“Doveva essere la giornata decisiva per il tanto atteso incontro tra governo e vertici ArcelorMittal a Palazzo Chigi sulla vertenza ex Ilva o Acciaierie d’Italia, ci aspettavamo una svolta definitiva. Purtroppo ciò non è avvenuto”.
Lo riferisce Antonio Spera (nella foto), Segretario Nazionale Ugl Metalmeccanici a fine incontro di Palazzo Chigi fra governo e Arcelor-Mittal sulla situazione dell’ex Ilva di Taranto.
“Abbiamo ricordato che la cattiva gestione, gli accordi non rispettati, il mancato controllo sull’operato di Arcelor Mittal, sia in termini di salute e sicurezza sul lavoro sia per il mancato rilascio del siderurgico, sono da imputare ai governi precedenti rivelatisi a dir poco distratti.
Oggi Palazzo Chigi giocava una delle più grandi e più importanti partite per la siderurgia e per l’intera industria italiana, che riguarda e coinvolge circa ventimila lavoratori. Nell’incontro la delegazione del Governo ha proposto ai vertici dell’azienda la sottoscrizione dell’aumento di capitale sociale, pari a 320 milioni di euro, così da concorrere ad aumentare al 66% la partecipazione del socio pubblico Invitalia, unitamente a quanto necessario per garantire la continuità produttiva.
Il Governo ha preso atto della indisponibilità di ArcelorMittal ad assumere impegni finanziari e di investimento, anche come socio di minoranza, e ha incaricato Invitalia di assumere le decisioni conseguenti, attraverso il proprio team legale.
L’auspicio dell’Ugl Metalmeccanici era che oggi si raggiungeva un accordo diverso dagli anni passati e che l’azienda poteva contribuire a produrre acciaio con un nuovo piano industriale e -conclude Spera- un nuovo assetto societario. Ora la questione si mette tutta in salita.
Bambini palestinesi uccisi, gravemente feriti o costretti a vivere nel terrore sotto le bombe; bambiniisraeliani ostaggio di Hamas. Sono le due facce della stessa medaglia: il prezzo altissimo che l’infanzia sta pagando nell’atroce conflitto Israele-Hamas, come in ogni altra guerra. E non c’è differenza di religione, popolo o etnia: il dolore innocente non ha bandiere. Save the Children rilancia i dati diffusi dalle autorità sanitarie palestinesi e israeliane:
dal 7 ottobre sono stati segnalati più di 3.257 bambini uccisi, di cui almeno 3.195 a Gaza, 33 in Cisgiordania e 29 in Israele.
Oltre 4mila i piccoli palestinesi feriti, anche con gravi mutilazioni, durante il bombardamento dell’ospedale anglicano del 14 ottobre e durante i continui attacchi aerei; tutti costretti a vivere nella paura, magari dopo avere assistito alla morte di un genitore o di un fratello, nella scarsità di cibo, acqua, cure mediche, senza più andare a scuola. A Gaza si conta circa un migliaio di bambini dispersi che potrebbero essere sepolti sotto le macerie. E il bilancio è destinato a salire. Quelli che sopravvivranno, quali conseguenze psicologiche porteranno con sé? Intanto il governo di Tel Aviv ha diffuso le foto dei piccoli israeliani rapiti il 7 ottobre dai terroristi di Hamas. Il più piccolo, Kfir, ha appena nove mesi; accanto a lui il fratello Ariel, 4 anni. Il più grande ha 17 anni. Non sappiamo se sono ancora tutti vivi. Che cosa stanno passando, che cosa significa per loro questa prigionia insensata Quanto li segnerà, ammesso che riescano a sopravvivere e a ritrovare la libertà?
Per tutti loro, scampare alla morte è il primo passo. Il secondo, ritornare alla vita. Ci riusciranno? Come? Ne abbiamo parlato con un’esperta: Noemi Grappone, psicologa psicoterapeuta Emdr practitioner, e membro di Emdr Italia. L’Emdr (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è uno strumento terapeutico impiegato nel trattamento di disturbi legati ad eventi stressanti e/o traumatici: violenze, incidenti, gravi lutti, guerre.
“In un recentissimo studio condotto nella Striscia, in aree sottoposte a bombardamenti continui e ad altri atti di violenza militare – esordisce Grappone -, si è tentato di stabilire una relazione tra esperienze traumatiche della guerra in corso, disturbo da stress post-traumatico (Ptsd) e sintomi di ansia nei bambini, tenendo conto anche delle risposte di salute mentale dei genitori. Nel campione analizzato – 100 famiglie con 200 genitori e 197 figli di età compresa tra 9 e 18 anni – è stato riscontrato, sia nei bambini sia nei genitori, un elevato livello di eventi traumatici vissuti, alti tassi di Ptsd e di ansia”. L’esposizione a traumi di guerra ha un forte impatto sulla salute mentale sia dei genitori sia dei bambini, e le loro risposte emotive sono correlate. Per questo, sostiene l’esperta,
“occuparsi di bambini e delle loro risposte psicofisiche, implica sempre il coinvolgimento trasversale dell’intero gruppo familiare”.
