“Per chi è convinto che la salute sia un bene comune e che il Servizio sanitario nazionale sia la struttura di protezione di questo bene comune, ricordare i 45 anni della legge 833 è importante”. Ne è convinto Renato Balduzzi, costituzionalista ed ex ministro della Salute nel Governo Monti, che, nell’anniversario dell’approvazione del provvedimento che istituì il Servizio sanitario nazionale, con il Sir fa il punto su attualità, sostenibilità e priorità del sistema partendo dall’assunto che, come ha scritto Papa Francesco nel Messaggio per la XXIX Giornata mondiale del malato, “la salute è un bene comune primario”.
Professore, 45 anni fa veniva istituito il Servizio sanitario nazionale, basato sui principi fondamentali di universalità, uguaglianza ed equità oltre a quelli della centralità della persona e della responsabilità pubblica per la tutela del diritto alla salute, sancito dalla Costituzione. In che modo quella scelta contribuì e contribuisce al bene comune?
La 833 è davvero una delle grandi leggi della Repubblica e, non a caso, non ce ne sono tante per le quali si ricorda in modo continuo l’anniversario. Come ebbe a dire cinque anni fa nel discorso di Capodanno il Presidente Mattarella, essa è un vanto del sistema Italia; non mancano difetti e disparità da colmare, ma si tratta di un patrimonio da preservare e da potenziare. D’altra parte, che ci sia tutta questa attenzione agli anniversari della 833 è anche dovuto alla circostanza che la legge ha avuto sempre, fin dall’inizio, degli oppositori: cambiano le parole, le casacche, i contesti, ma gli oppositori della 833 ci sono ancora adesso. Anche perché
questa legge è una grande scommessa: la salute non può essere affidata, come qualunque altro interesse, al mercato e soltanto ad esso. La salute, proprio perché è un bene comune, deve essere oggetto di una vigile e costante attenzione da parte di tutti;
le regole che la governano non possono essere quelle tout court del mercato, anzi la salute – c’è scritto anche nella nostra Costituzione – è un limite al mercato stesso, all’iniziativa privata. Dunque, una grande legge della Repubblica sempre ostacolata e sempre avversata perché il mondo degli interessi che fanno capo alla sanità e alla salute sovente vede nel modello universalistico della 833 non un momento importante per il bene comune ma un ostacolo per il raggiungimento di finalità particolari.
Rispetto a 45 anni fa, la situazione è cambiata e, per certi versi, sembra si stiano facendo passi indietro rispetto al sistema di strutture e servizi concretizzatosi con la legge 833. Secondo Lei quella riforma è inadeguata all’oggi o in questi anni sono state fatte scelte che hanno scardinato l’impianto originale provocando – e sono parole del Papa – l’attuale “nuova fase di criticità che sembra diventare strutturale”?
Le parole del Papa vanno lette correttamente, la sua non è una critica all’impianto – che, anzi, più volte ha avuto modo di apprezzare – ma a come lo si vorrebbe stravolgere. La legge 833 è stata oggetto di tante riforme, la prima delle quali nel ‘92, per fortuna emendata subito nel ‘93, che voleva appunto scardinarne l’impianto, rompendo l’universalismo e la globalità delle prestazioni, e il principio secondo cui la sanità viene finanziata dalla fiscalità generale, cioè progressiva ed equa, introducendo il cosiddetto “secondo pilastro”, quello assicurativo. Era un modo diverso di concepire la sanità pubblica, molto lontano dallo spirito della 833 che poi nell’anno successivo venne recuperato ritornando all’originale. Le successive riforme del ‘99 e del 2012 hanno confermato l’impianto del Servizio sanitario nazionale che, possiamo dire, ha retto anche alla pandemia. Per quanto riguarda la sostenibilità del Ssn, sono 40 anni che ci viene raccontato che non lo sarebbe più. Va ricordato che non c’è una sostenibilità astratta ma, come hanno scritto i canadesi circa 20 anni fa, la sostenibilità è ciò che noi vogliamo sia.
