare in modo che si estendesse a sempre più Paesi nel mondo”.

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Da Garattini a Parisi, il grido di allarme: “Il Servizio sanitario è in crisi tra difficoltà di cura e diseguaglianze. Serve piano di finanziamento straordinario”






 

Da Garattini a Parisi, il grido di allarme: “Il Servizio sanitario è in crisi tra difficoltà di cura e diseguaglianze. Serve piano di finanziamento straordinario”

Da Garattini a Parisi, il grido di allarme: “Il Servizio sanitario è in crisi tra difficoltà di cura e diseguaglianze. Serve piano di finanziamento straordinario”

 

Da tempo scienziati e ricercatori si affannano a evidenziare l’essenzialità del Servizio sanitario nazionale. Un pilastro – a cui servirebbero 15 miliardi per allinearsi all’Unione europea – e che vede il settore privato sempre più foraggiato. “Non possiamo fare a meno del servizio sanitario pubblico”. Ma “oggi i dati dimostrano che è in crisi: arretramento di alcuni indicatori di salute, difficoltà crescente di accesso ai percorsi di diagnosi e cura, aumento delle diseguaglianze regionali e sociali“. Molto “si può e si deve fare sul piano organizzativo, ma la vera emergenza è adeguare il finanziamento del Servizio sanitario nazionale agli standard dei Paesi europei avanzati (8% del Pil). Ed è urgente e indispensabile, perché un Ssn che funziona non solo tutela la salute, ma contribuisce anche alla coesione sociale”. È l’appello a difesa della sanità pubblica di 14 tra i più importanti scienziati italiani, tra i quali il premio Nobel per l Fisica Giorgio Parisi, il farmacologo Silvio Garattini, il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli, l’immunologo Alberto Mantovani.

“Dal 1978, data della sua fondazione, al 2019 il Ssn in Italia ha contribuito a produrre il più marcato incremento dell’aspettativa di vita (da 73,8 a 83,6 anni) tra i Paesi ad alto reddito”, si legge nel documento che sottolinea come oggi il sistema sia invece in crisi. “Questo accade perché i costi dell’evoluzione tecnologica, i radicali mutamenti epidemiologici e demografici e le difficoltà della finanza pubblica hanno reso fortemente sottofinanziato il Ssn, al quale nel 2025 sarà destinato il 6,2% del Pil (meno di vent’anni fa). Il pubblico garantisce ancora a tutti una quota di attività (urgenza, ricoveri per acuzie), mentre per il resto (visite specialistiche, diagnostica, piccola chirurgia) il pubblico arretra, e i cittadini sono costretti a rinviare gli interventi o indotti a ricorrere al privato”. Continuare “su questa china, oltre che in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione, ci spinge verso il modello Usa – avvertono i firmatari – terribilmente più oneroso (spesa complessiva più che tripla rispetto all’Italia) e meno efficace (aspettativa di vita inferiore di 6 anni).

“La spesa sanitaria in Italia non è grado di assicurare compiutamente il rispetto dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) e l’autonomia differenziata rischia di ampliare il divario tra Nord e Sud d’Italia in termini di diritto alla salute. È dunque necessario un piano straordinario di finanziamento del Ssn e specifiche risorse devono essere destinate a rimuovere gli squilibri territoriali. La allocazione di risorse deve essere accompagnata da efficienza nel loro utilizzo e appropriatezza nell’uso a livello diagnostico e terapeutico, in quanto fondamentali per la sostenibilità del sistema”.

Per i 14 scienziati, il Servizio sanitario nazionale “deve recuperare il suo ruolo di luogo di ricerca e innovazione al servizio della salute. Parte delle nuove risorse deve essere impiegata per intervenire in profondità sull’edilizia sanitaria, in un Paese dove due ospedali su tre hanno più di 50 anni e uno su tre è stato costruito prima del 1940. Ma il grande patrimonio del Ssn è il suo personale: una sofisticata apparecchiatura si installa in un paio d’anni, ma molti di più ne occorrono per disporre di professionisti sanitari competenti, che continuano a formarsi e aggiornarsi lungo tutta la vita lavorativa. Nell’attuale scenario di crisi del sistema, e di fronte a cittadini/pazienti sempre più insoddisfatti, è inevitabile che gli operatori siano sottoposti a una pressione insostenibile che si traduce in una fuga dal pubblico, soprattutto dai luoghi di maggior tensione, come l’area dell’urgenza“.