Quali sono i sintomi più comuni nei bimbi direttamente esposti ai conflitti?
Molti sviluppano reazioni di stress post-traumatico sia a breve che a lungo termine. I sintomi più ricorrenti includono tristezza, rabbia, paura, intorpidimento, irritabilità, sbalzi d’umore, cambiamento dell’appetito, difficoltà nel sonno, incubi, evitamento di situazioni che richiamino l’evento traumatico, compromissione della concentrazione, senso di colpa per essere sopravvissuti o per non avere riportato conseguenze importanti durante l’evento. A questo si aggiunge un altro elemento significativo, ma poco narrato.
Di che si tratta
Dell’impatto della separazione sul bambino, esperienza nota grazie al lavoro svolto quando i piccoli venivano separati dai genitori al momento del ricovero in ospedale. Molte ricerche dimostrano che nei bimbi separati dai genitori – in particolare di età inferiore ai 4 anni – si manifestano sintomi di ansia, alimentazione disregolata, maggiori complicazioni postoperatorie, astinenza, disturbi del sonno e aggressività. Una separazione prolungata può anche portare a traumi dello sviluppo: disturbo da deficit di attenzione e iperattività, disturbo oppositivo provocatorio, deterioramento cognitivo. Questo avviene in particolare a Gaza dove, a causa del peggioramento dei servizi sanitari, molti bambini affetti da patologie emergenziali o a lungo termine hanno bisogno di servizi più specializzati di quelli disponibili sulla Striscia, ma Israele richiede a tutti i palestinesi un permesso rilasciato dalle autorità israeliane prima di poter lasciare Gaza. I genitori di bimbi malati hanno inoltre bisogno di uno speciale “permesso di accompagnatore”; permessi che vengono in molti casi negati per motivi di sicurezza. Due le conseguenze: o la rinuncia al trasferimento, oppure l’accompagnamento del piccolo malato da parte di un altro familiare o da un conoscente, con grave disagio per il bambino e spesso parziale o assente comunicazione con la famiglia sulle sue condizioni.
Dall’operazione “Piombo fuso” ad oggi, i bambini della Striscia vivono comunque da anni nell’insicurezza.
Una costante insicurezza che genera paura, impotenza e orrore nell’intera popolazione, ma di cui i bambini risentono maggiormente. Già dopo “Piombo fuso” (la guerra durata dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, ndr) uno studio condotto dal programma di salute mentale della comunità di Gaza (Gcmhp) aveva rilevato che il 75% dei bambini di età superiore ai sei anni soffriva di uno o più sintomi di stress post-traumatico. Ma nell’enclave il trauma è continuo, dura da almeno due decenni e stenta ad esaurirsi.
Il sistema sanitario di Gaza, già messo a dura prova prima della guerra in corso, è ora sull’orlo del collasso, e gli esperti di salute mentale hanno da tempo messo in guardia sul terribile tributo imposto ai bambini.
Preoccupa anche la condizione di prigionia dei bambini israeliani in mano ad Hamas.
Assolutamente sì. Sui bimbi israeliani non abbiamo studi in materia perché le loro condizioni, fino al 7 ottobre, sono state di relativo benessere, ma certamente anche questi piccoli ostaggi stanno subendo il medesimo senso di impotenza e paura con il rischio di sviluppare disturbo da stress post-traumatico. Le conseguenze sono le stesse per entrambe le parti perché i bambini non hanno “bandiere”; sono gli adulti ad affibbiargliele.
Oltre ai bimbi direttamente coinvolti, ci sono quelli che “assistono” da lontano alla guerra, magari in Tv.
Il trauma, infatti, non riguarda solo chi è direttamente esposto, che ne è vittima primaria, ma anche chi, in questo caso altri bambini, da lontano e indirettamente assiste a questo crimine contro l’umanità. Il guardare in Tv feriti e corpi mutilati e l’udire il rumore dei bombardamenti costituisce per loro un evento traumatico. Più esposti a questa traumatizzazione i maschietti che le bambine; meno i bimbi che vivono in famiglie ad alto reddito; sembra invece non esserci un legame con l’età.
Dottoressa, lei fa parte di Emdr Italia, una delle 40 associazioni nazionali che aderiscono a Emdr Europe. In che cosa consiste il vostro lavoro sul campo?
L’associazione Emdr Europe si offre da sempre di intervenire con specialisti formati sul trauma. Se impossibilitati a raggiungere le aree direttamente colpite, ci si avvale di mezzi telematici pur di offrire supporto, contenimento ed elaborazione della sintomatologia del Ptsd, come già accaduto in altre emergenze umanitarie. Dopo i primi due giorni di bombardamenti russi contro il territorio ucraino, Emdr Europe, con i suoi 40 Stati membri, si è attivata a livello di supporto psicologico e fornendo una guida per fronteggiare l’emergenza.