Se noi vogliamo la sostenibilità di un sistema universalistico, globale e fondato sulla fiscalità generale, allora dobbiamo essere conseguenti: ci vuole un Ssn ancora più forte e più governato, sia a Roma sia nei capoluoghi regionali, lasciando alle Aziende sanitarie la responsabilità che hanno. Questo è un equilibrio da mantenere, se lo si stravolge attraverso forme di privatizzazione strisciante oppure introducendo un secondo pilastro attraverso il regionalismo differenziato allora si agisce per distruggere il Servizio sanitario nazionale.
Invece
serve tutelare e proteggere il Ssn, difendendolo come un bene prezioso.
E correggendo alcune decisioni che sono state messe in atto per reggere l’urto della pandemia e che in questo momento stanno fortemente indebolendo il sistema.
A che cosa si riferisce?
Innanzitutto va chiarito che
il sistema non è indebolito perché è regionalizzato.
Altrimenti non si capirebbe perché, rispetto agli altri sistemi italiani – giustizia, istruzione e università, trasporti, pubblica amministrazione – quello sanitario è comunque il servizio pubblico che nelle graduatorie internazionali sta meglio di tutti. Non si può pensare che questo avvenga nonostante le Regioni: 75 anni fa i nostri costituenti guardarono lontano riconoscendo che il livello ottimale per programmare e gestire i servizi sanitari è quello regionale; ma
è necessario un Servizio sanitario nazionale che faccia da collante e nel quale ciascuno si prenda le proprie responsabilità, a cominciare dal centro, dal Governo nazionale.
Fatta questa premessa, se durante la pandemia, per necessità, abbiamo dovuto specialmente nei Pronto soccorso fare ricorso a medici gettonisti delle cooperative e questi hanno una retribuzione sproporzionata rispetto alle mansioni e alle responsabilità affidategli creando un problema nei confronti dei colleghi, è evidente che adesso che la pandemia è diventata endemia, o quasi, si dovranno cambiare le regole, perché altrimenti si scombussola il sistema.
La pandemia da Covid-19 ha fortemente stressato strutture, servizi e operatori sanitari. Forse ci siamo dimenticati troppo in fretta della dedizione e della generosità del personale, così come dell’impegno ad investire nelle diverse articolazioni del sistema sanitario. Quali sono, secondo Lei, le priorità da cui partire per rafforzare il sistema sanitario?
Il problema della mancanza di infermieri è molto serio; ci si deve preoccupare di aumentare la loro reputazione e di esigere equilibrio e discrezione da parte di altre categorie sanitarie nei confronti degli infermieri, perché noi abbiamo bisogno di rendere quella infermieristica una professione ambita dai nostri giovani. Altrimenti non li troveremo mai nel numero di cui abbiamo bisogno. Poi, si è finalmente deciso che la sanità territoriale deve essere all’altezza di quella ospedaliera: vanno fatte le case della comunità, bisogna metterci dentro medici di famiglia, specialisti ambulatoriali, infermieri di famiglia e comunità, che vanno subito cercati e formati. Ma questo richiede una volontà politica forte; le risorse ci sono, l’Europa ce le ha date, ma bisogna volerle spendere bene e bisogna anche piegare i corporativismi.
Un terzo ambito riguarda l’integrazione socio-sanitaria, perché
il bisogno sanitario è sempre più strettamente connesso, soprattutto per le categorie più fragili e per i malati cronici, col bisogno sociale; questa sfida finora l’abbiamo colta nelle leggi, nei regolamenti, negli standard dell’attività ospedaliera e territoriale, ma facciamo fatica a farla vivere.