È evidente che “le retribuzioni debbano essere adeguate, ma è indispensabile affrontare temi come la valorizzazione degli operatori, la loro tutela e la garanzia di condizioni di lavoro sostenibili. Particolarmente grave è inoltre la carenza di infermieri (in numero ampiamente inferiore alla media europea). Da decenni si parla di continuità assistenziale (ospedale-territorio-domicilio e viceversa), ma i progressi in questa direzione sono timidi. Oggi il problema non è più procrastinabile: tra 25 anni quasi due italiani su cinque avranno più di 65 anni (molti di loro affetti da almeno una patologia cronica) e il sistema, già oggi in grave difficoltà, non sarà in grado di assisterli”. Basti pensare che in 10 anni dimezzato il numero di chi si iscrive al test per infermieri.

Infine, rimarcano i firmatari, “la spesa per la prevenzione in Italia è da sempre al di sotto di quanto programmato, il che spiega in parte gli insufficienti tassi di adesione ai programmi di screening oncologico che si registrano in quasi tutta Italia. Ma ancora più evidente è il divario riguardante la prevenzione primaria; basta un dato: abbiamo una delle percentuali più alte in Europa di bambini sovrappeso o addirittura obesi, e questo è legato sia a un cambiamento – preoccupante – delle abitudini alimentari sia alla scarsa propensione degli italiani all’attività fisica. Molto va investito, in modo strategico, nella cultura della prevenzione (individuale e collettiva) e nella consapevolezza delle opportunità, ma anche dei limiti della medicina moderna”. A firmare il documento anche: Ottavio Davini, Enrico Alleva, Luca De Fiore, Paola Di Giulio, Nerina Dirindin, Francesco Longo, Lucio Luzzatto, Carlo Patrono, Francesco Perrone, Paolo Vineis.

FONTE:

 

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

Il sistema sanitario inglese interrompe l’uso dei farmaci bloccanti della pubertà. Dippe: “Possono provocare seri problemi di salute”

Una decisione storica che, soltanto fino a qualche anno fa, sarebbe stata impensabile. “Nhs England”, il sistema sanitario pubblico inglese, ha deciso, qualche giorno fa, di interrompere l’uso dei farmaci bloccanti della pubertà (come la triptorelina) per bambini e minori che soffrono di disforia di genere in centri specializzati e autorizzati dallo Stato. Un dietrofront molto significativo se pensiamo che, per anni, presso la Clinica Tavistock di Londra, a centinaia di minori, alcuni anche soltanto di 10 o 11 anni, è stato consentito di avviare il processo per cambiare genere, senza che venissero loro garantite sessioni di counselling, cioè aiutare chi ne ha bisogno a prendere decisioni riguardo scelte di carattere personale. Per capire le ragioni di questa inversione di marcia abbiamo intervistato Tim Dieppe, responsabile delle politiche di “Christian Concern”, una delle più importanti realtà (charities) del movimento per la vita.

Come mai questa decisione?
Nel 2022, il governo britannico aveva affidato una commissione d’indagine a Hilary Cass, pediatra di fama, il cui lavoro, a differenza di quanto sostenuto da più parti, aveva evidenziato che non c’erano state sufficienti ricerche sui farmaci bloccanti della pubertà e in particolare sugli effetti irreversibili su chi ne fa uso. L’inchiesta si era conclusa con la richiesta di chiusura della clinica Tavistock che li somministrava, troppo facilmente, a pazienti molto giovani incerti sulla loro identità sessuale. Lo sviluppo sessuale veniva, così, bloccato per consentire ai giovani di scegliere il sesso che volevano. Un approccio sbagliato secondo la commissione Cass perché, nella grande maggioranza dei casi, questa incertezza sulla propria identità sessuale non persisteva nell’adolescenza. Interpretare quindi questa ambiguità come prova che i minori dovevano cambiare sesso produceva, sempre secondo la commissione, conseguenze devastanti e irreversibili se si introducevano bloccanti ormonali e operazioni chirurgiche come la mastectomia.

Perché non va bene prescrivere i bloccanti ormonali?
Perché disturbano la pubertà, che è un processo naturale, possono provocare seri problemi di salute e i minori, di solito, non sono consapevoli di questi effetti. Una percentuale tra l’80% e il 90% dei bambini e adolescenti, che soffre di disforia di genere, esce da questa incertezza proprio grazie alla pubertà. Durante questa fase infatti si accorgono che non possono combattere contro la natura o il loro corpo.