Per la prima volta gli psicologi sono potuti intervenire in modo massiccio in un setting di guerra in corso.
a sostegno delle persone in Ucraina, sulla frontiera e nei Paesi di frontiera – Polonia, Romania, Slovacchia, Ungheria – e in tutto il resto dell’Ue nelle aree che ospitano grandi comunità di rifugiati. Ci auguriamo di poter offrire sollievo, facendo prevenzione e promuovendo la salute mentale anche in questa drammatica emergenza bellica Israele-Hamas.
Ennesima denuncia social-politica di Giuseppe Sangiovanni, nel mirino mediatico del quale stavolta è finita la neo eletta delegata De Rosa, prima acerrima antagonista di Giaquinto, rea di aver mentito ai comizi.
Nel comizio la De Rosa disse che subito si sarebbe attivata; invece, il chiosco rimane chiuso: l’erba cresce, rasata solo dalla panchina al bar, perché forse temevano l’arrivo della TV, comuque allertata.
Questo perchè, come denuncia il giornalista tanto temuto da inetti, incapaci e ciarlatani vari, il borgo di Caiazzo ha perso tutto!
IL PAESE DEL C’ERA UNA VOLTA
La delegata alla frazione, eletta un mese, fa aveva promesso di riaprire subito il chiosco-bar per risvegliare il paese, ma tutto è rimasto invariato.
Riepiologhiamo per distratti e complici cosa ha perduto San Giovanni e Paolo (anche se è andata molto peggo per Caiazzo, ma questa è storia di un prossimo “pro memoria”).
C’era una volta l’ufficio postale, lo spazzino, il postino, un bar, un sale e tabacchi con annesse tre rivendite di generi alimentari, un posto telefonico pubblico, una cabina telefonica, codice di avviamento postale separato, medico di base, Suore Maestre Pie Venerini (con l’asilo infantile). Tutto perduto!
E dire che dal 1806 al 1809, ebbe la sua autonomia, diventando comune.
Ha avuto due scuole elementari (una finora è rimasta), una propria “università”, che eleggeva due eletti, i quali poi governavano gli altri Casali e Castelli; Catasto e Pesi Reali distinti da quelli di Caiazzo.
Borgo che vanta un triennio di autonomia amministrativa (dal 1806 al 1809), durante il quale ebbe tre sindaci (in tre anni): autogestione che costituì, per il paese, retaggio morale indelebile – fierezza del carattere, in quella sorta di gelosa difesa della propria identità, ancora oggi presente quale elemento “indigeno”, rispetto agli abitanti di “Caiazzo city”.
Parliamo di San Giovanni e Paolo, frazione di Caiazzo amena ma morente, negli ultimi anni finita spesso sulle cronache nazionali.
Chi scrive, affezionato al borgo natìo, negli anni ha cercato con gli strumenti mediatici (giornali, radio e televisioni nazionali) a disposizione di fare opera di sensibilizzazione. Per cercare, far migliorare le cose.
Ma le istituzioni, morse dalla “tarantola”, hanno sempre negato l’evidenza, in alcune occasioni (buttandosi davanti alle telecamere) stravolgendo la realtà e, con la complicità di alcuni residenti, hanno presentato il piccolo centro come una sorta dl paradiso terrestre.
Intanto, pero, il paese ha continuato a camminare a passi di gambero.
Diversi residenti sperano nella rinascita della frazione caiatina, orfana di un ufficio anagrafe, promesso negli anni, ma “da marinai”; senza mezzi pubblici, senza metanizzazione (seppure la condotta attraversi il ventre della frazione).
Illuminazione pubblica indecente per l’intero borgo: le candele illuminerebbero di più.
Nel 1590 i “fuochi” nel borgo erano 10, le anime 40.
Nell’ultima campagna elettorale la neo delegata alla frazione (che ha già fatto rimpiangere la precedente – neanche candidata, nonostante la lista “monca”) ha ciarlato di voler rianimare il paese con l’apertura del chiosco della vergogna (squarciatosi clamorosamente poco dopo la costruzione, poi ristrutturato, ma ovviamente a spese della collettività, non certo di chi aveva sbagliato, sebbene profumatamente pagato, sempre da noialtri, né tampoco di chi aveva prescelto tale soggetto, si dice sempre “intuitu personae“.
Ma a distanza di un mese dalle elezioni, tutto è rimasto invariato, con il chiosco chiuso, l’erba sempre più alta tra le strade trasformate in mulattiere e i vicoli del paese abbandonati a un degrado inquietante.
Anche Enel e Telecom, nel paesino, responsabili di una pessima “igiene ambientale”.
“É mai possibile deturpare l’ambiente in questo modo e rovinare l’estetica delle facciate delle nostre case” – attacca S.M.