Perché? Bisogna coinvolgere tutti gli attori, spiegare che l’integrazione tra diverse professioni è il modo migliore per vivere la propria specifica professione. Bisogna dire alle Regioni che devono coinvolgere i Comuni, perché senza di loro non si può dare integrazione socio-sanitaria, bisogna aprire al Terzo settore, al volontariato, non in modo utilitaristico o corporativistico ma facendo sì che le tante risorse ed energie possano essere messe dentro al sistema. Infine, un’altra grande cosa di cui preoccuparci è l’“One Health”, perché ormai la sanità umana, quella ambientale e quella animale sono strettamente collegate. La salute ambientale, come Papa Francesco coraggiosamente ricorda almeno settimanalmente a tutti, ha a che fare con tutta la vita, e in particolare con la salute umana e quella animale. Ma facciamo fatica a spiegarlo ai governanti, basta vedere le difficoltà dei giorni scorsi a Dubai per trovare un’intesa. Facciamo fatica a ricordarci di questo quando andiamo a votare, perché dovremmo scegliere a partire da questi temi – salute, ambiente… – non dalle simpatie. Quindi c’è un problema per ciascuno di noi, non dimenticandoci che bisogna andare a votare perché
senza democrazie salute e ambiente non si proteggono.
Tant’è vero che i luoghi più disastrati sono quelli dove non c’è democrazia.
Ciclicamente viene riproposta la questione della natura pubblica della sanità e dell’universalità del servizio. Come far sì che la salute non smetta di essere considerato da ogni singolo cittadino un diritto e un bene comune della collettività, per il quale avere premura e interessarsi non solo nel momento del bisogno?
Innanzitutto prendendosi cura della propria salute, non in modo feticistico o secondo la cultura del fitness o degli integratori, ma seriamente, cominciando dalla prevenzione primaria, dagli stili di vita: ridurre il fumo, l’alcol, i cibi che danneggiano la salute, le occasioni di dipendenza che sono un elemento che indebolisce la salute.
Ognuno è responsabile della propria salute.
E, poi, non è secondaria la partecipazione politica: ad esempio il livello regionale, che è quello che si occupa di salute, deve essere premiato o punito sulla base di quello che è riuscito a fare o no in sanità. Su questo non mi pare ci sia consapevolezza sufficiente. E se questa manca non possiamo pensare di dare gambe e braccia alla 833, perché
quella legge è proprio una sfida per ciascuno di noi non soltanto quando andiamo in ospedale o dal medico di famiglia, ma nella vita di tutti i giorni e in tutte le dimensioni della vita: quella familiare, scolastica, lavorativa, politica.
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Da Garattini a Parisi, il grido di allarme: “Il Servizio sanitario è in crisi tra difficoltà di cura e diseguaglianze. Serve piano di finanziamento straordinario”
Da tempo scienziati e ricercatori si affannano a evidenziare l’essenzialità del Servizio sanitario nazionale. Un pilastro – a cui servirebbero 15 miliardi per allinearsi all’Unione europea – e che vede il settore privato sempre più foraggiato. “Non possiamo fare a meno del servizio sanitario pubblico”. Ma “oggi i dati dimostrano che è in crisi: arretramento di alcuni indicatori di salute, difficoltà crescente di accesso ai percorsi di diagnosi e cura, aumento delle diseguaglianze regionali e sociali“. Molto “si può e si deve fare sul piano organizzativo, ma la vera emergenza è adeguare il finanziamento del Servizio sanitario nazionale agli standard dei Paesi europei avanzati (8% del Pil). Ed è urgente e indispensabile, perché un Ssn che funziona non solo tutela la salute, ma contribuisce anche alla coesione sociale”. È l’appello a difesa della sanità pubblica di 14 tra i più importanti scienziati italiani, tra i quali il premio Nobel per l Fisica Giorgio Parisi, il farmacologo Silvio Garattini, il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli, l’immunologo Alberto Mantovani.