Vi sono stati anche casi famosi come quello di Keira Bell.
Si. La storia di questa sedicenne, ricorsa ai giudici sostenendo che la Tavistock le aveva prescritto bloccanti ormonali per consentirle una mastectomia, senza però darle le necessarie sessioni di counselling che le avrebbero consentito di capire fino in fondo il valore della sua fertilità. Una storia emblematica che ha contribuito alla decisione presa dal governo. Inoltre the “World Professional Association for Transgender Health”, “Associazione Professionale Mondiale per la Salute dei Transgender”, che studia la disforia di genere, ha denunciato che i bloccanti ormonali possono dare problemi alla salute e provocare il cancro e che i minori, spesso, non capiscono l’impatto che possono avere sulla loro fertilità. Il volume “Time to think”, “Tempo di pensare”, di Hannah Barnes, dedicato proprio alla clinica “Tavistock”, ha denunciato come il 99% di chi prende I bloccanti ormonali poi procede sulla strada del cambiamento di sesso. Insomma esiste un’accelerazione del processo di cambiamento di genere, senza che vi sia tempo per pensare.

Perché l’approccio era cosi liberale prima delle nuove restrizioni?
Perché i medici della “Tavistock” erano preoccupati che sarebbero stati accusati di seguire terapie di conversione, che sono proibite, se non avessero consentito ai minori l’accesso ai bloccanti ormonali. L’opinione pubblica poi è rimasta scioccata dall’idea che ragazzi giovanissimi, in pochi appuntamenti, potevano ottenere bloccanti ormonali. Questi ultimi, tuttavia, non sono completamente banditi ma sono disponibili a pagamento e, spesso, vengono offerti in via sperimentale ai minori. Molti genitori insistono perché i figli possano approfittarne, se sono convinti che i figli abbiano bisogno di cambiare sesso.

 

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Caserta – Roma. Morto a 13 anni per omessa diagnosi tumorale, indagati medici e personale sanitario

Lo Studio associati Maior annuncia l’avvio di indagini sulla morte prematura del giovane P.C. e la possibile responsabilità del personale ospedaliero coinvolto.

È con profondo dolore che la famiglia di P.C. e lo Studio Associati Maior annunciano che la Procura ha iscritto nel registro degli indagati medici e personale sanitario delle strutture ospedaliere di Caserta e Roma, a seguito della tragica morte del giovane ragazzo di soli 13 anni, avvenuta a causa di un’omessa diagnosi tumorale.

Il giovane P.C. ha sofferto di dolori incontrollabili al ginocchio, ma purtroppo una diagnosi tumorale è stata omessa, privandolo della possibilità di ricevere cure tempestive che avrebbero potuto salvargli la vita.

Lo Studio Associati Maior – composto dagli Avvocati Michele Francesco Sorrentino, Pierlorenzo Catalano e Filippo Castaldo, insieme al medico-legale Dott. Marcello Lorello – incaricato dalla famiglia del giovane per affrontare gli aspetti penalistici e civilistici di questa tragica vicenda, esprime profonda tristezza e determinazione nell’ottenere giustizia per P.C.

La nostra azione legale sta iniziando a produrre i suoi primi risultati, con diverse persone indagate per omicidio colposo e falsificazione di cartella clinica“, afferma lo Studio Associati Maior. “La Procura di Macerata sta conducendo un’indagine scrupolosa e approfondita. Attendiamo con fiducia gli esiti delle indagini“.

La famiglia di P.C., devastata dal dolore, chiede giustizia ma rimane fiduciosa nel sistema giudiziario.

Non ci arrenderemo“, dichiara la famiglia. “Lo dobbiamo a nostro figlio“.

Questa è una pagina dolorosa di malasanità che coinvolge ospedali in diverse regioni d’Italia, e una storia che deve essere raccontata. Lo Studio Associati Maior e la famiglia di P.C. continueranno a lottare per garantire che la tragedia del giovane non sia stata vana e che giustizia sia fatta.

(Nicola Arpaia – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

Carenza di personale sanitario. Patriarca (FI): sì all’estensione degli incentivi per i ‘medici in fuga’

La deputata firmataria del Question time: “L’apertura del ministro Schillaci è una buona notizia.