“Abbiamo chiesto tante volte all’Enel e alla Telecom la rimozione e l’interramento, per sistemare quel groviglio impressionante e nocivo (ndr. onde elettromagnetiche?) di fili e cavi, che per poco non entrano nelle nostre stanze. Niente di niente. Nessuna risposta“.
Ma chi potrebbe, chi, anzi, dovrebbe intimarlo loro, se non la locale autorità di pubblica sicurezza, cioè il sindaco (o sua delegata)?
Residente infuriato, pronto a rivolgersi anche alle TV nazionali, per denunciare il problema, e non solo.
Nei prossimi mesi, essendo imminenti le ferie, potrebbe arrivare l’inviato di un noto TG satirico.
Una sconfitta per tutti, per la società e per chi finora non ha mosso un dito, per risolvere almeno il caso dei fili penzolanti sulle facciate del paese.
C’è speranza che, intanto, qualcuno si ravveda o, se proprio incapace, lasci il compito ad altri più degni?
Arguta riflessione del giornalista Giuseppe Sangiovanni, implacabile nel denunciare le tante malefatte e carenze della civica amministrazione, in particolare (ma non solo) nella sua amata ma trasandata frazione.
Stavolta, però, al nostro bastano tre parole e una foto per ridicolizzare i sonnecchianti preposti che ovviamente, presi dal tanto (immaginabile) daffare, non possono preoccparsi di fronteggiare il degrado urbano.
Una frazione, una panchina e una verdura, curiosamente proliferante in modo spontaneo fra le sbarre della panchina.
Frazione, quella di SS.Giovanni e Paolo, anni addietro (sempre grazie a Sangiovanni) assurta gli onori della cronaca proprio per sua la cicoria (in quanto “afrodisiaca”) che, dopo un fortunato passaggio in RAI, determinò l’organizzazione di una sagra fortunata, ma come tante altre locali “fortune” finita nel dimenticatoio.
Ciliegina sulla torta, il commento di un arguto lettore che in buona sostanza suggerisce di trasformare la panchina in una sorta di barbecue, così ridicolizzando ulteriormente, seppur non volendo, i soliti ignoti.
Nuova denuncia di Giuseppe Sangiovanni, giornalista ferrato quanto implacabile per certi aministratori incapaci o, peggio, collusi.
Denuncia sintetica quanto eloquente, soprattutto grazie alle foto probatorie dello stato di profondo degrado in cui versa SS. Giovanni e Paolo, sua amata ma, purtoppo, abbandonata frazione, dove i residenti rattoppano loro stessi le buche stradali (cliccare per vedere):
Erbacce, parietaria e cardi in via Palmieri, nel centro di San Giovanni e Paolo.
Incuria, degrado e abbandono nella frazione dimenticata da tutti!
“Commentiamo con cauto ottimismo l’incontro che si è svolto lo scorso 22 Maggio presso il Ministero della Salute alla presenza del sottosegretario Gemmato“.
È quanto ha dichiarato venerdì mattina il Segretario Provinciale della Ugl Caserta Ferdinando Palumbo attraverso una nota inoltrata agli organi di stampa, con la quale ha poi aggiunto:
“Persuasi che la problematica fosse di quasi esclusiva pertinenza del territorio di Caserta, nel Maggio 2022 avevamo proposto al Prefetto la convocazione di un tavolo istituzionale provinciale, aperto alla partecipazione di tutte le parti sociali di Terra di lavoro, ciò che non potevamo mettere in conto è che ad una prima convocazione, dalla Regione avrebbero risposto picche.
L’altro giorno, in sede ministeriale, è finalmente emersa e con chiarezza la volontà della stragrande maggioranza degli attori politici e sociali coinvolti, quella di marciare compatti verso una soluzione di una problematica seria, senza subire imposizioni ed in discontinuità con ciò che sinora è stato messo in campo e non ha funzionato.
Al tavolo ho ribadito la necessità di agire con rapidità e ho ricordato come i numeri monstre di filiera ed indotto rendano questa vertenza tra le prime, se non la prima del paese.
Durante la discussione è finalmente emerso il dato che abbiamo sempre evidenziato ovvero che a voler essere prudenti la dop assicura sostentamento o parte del proprio sostentamento a 4000 soggetti della provincia, per quanto mi riguarda -ha concluso il sindacalista- chi non lo comprende o non è interessato alle sorti delle provincia oppure è in cattiva fede“.
Una rete di oltre 16mila chilometri di linee ferroviarie per connettere il Paese e rendere l’Italia sempre più digitalizzata. Correrà sulla capillare rete ferroviaria del Gruppo FS la sfida contro il digital divide e quella per la piena connettività dell’Italia, grazie alla diffusione lungo i binari di reti ultraveloci di nuova generazione, sia in fibra ottica sia in 5G.
A stabilirlo un protocollo d’intesa siglato dall’amministratore delegato del Gruppo FS Luigi Ferraris, dal Vicepremier e Ministro delle Infrastrutture de dei Trasporti Matteo Salvini, dal Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso e dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega all’Innovazione tecnologica, Alessio Butti.
