L’autonomia differenziata (di Stelio W. Venceslai)
Nonostante i venti guerra si facciano sempre più forti e pericolosi, se tutto va bene e nessuno è tanto pazzo da accendere altri fuochi che porterebbero allo sterminio, l’estate in corso vedrà svolgersi un’altra battaglia in Italia, peraltro di gran lunga minore, sull’autonomia finanziaria delle Regioni.
Sono numerose le sollecitazioni che mi arrivano, da una parte o da un’altra, per una valutazione non di parte su questa iniziativa governativa, tanto cara alla Lega.
Diciamo subito che il dettato costituzionale è stato a suo tempo ampiamente violato quando il centrosinistra, con un colpo di mano, decise l’attuale assetto regionale.
Non a caso per far passare la riforma fu chiaramente detto che sarebbe stata indolore e non sarebbe costata una lira di allora, dichiarazione palesemente smentita dai fatti, com’è sotto gli occhi di tutti.
La riforma sarebbe stata l’occasione per abolire la stortura giuridica delle Regioni a statuto speciali, ingiustificate dopo decenni di pacifica unificazione italiana, concepite a seguito della guerra, male in Sicilia (con un Alta Corte di giustizia e la possibilità di formare addirittura un esercito regionale, poteri per fortuna mai esercitati), oppure per dirimere contrasti linguistici (in Alto Adige per gli allogeni di lingua tedesca), estendendo tale principio alla Val d’Aosta (per i pochissimi franco-parlanti), al Friuli Venezia Giulia per gli sloveno-parlanti, alla Sardegna, forse per ragioni insulari.
Queste regioni a statuto speciale sono un relitto del dopoguerra la cui differenziazione, rispetto al Paese, è solo in taluni casi linguistica. Il bilinguismo si sarebbe potuto rispettare senza problemi. Ma fu un’occasione perduta.
La riforma fu anche l’occasione per abolire le province, odiate perché “gestite” dai prefetti, d’origine umbertina e fascista.
Furono abolite, ma non si diedero le risorse necessarie e tutte le amministrazioni provinciali di allora rimasero in un vuoto (strade, istruzioni, sanità) che ha portato a un degrado tale che oggi si pensa di ricomporle, magari con strutture diverse. I prefetti odiati sono rimasti e i problemi si sono acuiti. Tra l’altro, una volta abolite, ne sono state istituite molte altre, in una contraddizione burocratica dissennata, tipica della costante ignoranza dei nostri legislatori.
L’evoluzione successiva ha visto talune regioni svilupparsi ed altre declinare. Le ragioni sono diverse: incapacità della classe dirigente, calo demografico, inefficienza delle strutture, mancanza di controlli centrali adeguati. In Calabria, ad esempio, sono quattordici anni che non si riesce ad avere un bilancio della sanità regionale. In Sicilia città come Agrigento sono rifornite di acqua due volte alla settimana, gli invasi sono vuoti e la siccità dilaga. Ovvio che la gente, per curarsi, vada al Nord. La sanità pubblica, nel Meridione, in pratica non esiste. Prolifera la sanità privata, spesso di marca mafiosa.
I Presidenti delle amministrazioni regionali (oggi si definiscono Governatori, come se fossimo negli Stati Uniti), scalpitano. Vogliono più poteri, soprattutto quelli delle regioni più ricche. Al contrario, quelli delle regioni più povere non ne vorrebbero di meno ma, invece di mettere a posto le loro finanze, vorrebbero che continuasse l’aiuto dello Stato.
In teoria, l’idea di mettere in concorrenza le regioni tra loro non è una cattiva idea. Confrontarsi sulla qualità dei servizi resi ai cittadini significa confrontarsi sull’efficienza e la capacità degli amministratori. Ovviamente le regioni più ricche, potendo disporre di più risorse, prevalgono su quelle più povere. Ma questo accade già da anni.
Invece di rimuovere queste difficoltà, l’iniziativa governativa rischia di codificarle e di accentuarle, relegando in una specie di ghetto le regioni più povere o con degli amministratori meno capaci.
L’opposizione sostiene che così si divide il Paese e che l’unità nazionale va in pezzi. Un’Italia spaccata i due non piace a nessuno e, forse, è solo un’esagerazione polemica, ma non è neppure una considerazione sbagliata.
Manca, però, il mea culpa che tutti i partiti, di maggioranza e di opposizione, dovrebbero recitare sulla qualità dei candidati proposti alle varie elezioni regionali. Se per ragioni di bacino elettorale si propone un candidato mezza calzetta e questi vince, i risultati saranno altrettanto miserevoli. Come sempre, non è tanto questione di risorse ma di uomini.
Così com’è concepita, l’autonomia differenziata consolida e rafforza le disparità esistenti e non rimuove le difficoltà che in questi anni sono emerse nella politica regionale.
La Lega, ben forte con eccellenti amministratori nel Settentrione del Paese, ha tutto l’interesse a spingere per l’attuazione dell’autonomia differenziata. Ma questo non è nell’interesse del Paese. Esistono troppi squilibri territoriali che vanno rimossi.
È invece nell’interesse del Paese accentuare i controlli (che difettano) perché l’impianto regionale migliori nel suo complesso, secondo priorità di buon senso. Va bene il ponte sullo Stretto, ma diamo acqua alla Sicilia, ripariamo le condutture, mettiamo sotto inchiesta gli amministratori incapaci, blocchiamo gli interessi degli acquaioli privati che lucrano sulle inefficienze regionali e sulla povera gente che fa la fila alle fontanelle, come se fossimo in Africa.
Le difficoltà si affrontano, non vanno esasperate. Il governo, se tale è nell’interesse di tutti, non può privilegiare solo una parte di quelli che lo sostengono.
Una bocciatura, molto probabile, al referendum, potrebbe avere un impatto politico devastante. Stupisce che la Meloni, così attenta a circumnavigare gli ostacoli, non abbia considerato questo progetto un grave errore di percorso da evitare.
Roma 07/08/2024
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)