L’estensione degli incentivi fiscali, previsti per ‘cervelli in fuga’ che ritornano a lavorare e a vivere in Italia, anche a medici e infermieri che hanno deciso di lasciare il nostro Paese, è la strada giusta per affrontare la grave crisi della carenza di organici nella sanità. Ringrazio il ministro della Salute, Orazio Schillaci, per aver colto con sensibilità e attenzione questo tema sollevato nel mio ultimo question time alla Camera, e per aver condiviso la fattibilità di tale possibile soluzione”.

A dirlo è Annarita Patriarca (Forza Italia), componente dell’ufficio di presidenza della Camera dei deputati e membro della commissione Affari sociali, firmataria del Question time sulla “fuga dei cervelli” dall’Italia.

L’attuale regime, applicabile a docenti e ricercatori che si stabiliscono in Italia, prevede uno sconto del 90% sull’imponibile Irpef – ha aggiunto – e può essere certamente ampliato anche agli operatori sanitari che, nel tempo, hanno scelto di esercitare la professione in un Paese straniero, soprattutto in Medio Oriente. Parliamo, come ha ricordato il ministro Schillaci, di oltre 31mila professionisti in vent’anni.

Donne e uomini che si sono formati nei nostri Atenei e che, per varie ragioni, legate alle prospettive di carriera e alle occasioni di crescita professionale, hanno portato altrove la loro competenza e la loro conoscenza”.

(Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

“Riportare in Italia i nostri medici – ha concluso l’esponente di Forza Italia – attraverso agevolazioni fiscali, peraltro già previste per altre categorie di lavoratori, significa non solo recuperare competenze scientifiche di altissimo profilo ma anche ricostruire gli organici delle strutture sanitarie e ospedaliere che negli anni si sono impoveriti migliorando così l’offerta sanitaria del nostro Paese”.

Giornata del malato. Don Angelelli: “Recuperare la dimensione relazionale della cura ripensando il sistema sanitario”

“’Non è bene che l’uomo sia solo’. Curare il malato curando le relazioni” è il tema del Messaggio di Papa Francesco in occasione della XXXII Giornata mondiale del malato che ricorre l’11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes. Ne parliamo con don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei.

Quest’anno il Papa si sofferma sull’importanza delle relazioni, attribuendo ad esse un valore terapeutico. Perché questa sottolineatura

Credo sia una delle eredità del Covid, evento sanitario che ha coinvolto le popolazioni ma avuto molti effetti collaterali, tra cui quello che è passato alla storia come isolamento sociale. Il distanziamento, pur necessario per il contenimento dei contagi, ha di fatto costituito una grave violenza alle nostre vite. Per questo Francesco si rende conto che esiste una ferita da sanare proprio nelle relazioni, dimensione insita nel cuore di ogni persona. Con il Covid si è scoperto quello che almeno noi dal punto di vista sanitario sapevamo:

la componente relazionale è componente di cura a tutti gli effetti.

foto SIR/Marco Calvarese

Il Papa parla di relazioni del malato “con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari – con il creato, con sé stesso”. Quindi invita a prendersi cura della persona malata nella sua inscindibile totalità di componenti fisico-biologica, emotiva, ma anche spirituale.

È proprio così. Secondo la magnifica definizione del card. Sgreccia,

la persona è una totalità unificata di corpo, mente e spirito.

Ma in questi decenni il sistema di cura ha perso di vista questa totalità e si è concentrato quasi esclusivamente sulla dimensione biologica, sul corpo, sulla patologia da combattere. Ma la patologia non esiste a prescindere dalla persona. Quindi un sistema di cura integrale, come vuole essere il sistema di cura, deve prendere in carico anche la dimensione psichica e spirituale. Luca Argentero, nella terza serie della fiction “Doc – Nelle tue mani” in onda in questi giorni, parlando in una scena con un suo specializzando, fa dire al suo personaggio, il dottor Fanti:

“Se noi curiamo solo il corpo della persona, la curiamo al 50%”.

Io sono perfettamente d’accordo. Occorre recuperare l’asse portante della cura che è la relazione.

Il Papa mette in guardia dalle cure ridotte e mere prestazioni sanitarie e sottolinea il bisogno di una vicinanza piena di compassione e tenerezza sul modello del Buon samaritano, capace di “rallentare il passo e farsi prossimo”. Affermazione bellissima e ricca di significato, ma poco praticabile: come si fa oggi a rallentare il passo in ospedali e ambulatori dove l’attività è scandita da ritmi frenetici?