L’accordo dalla durata triennale prevede la posa di un cavo a fibre ottiche a uso pubblico su tutto il territorio nazionale, con priorità lungo le tratte ad alta velocità, che favorirà lo sviluppo di reti di comunicazione di nuova generazione, fisse e mobili.
A beneficiarne sarà l’intero sistema Paese, grazie alla diffusione della rete veloce anche in quelle aree interne o periferiche, limitrofe alla rete ferroviaria,che ancora oggi sono afflitte da problemi di connettività che negli anni hanno determinato spopolamento e problemi economici e sociali.
“Sono molto soddisfatto di questo accordo che vede il nostro progetto Gigabit Rail&Road entrare a far parte del più ampio disegno nazionale di trasformazione digitale promosso dal Governo”, ha sottolineato l’AD di FS Luigi Ferraris.
“La capillarità della nostra rete ferroviaria ci permetterà di portare la fibra ottica in aree oggi poco o per niente coperte, per migliorare la connettività e diventare così un fattore abilitante di molteplici processi di digitalizzazione. A beneficio dei nostri viaggiatori, ma anche di imprese, cittadini e, non ultimo, di un più efficace monitoraggio delle nostre infrastrutture ferroviarie e stradali, che per circa 12mila km camminano a poca distanza tra loro”.
Un passo avanti, dunque, verso la digitalizzazione del Paese, come ha sottolineato il Ministro Salvini, che potrà “superare il digital divide e implementare le sue reti infrastrutturali”. Il tutto, secondo il Sottosegretario Butti, puntando “sulla cooperazione e le sinergie istituzionali” come previsto dall’accordo che dà il via a un cofinanziamento da parte del Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio dal valore massimo complessivo di 550 milioni di euro.
Fondiche consentiranno al Gruppo FS di accelerare il percorso di raggiungimento degli obiettivi di connettività fissati dal Piano Industriale decennale, a un anno dal suo lancio. Già oggi, inoltre FS ha completato il piano di connettività 4G su tutta la linea Alta Velocità Milano-Firenze, con l’intento di estendere entro il 2023 il servizio fino a Roma e Napoli, da Torino a Milano e da Bologna a Venezia.
Lo sviluppo della rete di comunicazione 5G, prevista dal Protocollo d’intesa, inoltre, andrà a beneficio anche dei passeggeri che potranno navigare online con stabilità e velocità a bordo dei treni, grazie alla copertura che riguarderà le tratte in galleria.
La piena connettività garantita dal piano, inoltre, avrà impatti sullo sviluppo di una logistica sempre più integrata e digitale e sulla sicurezza e manutenzione delle infrastrutture.
Il 5G, infatti, grazie alla velocità e alla riduzione dei tempi di latenza, è l’abilitatore dell’internet of things alla base della manutenzione predittiva, che sfrutta la sensoristica avanzata per monitorare lo stato delle reti e intervenire in tempo, con impatti positivi in termini di efficienza e di sicurezza delle infrastrutture.
Durante la pandemia è stato il sistema più utilizzato per la prescrizione di farmaci e visite mediche, ora la ricetta elettronica diventa definitiva, come ha confermato lo stesso Ministero della Salute. Con l’approvazione del Consiglio dei Ministri al Disegno di legge delega per la semplificazione dei procedimenti amministrativi con alcune misure in materia farmaceutica e sanitaria, va dunque in pensione la ricetta cartacea, facendo spazio a quella dematerializzata. Addio dunque alle file d’attesa negli studi medici, i pazienti potranno ricevere la ricetta tramite e-mail, o sullo smartphone. Il nuovo sistema, benché sia stato introdotto quasi dieci anni fa, ha subito una forte accelerazione durante l’emergenza Covid, quando è stato esteso anche per la prescrizione dei medicinali di base e quelli a pagamento.
“Sono particolarmente orgoglioso delle misure per la salute contenute nel Dl Semplificazioni approvato dal Consiglio dei Ministri – ha sottolineato il Sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato -. Il Governo Meloni interviene nuovamente in ambito sanitario, a tutela della salute ma anche per semplificare la vita dei cittadini, rendendo ancora più efficiente ed accessibile il servizio farmaceutico”.
“Con le integrazioni previste all’interno del Decreto Semplificazione – ha dichiarato il responsabile dell’Osservatorio Sanità Digitale della Fondazione AIDR e cardiologo, Andrea Bisciglia – l’utilizzo della ricetta elettronica diventa non solo definitivo, ma viene esteso anche alla prescrizione dei farmaci per i malati cronici. In questo caso la ricetta vale un anno e consente di fare scorta di farmaci per 30 giorni. I vantaggi – ha aggiunto ancora Bisciglia – sono numerosi, non solo per i pazienti che non dovranno più recarsi fisicamente negli studi medici, ma anche per i sanitari in termini di ottimizzazione dei tempi e di appropriatezza delle cure stabilite. C’è poi da evidenziare che la prescrizione trasmessa digitalmente consentirà al paziente di utilizzare la ricetta in tutta Italia, con un notevole risparmio anche in termini di carta usata”.