“Dal 1978, data della sua fondazione, al 2019 il Ssn in Italia ha contribuito a produrre il più marcato incremento dell’aspettativa di vita (da 73,8 a 83,6 anni) tra i Paesi ad alto reddito”, si legge nel documento che sottolinea come oggi il sistema sia invece in crisi. “Questo accade perché i costi dell’evoluzione tecnologica, i radicali mutamenti epidemiologici e demografici e le difficoltà della finanza pubblica hanno reso fortemente sottofinanziato il Ssn, al quale nel 2025 sarà destinato il 6,2% del Pil (meno di vent’anni fa). Il pubblico garantisce ancora a tutti una quota di attività (urgenza, ricoveri per acuzie), mentre per il resto (visite specialistiche, diagnostica, piccola chirurgia) il pubblico arretra, e i cittadini sono costretti a rinviare gli interventi o indotti a ricorrere al privato”. Continuare “su questa china, oltre che in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione, ci spinge verso il modello Usa – avvertono i firmatari – terribilmente più oneroso (spesa complessiva più che tripla rispetto all’Italia) e meno efficace (aspettativa di vita inferiore di 6 anni).
“La spesa sanitaria in Italia non è grado di assicurare compiutamente il rispetto dei Livelli essenziali di assistenza (Lea) e l’autonomia differenziata rischia di ampliare il divario tra Nord e Sud d’Italia in termini di diritto alla salute. È dunque necessario un piano straordinario di finanziamento del Ssn e specifiche risorse devono essere destinate a rimuovere gli squilibri territoriali. La allocazione di risorse deve essere accompagnata da efficienza nel loro utilizzo e appropriatezza nell’uso a livello diagnostico e terapeutico, in quanto fondamentali per la sostenibilità del sistema”.
Per i 14 scienziati, il Servizio sanitario nazionale “deve recuperare il suo ruolo di luogo di ricerca e innovazione al servizio della salute. Parte delle nuove risorse deve essere impiegata per intervenire in profondità sull’edilizia sanitaria, in un Paese dove due ospedali su tre hanno più di 50 anni e uno su tre è stato costruito prima del 1940. Ma il grande patrimonio del Ssn è il suo personale: una sofisticata apparecchiatura si installa in un paio d’anni, ma molti di più ne occorrono per disporre di professionisti sanitari competenti, che continuano a formarsi e aggiornarsi lungo tutta la vita lavorativa. Nell’attuale scenario di crisi del sistema, e di fronte a cittadini/pazienti sempre più insoddisfatti, è inevitabile che gli operatori siano sottoposti a una pressione insostenibile che si traduce in una fuga dal pubblico, soprattutto dai luoghi di maggior tensione, come l’area dell’urgenza“.
È evidente che “le retribuzioni debbano essere adeguate, ma è indispensabile affrontare temi come la valorizzazione degli operatori, la loro tutela e la garanzia di condizioni di lavoro sostenibili. Particolarmente grave è inoltre la carenza di infermieri (in numero ampiamente inferiore alla media europea). Da decenni si parla di continuità assistenziale (ospedale-territorio-domicilio e viceversa), ma i progressi in questa direzione sono timidi. Oggi il problema non è più procrastinabile: tra 25 anni quasi due italiani su cinque avranno più di 65 anni (molti di loro affetti da almeno una patologia cronica) e il sistema, già oggi in grave difficoltà, non sarà in grado di assisterli”. Basti pensare che in 10 anni dimezzato il numero di chi si iscrive al test per infermieri.
Infine, rimarcano i firmatari, “la spesa per la prevenzione in Italia è da sempre al di sotto di quanto programmato, il che spiega in parte gli insufficienti tassi di adesione ai programmi di screening oncologico che si registrano in quasi tutta Italia. Ma ancora più evidente è il divario riguardante la prevenzione primaria; basta un dato: abbiamo una delle percentuali più alte in Europa di bambini sovrappeso o addirittura obesi, e questo è legato sia a un cambiamento – preoccupante – delle abitudini alimentari sia alla scarsa propensione degli italiani all’attività fisica. Molto va investito, in modo strategico, nella cultura della prevenzione (individuale e collettiva) e nella consapevolezza delle opportunità, ma anche dei limiti della medicina moderna”. A firmare il documento anche: Ottavio Davini, Enrico Alleva, Luca De Fiore, Paola Di Giulio, Nerina Dirindin, Francesco Longo, Lucio Luzzatto, Carlo Patrono, Francesco Perrone, Paolo Vineis.