Ci troviamo a fare i conti con un importante scollamento tra l’erogazione delle prestazioni e la cura. In alcuni casi riusciamo a curare i pazienti, in molti casi anche a guarirli, ma non riusciamo a farli sentire curati. La persona riceve la prestazione, ma non si sente curata, perché quest’ultima dimensione appartiene al tema delle relazioni. Non abbiamo tempo, perché il sistema è compresso sul concetto di prestazione. Non a caso rileviamo una grande fatica, anche professionale, da parte dei curanti – medici e infermieri – profondamente insoddisfatti perché si sentono “distributori di prestazioni” mentre sono nati per relazionarsi con il paziente e avviare un percorso di cura. Argentero cita anche una mia affermazione: “Noi siamo persone che curano persone”. Insomma,

occorre recuperare la dimensione umano-relazionale della cura.

Bisogna andare verso un sistema che permetta questo, ma occorre avere un numero sufficiente di curanti che si possano relazionare con un numero adeguato di pazienti.

Sono invece davanti agli occhi di tutti le immagini di Pronto soccorso congestionati, file d’attesa interminabili, cronica carenza di medici e infermieri costretti a turni massacranti, risorse finanziarie inadeguate… Oltre al modello di cura è in crisi il rapporto di fiducia medico-paziente, come dimostrano la medicina difensiva e le continue aggressioni ai sanitari.

Questo è il nodo fondamentale. Abbiamo un servizio sanitario che funziona, e funziona bene. Eroga molte prestazioni. Potrebbe funzionare meglio? Certo, ci sono delle distorsioni, lo sappiamo, però si tratta di un sistema che fondamentalmente tiene, ma la sfiducia che si è creata nasce dal fatto che è stata umiliata la dimensione relazionale. Abbiamo da poco celebrato i 45 anni del Ssn, e lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha affermato che è un sistema da difendere e aggiornare. Nel 1978, quando è stato creato il servizio sanitario nazionale, il tessuto sociale, la ricerca e il modo di fare medicina erano completamente diversi. C’è bisogno di un ripensamento, e il Pnrr in questo momento sta fallendo i suoi obiettivi perché non vediamo i risultati di un ripensamento globale del sistema in cui le forze vengano ridistribuite e le opportunità ricalcolate.

L’attuale modello di Ssn è vecchio e superato; va ripensato nei ruoli, nella distribuzione sul territorio, nelle funzioni e nei servizi.

Il 25 gennaio è stato presentato alla Camera dei deputati il manifesto Dignitas curae per una nuova sanità, un progetto che mette al centro della cura la persona e non la malattia…

Sottoscrivo pienamente il manifesto e rinvio la responsabilità alla politica perché è un tema esclusivamente di riflessione, di riorganizzazione e di volontà politica. Se la  società si evolve e cambia da sé, i sistemi vanno invece modificati dalle persone. In questo momento abbiamo un disallineamento tra esigenze sociali e risposta dello Stato. Va riallineato il sistema. Il Covid ha suonato la sveglia; ha dato uno schiaffo a tutto il sistema. Se non cogliamo questa lezione, decine migliaia di persone saranno morte invano.

 

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Sfascio sanitario nazionale, il nuovo numero de L’Espresso






 Sfascio sanitario nazionale, il nuovo numero de L’Espresso

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Eboli (SA). Emergenza sanitaria all’Ospedale; Villani (5 Stelle): ‘al fianco del personale sanitario’

La Coordinatrice provinciale del Movimento 5 stelle in provincia di Salerno: “Dei 3877 posti letto da attivare in provincia di Salerno per raggiungere lo standard ottimale di 3,5 posti letto per 1000 abitanti, al momento sono attivi solo 3533, con un gap di 344 posti letto”.

La Coordinatrice Provinciale del Movimento 5 Stelle in provincia di Salerno, Virginia Villani, esprime “profonda preoccupazione e denuncia la critica situazione che emerge dalle recenti immagini provenienti dal pronto soccorso di Eboli. La necessità urgente di intervenire sull’adeguamento delle strutture e sul reclutamento straordinario di personale è evidente, con la premessa fondamentale di garantire la sicurezza degli operatori sanitari.