“La digitalizzazione in ambito sanitario – ha rimarcato infine il Presidente della Fondazione AIDR, Mauro Nicastri – consente di migliorare i servizi, con molteplici vantaggi dal punto di vista di appropriatezza delle cure ed efficienza delle prestazioni. La strada indicata dal Ministero della Salute può quindi rappresentare un’ottima opportunità per l’implementazione dei sistemi digitali in questo settore. Noi di AIDR continueremo a fare la nostra parte a supporto dei cittadini”.
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Il nome di Angelo Izzo è associato a uno dei delitti più efferati della cronaca nera italiana, il massacro del Circeo del settembre 1975.
Trentasei ore di torture e sevizie sui corpi di due ragazze, Daniela Colasanti e Rosaria Lopez.
La vicenda è tristemente nota ma per la prima volta nelle pagine di Io sono l’uomo nero. Dal Circeo a Ferrazzano, la storia mai raccontata di Angelo Izzo e dei suoi crimini in uscita domani con RaiLibri (pp. 208 19) – la giornalista Ilaria Amenta ricostruisce in maniera lucida e accurata, la figura di Angelo Izzo, dando voce al mostro che oggi «ha 67 anni, e entrato in carcere a 20 per scontare il primo ergastolo, quello per il massacro del Circeo, e in cella sta ancora scontando la condanna al secondo ergastolo, per il delitto di Ferrazzano».
L’idea
Un libro nato per caso. Amenta aveva contattato un’associazione che si occupa di invalidità civile e uno degli operatori le confessò di avere nel cassetto alcuni memoriali di Izzo, avuti a sua volta da un suo assistito che era stato in carcere con lui. Il risultato è un libro da maneggiare con cura, scottante nella misura in cui corrode il lettore e lo avvolge in una densa coltre di violenza e follia, fra il richiamo del sangue e lo scempio dei corpi con alcuni passaggi inediti e raccapriccianti relativi agli stupri. Amenta si è immersa nel mondo di Izzo consultando documenti e articoli ma soprattutto attraverso i diari, un migliaio di pagine scritte in modo convulso e senza un preciso ordine cronologico. Un materiale grezzo che l’autrice ha riannodato, passando dalla sua infanzia al Circeo, dal processo al delitto di Ferrazzano del 2005, giungendo sino ai giorni nostri, narrando una vita da rinchiuso.
La censura
Dalle parole di Izzo – attraverso il filtro dell’autrice che ha avuto cura di eliminare alcuni dei particolari più cruenti, per rispetto nei confronti delle vittime e delle loro famiglie – emerge Angelo Izzo, il ritratto di un narcisista e manipolatore, la cui spinta vitale è il richiamo della violenza. Una violenza ingiustificata, un male «dentro di lui dalla nascita», necessario poiché dona senso alla sua esistenza e rivolgendosi idealmente al proprio padre, scrive: «Io in tutta la mia vita non conoscerò mai un’esistenza borghese: non riesco nemmeno a concepire la normalità».
Il suo apprendistato inizia presto, frequentando il cattolicissimo liceo San Leone Magno, aderendo all’ideologia dell’estrema destra esclusivamente per via dell’attrazione alle implicazioni violente di quelle idee e Izzo, ammaliato dal nazismo, rifiutava sia Hitler che Mussolini, perché «troppo populisti».
Amenta strappa il sipario su questo mondo borghese rivelando nel 1975 la crudeltà di un drappello di carnefici, “i Drughi pariolini” chiaro omaggio ad Arancia Meccanica – ovvero «la sua banda, il suo gruppo di amici e di amiche, di fratelli e sorelle, di quella Roma anni Settanta divisa tra le ideologie di destra e di sinistra, tra le Brigate Rosse e i Nar». Ragazzi ricchi, benestanti e annoiati che rubavano, rapinavano e consideravano le donne come schiave sessuali, tanto che scrive Izzo: «Gli stupri per lungo tempo furono per alcuni di noi una specie di hobby cui ci dedicavamo con una frequenza diciamo settimanale».
Le violenze
Dai suoi diari emerge il primo stupro risalente alla primavera del 1974, un anno e mezzo prima del Circeo. La vittima è A. B. seguita dalla coetanea sedicenne, E.C., cui Izzo disse «Ci devi dare tutto, se no ti uccidiamo». L’anno dopo, il 1975, il libro rivela il caso straziante di Rossella Corazzin, rapita da una quindicina di drughi. «Una vergine diciassettenne per “iniziare” una decina di fratelli alla Rosa Rossa, con un rito di sesso e di sangue, per poi sacrificarla», scrive l’omicida. Ecco l’aspetto ancor più inedito del libro, la rivelazione dell’esistenza della setta basata su un’unica, ferrea legge: uccidere chiunque venisse indicato senza chiederne le ragioni, dimostrando la fedeltà alla Rosa Rossa.
Gli accordi
Un patto di sangue che avrebbe portato al massacro del Circeo. Izzo rivela che uno dei suoi accoliti Gianluca S., detto l’Ebreo – aveva chiesto agli amici di uccidere i cugini per poter ereditare l’impresa del padre e dello zio. Per farlo in assoluta sicurezza, dovevano coinvolgere il ragazzo in uno stupro di gruppo con esito fatale. Da qui la violenza sfrenata, la scelta di due ragazze «non bellissime», le 36 ore di crudeltà indicibili che l’autrice ha scelto di censurare ma che comunque raccapricciano il lettore. E ancora, i fatti di Ferrazzano, mentre si trovava a Campobasso in regime di semi libertà. Vittime ancora una volta due donne, Maria Carmela Linciano e sua figlia Valentina, uccise per vendicarsi del boss Giovanni Maiorano, conosciuto in carcere a Palermo. Voltata l’ultima pagina, un delirio dopo l’altro, non c’è nemmeno un’ombra di pentimento nei diari di Izzo e resta solo traccia di un uomo narcisista.
Lo ha scritto lui stesso: «Avevo pure collaborato con la giustizia, ma l’ho fatto per uscire, per poi tornare a commettere reati di fuori. Non ho mai voluto fare altro».
Francesco Musolino – Postfazione
Il mio maestro, Ferdinando Terlizzi mi ha donato il suo ultimo libro e, dopo averlo letto con molto piacere, interesse e curiosità, l’ho fatto leggere al mio amico di detenzione Angelo Izzo.
Abbiamo così deciso di scrivere una recensione a 4 mani.
“Vittime, assassini, processi” è un libro molto particolare, si potrebbe dire perfino desueto, ma non nell’accezione negativo, poiché esso appartiene alla grande tradizione della cronaca nera.
Quando i giornali erano davvero diffusi e la cronaca nera era considerata alla stregua della letteratura e costituiva la spina dorsale dei quotidiani, che avevano una grande influenza sull’opinione pubblica.
Il libro del decano dei giornalisti casertani, un vero maestro, appartiene al tempo in cui i cronisti erano dei grandi reporter, dei cercatori di storie, dei segugi che fiutata una traccia non la mollavano mai, dei minatori di verità.
Essere di quella razza voleva dire un impegno quasi totale, infatti, era frequente incontrarli in giro per questure e tribunali sempre alla ricerca della notizia in più, dell’indiscrezione, della fonte fidata.
Allora essere un giornalista di nera voleva dire essere nel solco di una grande tradizione di ricerca
appassionata della verità, voleva dire notti insonni, capacità critica, buone scarpe e un cervello indipendente e pensante abituato a dubitare ed anche pronto alla compassione per il reo e alla scoperta dei lati umani delle vicende.
Un abisso rispetto alla cronaca odierna. Giornalisti sottopagati e con nessuna velleità, abituati a cercare le notiziesulle agenzie, incapaci di ogni afflato umano, indifferenti alla fonte e alla attendibilità delle notizie che andranno a gettare in pasto ai lettori.
Uomini e donne che si difendono dietro una corazza di parole che sono sempre più vuote provenendo da certi pulpiti, come professionalità, terzietà, obiettività.
Il mestiere di giornalista di cronaca è divenuta la professione dei pennivendoli ad usum delphini, dei velinari che usano il copia incolla delle notizie delle procure e delle questure, una categoria che annoverano molti emuli di Roberto Saviano, quindi creatori di falsi attentati per ottenere “scorte”, sempre forti con i deboli e servili con i forti.
In questo tempo di decadenza in cui i giornali sono letti sempre meno e sono sempre più asserviti ai potenti di turno, il maestro Ferdinando Terlizzi, ci ricorda la grandezza di quella che taluni si ostinano a considerare quasi una missione.
Il libro ci riporta anche ad un’epoca in cui i tanti omicidi di una terra certamente sanguigna e di grandi passioni, se pure spesso dimostravano la banalità del male, erano decisamente degni di essere capiti. In certe zone d’Italia il temperamento di un popolo è spesso espresso dalla cronaca nera.
Siamo sempre stati affascinati dal grande scrittore spagnolo, Perez de Reverte, che nel bellissimo
libro noir, intitolato: “Il maestro di scherma”, fa dire al protagonista: “Mi potrebbe stare anche bene un tiranno, se il popolo ha temperamento perché tale tirannia sarebbe temperata dal tirannicidio”.
Uno di noi due è sufficientemente vecchio da ricordare certe messe semi-clandestine da ragazzino, celebrate in suffragio dell’anima di Ravaillac colui che uccise Enrico II° di Francia che vecchi gesuiti celebravano nell’anniversario della morte del tirannicida.