La mancanza di personale e la carenza di posti letto non possono essere imputate al coraggioso e instancabile lavoro del personale sanitario. Il personale merita apprezzamento per il suo impegno incessante, nonostante le sfide legate alla carenza di risorse umane e di posti letto.

Non condividiamo il recente documento programmatico di rigenerazione edilizia della Regione Campania, che propone la confluenza dei posti letto per acuti del presidio di Eboli in quello di Battipaglia. Tale decisione, infatti, relega l’ospedale ebolitano ad attività territoriali e lo priverebbe di un Pronto Soccorso, mettendo a repentaglio anche le eccellenze presenti, come la UOC di Cardiologia interventistica, la UOC di Nefrologia, la UOSD di Pneumologia e la UOC di Maxillo Facciale”. A denunciarlo è la coordinatrice provinciale del Movimento 5 stelle in provincia di Salerno Virginia Villani.

Come ci viene sottolineato anche dai sindacati, dei 3877 posti letto da attivare in provincia di Salerno per raggiungere lo standard ottimale di 3,5 posti letto per 1000 abitanti, al momento solo 3533 sono attivi, con un gap di 344 posti letto. Il sindacato conferma questa preoccupante discrepanza. Il mio invito è alle autorità regionali a riconsiderare la decisione riguardante il pronto soccorso di Eboli e a investire risorse significative per garantire la sicurezza e l’efficienza del sistema sanitario in provincia di Salerno. La salute dei cittadini – conclude Villani – non può essere compromessa dalla mancanza di posti letto e dalla carenza di personale”.

(Nicola Arpaia – Comunicato Stampa – Elaborato – Archiviato in #TeleradioNews © Diritti riservati all’autore)

GIUBILEO 2025, DA REGIONE LAZIO 155 MLN PER SERVIZIO SANITARIO

La Regione Lazio ha stanziato un contributo di 155 milioni di euro per potenziare il Servizio sanitario in vista del Giubileo del 2025, quando Roma e le province di Latina, Frosinone, Viterbo e Rieti, accoglieranno milioni di fedeli.

KappaelleNet

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Ancora aggressione ad un sanitario

Un infermiere è stato aggredito verbalmente dal padre di una bambina al Pronto soccorso dell’ospedale pediatrico Giovanni XXIII a Bari. A causa dei ripetuti insulti e delle minacce, l’operatore sanitario ha avuto un malore e si è accasciato a terra. Dopo l’intervento dei Carabinieri l’infermiere è rientrato a casa in stato di shock. “Nessun atto di violenza è giustificabile – ha detto il Direttore generale dell’ospedale Giovanni Migliore -. Non possiamo tollerare che i nostri professionisti siano oggetto di minacce o violenze. Denunceremo l’aggressore”.

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Salute e bene comune. Balduzzi (ex ministro): “Tutelare e proteggere il Sistema sanitario nazionale, è prezioso e non va stravolto”

“Per chi è convinto che la salute sia un bene comune e che il Servizio sanitario nazionale sia la struttura di protezione di questo bene comune, ricordare i 45 anni della legge 833 è importante”. Ne è convinto Renato Balduzzi, costituzionalista ed ex ministro della Salute nel Governo Monti, che, nell’anniversario dell’approvazione del provvedimento che istituì il Servizio sanitario nazionale, con il Sir fa il punto su attualità, sostenibilità e priorità del sistema partendo dall’assunto che, come ha scritto Papa Francesco nel Messaggio per la XXIX Giornata mondiale del malato, “la salute è un bene comune primario”.

Professore, 45 anni fa veniva istituito il Servizio sanitario nazionale, basato sui principi fondamentali di universalità, uguaglianza ed equità oltre a quelli della centralità della persona e della responsabilità pubblica per la tutela del diritto alla salute, sancito dalla Costituzione. In che modo quella scelta contribuì e contribuisce al bene comune?
La 833 è davvero una delle grandi leggi della Repubblica e, non a caso, non ce ne sono tante per le quali si ricorda in modo continuo l’anniversario. Come ebbe a dire cinque anni fa nel discorso di Capodanno il Presidente Mattarella, essa è un vanto del sistema Italia; non mancano difetti e disparità da colmare, ma si tratta di un patrimonio da preservare e da potenziare. D’altra parte, che ci sia tutta questa attenzione agli anniversari della 833 è anche dovuto alla circostanza che la legge ha avuto sempre, fin dall’inizio, degli oppositori: cambiano le parole, le casacche, i contesti, ma gli oppositori della 833 ci sono ancora adesso. Anche perché