Così come ci piace ricordare George Simenon che diceva che “sarebbe arrivato un tempo in cui un giudice non avrebbe mai messo piede in un bordello per tutta la vita è quel giorno sarebbe stato un triste giorno per la Giustizia”.
La capacità di Terlizzi è appunto vedere la Giustizia e il suo svolgersi con l’occhio disincantato di chi è capace di vedere un punto di vista “altro”.
Attingendo all’aneddotica personale un magistrato che aveva doti umane non indifferenti una volta ebbe a dire che il vero giudice doveva essere capace di comprendere il punto di vista del malfattore, se no il giudizio era certamente ingiusto. Si chiamava Paolo Borsellino questo magistrato.
Il libro di Terlizzi ha molto a vedere con la natura umana.
Sono passati più di 50 anni dall’ultima missione del programma Apollo, quello che ha condotto per la prima volta l’umanità sulla Luna. Nel 2024 il sogno potrà di nuovo avverarsi grazie al lancio del razzo Artemis II che volerà intorno al nostro satellite con a bordo quattro astronauti. La Nasa ha annunciato i loro nomi, selezionati da una rosa di 41 candidati. Per la prima volta salirà una donna, Christina Hammock Koch, statunitense e detentrice del record di permanenza femminile nello spazio (328 giorni). Gli altri compagni di viaggio sono due americani, Victor Glover e Reid Wiseman, e un canadese, Jeremy Hansen. Come spiega al Sir Umberto Guidoni, astronauta, protagonista di due missioni della Nasa a bordo dello Space shuttle, la missione è importante perché stavolta torniamo sulla Luna per stabilire delle basi scientifiche e “fare della Luna stessa la base di partenza per andare oltre, verso Marte”.
Dottore, perché torniamo di nuovo in orbita intorno alla Luna
La missione Artemis II è la ripetizione dell’Apollo 8 che, alla vigilia di Natale del 1968, portò i primi tre esseri umani vicini alla Luna. Adesso ripercorriamo la stessa strada. I quattro astronauti nominati dalla Nasa faranno la stessa cosa con un veicolo più performante e tecnologie del XXI secolo. In vista c’è una missione più complessa, questo sarà infatti il test finale del veicolo che trasporterà negli anni a venire tutti gli astronauti che si avventureranno oltre l’orbita terrestre. Le missioni lunari saranno il primo passo di una esplorazione che ci porterà fra una ventina d’anni su Marte. È importante questa missione perché prevede un equipaggio anche se non metterà piede sulla Luna. È però il passaggio obbligatorio prima di Artemis III. Ci torniamo per rimanerci. Dopo la breve parentesi dell’Apollo che è durata tre anni, stavolta torniamo sulla Luna per stabilire delle basi scientifiche, usare i materiali e le risorse a cominciate dal ghiaccio. Stavolta non atterreremo all’Equatore ma al polo Sud lunare perché lì c’è più alta probabilità di trovare ghiaccio che significa acqua, ossigeno e idrogeno per i veicoli che si muoveranno intorno alla Luna e oltre. Questa è la volta buona per stabilire delle basi e per fare della Luna stessa la base di partenza per andare oltre, verso Marte.
La Luna in futuro potrebbe diventare quindi una tappa intermedia, una sorta di “stazione di servizio”?
Sì. Nel progetto è prevista la creazione di una base di appoggio intorno alla Luna così esiste già come la stazione spaziale intorno alla Terra. Dalla stazione potrebbero partire i viaggi verso Marte. Ci vorrà però tutto un decennio per costruire alcune infrastrutture, fra cui la base in orbita e degli insediamenti in superficie.
C’è da dire che il lancio di Artemis I non è stato fortunato, ha subito vari intoppi.
Il rischio c’è sempre quando si comincia una nuova fase, anche se il programma Artemis eredita una parte delle tecnologie dallo Shuttle. Ricordo che i motori del razzo sono praticamente quelli dello Shuttle e anche i booster che danno la spinta sono basati su tecnologie anni 70. Nonostante questo, ci sono tante cose da mettere a punto, perciò si fa un passo alla volta. Anche perché il modulo per atterrare non è ancora pronto.
Non è strano che 50 anni dopo il programma lunare Apollo le tecnologie non siano ancora pronte?
Sono tecnologie diverse. Una delle caratteristiche dei nuovi velivoli è che saranno riutilizzabili. I costi saranno più bassi quindi rispetto al passato. Oggi l’esigenza non è più arrivare primi, ma rendere i viaggi lunari sostenibili sia economicamente sia sul piano ambientale.
Conosce i quattro astronauti selezionati per Artemis II?
Non personalmente ma fra il gruppo di astronauti messi in rosa c’è una astronauta che era nel mio corso, Stephanie Wilson.
Ci sarà anche un po’ di Italia nella missione?
L’Italia fa parte del progetto Artemis così come l’Esa (Agenzia spaziale europea, ndr). Spesso viene dimenticato che il modulo di servizio della capsula Orione è costruito in Europa.