questa legge è una grande scommessa: la salute non può essere affidata, come qualunque altro interesse, al mercato e soltanto ad esso. La salute, proprio perché è un bene comune, deve essere oggetto di una vigile e costante attenzione da parte di tutti;

le regole che la governano non possono essere quelle tout court del mercato, anzi la salute – c’è scritto anche nella nostra Costituzione – è un limite al mercato stesso, all’iniziativa privata. Dunque, una grande legge della Repubblica sempre ostacolata e sempre avversata perché il mondo degli interessi che fanno capo alla sanità e alla salute sovente vede nel modello universalistico della 833 non un momento importante per il bene comune ma un ostacolo per il raggiungimento di finalità particolari.

Rispetto a 45 anni fa, la situazione è cambiata e, per certi versi, sembra si stiano facendo passi indietro rispetto al sistema di strutture e servizi concretizzatosi con la legge 833. Secondo Lei quella riforma è inadeguata all’oggi o in questi anni sono state fatte scelte che hanno scardinato l’impianto originale provocando – e sono parole del Papa – l’attuale “nuova fase di criticità che sembra diventare strutturale”?
Le parole del Papa vanno lette correttamente, la sua non è una critica all’impianto – che, anzi, più volte ha avuto modo di apprezzare – ma a come lo si vorrebbe stravolgere. La legge 833 è stata oggetto di tante riforme, la prima delle quali nel ‘92, per fortuna emendata subito nel ‘93, che voleva appunto scardinarne l’impianto, rompendo l’universalismo e la globalità delle prestazioni, e il principio secondo cui la sanità viene finanziata dalla fiscalità generale, cioè progressiva ed equa, introducendo il cosiddetto “secondo pilastro”, quello assicurativo. Era un modo diverso di concepire la sanità pubblica, molto lontano dallo spirito della 833 che poi nell’anno successivo venne recuperato ritornando all’originale. Le successive riforme del ‘99 e del 2012 hanno confermato l’impianto del Servizio sanitario nazionale che, possiamo dire, ha retto anche alla pandemia. Per quanto riguarda la sostenibilità del Ssn, sono 40 anni che ci viene raccontato che non lo sarebbe più. Va ricordato che non c’è una sostenibilità astratta ma, come hanno scritto i canadesi circa 20 anni fa, la sostenibilità è ciò che noi vogliamo sia.

Se noi vogliamo la sostenibilità di un sistema universalistico, globale e fondato sulla fiscalità generale, allora dobbiamo essere conseguenti: ci vuole un Ssn ancora più forte e più governato, sia a Roma sia nei capoluoghi regionali, lasciando alle Aziende sanitarie la responsabilità che hanno. Questo è un equilibrio da mantenere, se lo si stravolge attraverso forme di privatizzazione strisciante oppure introducendo un secondo pilastro attraverso il regionalismo differenziato allora si agisce per distruggere il Servizio sanitario nazionale.

Invece

serve tutelare e proteggere il Ssn, difendendolo come un bene prezioso.

E correggendo alcune decisioni che sono state messe in atto per reggere l’urto della pandemia e che in questo momento stanno fortemente indebolendo il sistema.

A che cosa si riferisce?
Innanzitutto va chiarito che

il sistema non è indebolito perché è regionalizzato.

Altrimenti non si capirebbe perché, rispetto agli altri sistemi italiani – giustizia, istruzione e università, trasporti, pubblica amministrazione – quello sanitario è comunque il servizio pubblico che nelle graduatorie internazionali sta meglio di tutti. Non si può pensare che questo avvenga nonostante le Regioni: 75 anni fa i nostri costituenti guardarono lontano riconoscendo che il livello ottimale per programmare e gestire i servizi sanitari è quello regionale; ma

è necessario un Servizio sanitario nazionale che faccia da collante e nel quale ciascuno si prenda le proprie responsabilità, a cominciare dal centro, dal Governo nazionale.

Fatta questa premessa, se durante la pandemia, per necessità, abbiamo dovuto specialmente nei Pronto soccorso fare ricorso a medici gettonisti delle cooperative e questi hanno una retribuzione sproporzionata rispetto alle mansioni e alle responsabilità affidategli creando un problema nei confronti dei colleghi, è evidente che adesso che la pandemia è diventata endemia, o quasi, si dovranno cambiare le regole, perché altrimenti si scombussola il sistema.

La pandemia da Covid-19 ha fortemente stressato strutture, servizi e operatori sanitari. Forse ci siamo dimenticati troppo in fretta della dedizione e della generosità del personale, così come dell’impegno ad investire nelle diverse articolazioni del sistema sanitario. Quali sono, secondo Lei, le priorità da cui partire per rafforzare il sistema sanitario?
Il problema della mancanza di infermieri è molto serio; ci si deve preoccupare di aumentare la loro reputazione e di esigere equilibrio e discrezione da parte di altre categorie sanitarie nei confronti degli infermieri, perché noi abbiamo bisogno di rendere quella infermieristica una professione ambita dai nostri giovani. Altrimenti non li troveremo mai nel numero di cui abbiamo bisogno. Poi, si è finalmente deciso che la sanità territoriale deve essere all’altezza di quella ospedaliera: vanno fatte le case della comunità, bisogna metterci dentro medici di famiglia, specialisti ambulatoriali, infermieri di famiglia e comunità, che vanno subito cercati e formati. Ma questo richiede una volontà politica forte; le risorse ci sono, l’Europa ce le ha date, ma bisogna volerle spendere bene e bisogna anche piegare i corporativismi.
Un terzo ambito riguarda l’integrazione socio-sanitaria, perché

il bisogno sanitario è sempre più strettamente connesso, soprattutto per le categorie più fragili e per i malati cronici, col bisogno sociale; questa sfida finora l’abbiamo colta nelle leggi, nei regolamenti, negli standard dell’attività ospedaliera e territoriale, ma facciamo fatica a farla vivere.

Perché? Bisogna coinvolgere tutti gli attori, spiegare che l’integrazione tra diverse professioni è il modo migliore per vivere la propria specifica professione. Bisogna dire alle Regioni che devono coinvolgere i Comuni, perché senza di loro non si può dare integrazione socio-sanitaria, bisogna aprire al Terzo settore, al volontariato, non in modo utilitaristico o corporativistico ma facendo sì che le tante risorse ed energie possano essere messe dentro al sistema. Infine, un’altra grande cosa di cui preoccuparci è l’“One Health”, perché ormai la sanità umana, quella ambientale e quella animale sono strettamente collegate. La salute ambientale, come Papa Francesco coraggiosamente ricorda almeno settimanalmente a tutti, ha a che fare con tutta la vita, e in particolare con la salute umana e quella animale. Ma facciamo fatica a spiegarlo ai governanti, basta vedere le difficoltà dei giorni scorsi a Dubai per trovare un’intesa. Facciamo fatica a ricordarci di questo quando andiamo a votare, perché dovremmo scegliere a partire da questi temi – salute, ambiente… – non dalle simpatie. Quindi c’è un problema per ciascuno di noi, non dimenticandoci che bisogna andare a votare perché

senza democrazie salute e ambiente non si proteggono.

Tant’è vero che i luoghi più disastrati sono quelli dove non c’è democrazia.

Ciclicamente viene riproposta la questione della natura pubblica della sanità e dell’universalità del servizio. Come far sì che la salute non smetta di essere considerato da ogni singolo cittadino un diritto e un bene comune della collettività, per il quale avere premura e interessarsi non solo nel momento del bisogno?
Innanzitutto prendendosi cura della propria salute, non in modo feticistico o secondo la cultura del fitness o degli integratori, ma seriamente, cominciando dalla prevenzione primaria, dagli stili di vita: ridurre il fumo, l’alcol, i cibi che danneggiano la salute, le occasioni di dipendenza che sono un elemento che indebolisce la salute.

Ognuno è responsabile della propria salute.

E, poi, non è secondaria la partecipazione politica: ad esempio il livello regionale, che è quello che si occupa di salute, deve essere premiato o punito sulla base di quello che è riuscito a fare o no in sanità. Su questo non mi pare ci sia consapevolezza sufficiente. E se questa manca non possiamo pensare di dare gambe e braccia alla 833, perché

quella legge è proprio una sfida per ciascuno di noi non soltanto quando andiamo in ospedale o dal medico di famiglia, ma nella vita di tutti i giorni e in tutte le dimensioni della vita: quella familiare, scolastica, lavorativa, politica.

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