Dopo il flop del Veneto, la Regione Emilia Romagna ha scelto la via “amministrativa” bypassando il Consiglio con l’emanazione di una delibera sul suicidio assistito che intende dare attuazione alla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale sul fine vita. Il provvedimento regionale istituisce un Comitato etico (Corec) chiamato a pronunciarsi sulle richieste di suicidio assistito. Diramate specifiche linee guida alle Asl, dando di fatto il via libera alla procedura per la quale è previsto un iter di non più di 42 giorni dalla data della richiesta. Il Sir ha chiesto ad Alberto Gambino, ordinario di Diritto privato presso l’Università Europea di Roma e prorettore vicario dell’Ateneo, nonché membro del Comitato nazionale di bioetica (Cnb), un parere sulla “scorciatoia” messa in atto dall’Emilia Romagna.
Professore, come valuta questa “forzatura”?
Ritengo legalmente erroneo procedere con una delibera che istituisce un Comitato locale per valutare i casi di assistenza al suicidio e, contestualmente, emanare relative linee guida per le Aziende sanitarie.
In Italia, come noto, non esiste una legge sull’assistenza al suicidio per i malati.
Dunque l’aiuto ad assumere un farmaco letale è e resta un reato. La Corte costituzionale ha tuttavia ritenuto non punibile chi presti tale assistenza di fronte a cinque requisiti necessari: malattia irreversibile, dolore insopportabile, sostegno vitale, consenso consapevole e percorso di palliazione. Dunque il reato esiste, ma il potenziale reo potrebbe non essere punito se il suo comportamento si attuasse in presenza dei cinque requisiti indicati.
Quanto alla procedura di assistenza, la Corte ha dato tre indicazioni: il paziente deve prima essere “coinvolto” in un percorso di cure palliative, poi occorre un parere di un Comitato etico e, infine, con riferimento alla prestazione di assistenza, non sussistono obblighi per i medici.
La Corte, pertanto, sollecita il legislatore nazionale a promulgare una compiuta disciplina normativa.
Quali sono, a suo avviso, i punti “insormontabili” del quadro delineato?
Anzitutto il fatto che l’aiuto al suicidio resta un reato, ma l’azione penale del Pubblico ministero potrebbe non essere esercitata se si ravvisassero i requisiti dettati dalla Corte. Ne consegue che nessuna normativa regionale può disciplinare tali requisiti, in quanto, valendo essi quali scriminanti di una norma penale, attengono alla competenza esclusiva della legge nazionale e del magistrato che la applica. Pertanto, anche i Comitati etici che valutano la presenza dei requisiti indicati dalla Corte nei casi di richieste di suicidio assistito devono corrispondere ad una omogeneità normativa nazionale, come del resto ha affermato il Comitato nazionale di bioetica nel parere reso e pubblicato in data 24 febbraio 2023. Se, invece, si prevedessero – come fa l’Emilia Romagna – Comitati locali, si configurerebbero inaccettabili diversificazioni nell’applicazione di scriminanti ad un reato, che – come ho detto – è invece competenza esclusiva della norma penale che vige sull’intero territorio dello Stato. Si pensi solo all’applicazione del requisito di “trattamento di sostegno vitale” che attualmente sta dividendo gli orientamenti dei giudici italiani, i quali – ovviamente – non possono essere “scavalcati” da regolamenti e indirizzi di Comitati locali ma soltanto da leggi.
Che significa emanare linee guida regionali, neppure votate in Consiglio, per disciplinare le procedure di suicidio assistito?
Significa sciogliere con un atto amministrativo alcuni nodi lasciati aperti dalla Corte e che la Corte stessa ha rinviato ad una legge nazionale, tra cui la relazione tra l’aiuto al suicidio e il necessario percorso di cure palliative, nonché la fase dell’esecuzione dell’assistenza al suicidio. Ora le linee guida dell’Emilia Romagna, così come le proposte pendenti davanti a vari Consigli regionali, prendono posizione e compiono scelte soggettive con la conseguenza che in alcune regioni potrà attivarsi la procedura dopo una mera proposta di palliazione, in altre potrà invece richiedersi che la palliazione sia effettiva, in altre ancora si riterrà sufficiente che sia il paziente ad escluderla sul nascere. Tale è il dibattito in corso sull’espressione “coinvolgimento in un percorso di cure palliative” indicata dalla Corte costituzionale quale scriminante del reato e tale, dunque, potrebbe essere l’esito interpretativo regione per regione. Ricordo che l’interpretazione di una norma dello Stato – e le sentenze della Corte costituzionale, valgono come norme nazionali – spetta soltanto ai magistrati o ad un atto normativo dell’organo legislativo parlamentare e non certo alle Regioni, che, ribadisco, non hanno competenza alcuna in tema di ordinamento penale e di ordinamento civile.
E per quanto riguarda l’esecuzione della procedura di assistenza al suicidio?
La Corte non affronta questo aspetto, limitandosi a dire che non c’è alcun obbligo per il personale sanitario e, dunque, per il Servizio sanitario, i cui prestatori di servizi sono appunto medici e infermieri. Anche qui, se ogni Regione facesse da sé, significherebbe creare zone territoriali in cui si potrà essere aiutati a suicidarsi con principi, modalità e criteri di assistenza diversificati, cosa assolutamente contraria all’interesse nazionale e alla tutela della salute e della vita di ogni malato.
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GIUSTIZIA & IMPUNITÀ
Strage di Ustica, la “tesi del missile” verità processuale da oltre 11 anni. Le sentenze della Cassazione civile che hanno cancellato le false piste della bomba e del cedimento strutturale
Nel verdetto della Cassazione civile si legge che il quarto ricorso dei ministeri dei Trasporti e della Difesa viene respinto perché “… è abbondantemente e congruamente motivata la tesi del missile…”. Poche righe che diventano il primo sigillo ufficiale all’abbattimento del Dc9 in uno scenario di guerra. Gli stessi magistrati poche righe dopo aggiungono che “il giudice di merito non è tenuto a dar conto di ogni argomento contrario alla tesi da lui accolta”. I radar civili e militari non vigilarono come avrebbero dovuto sui cieli italiani e per questo i ministeri dovevano risarcire. La Suprema corte, confermando gli indennizzi, era andata addirittura oltre i magistrati di Palermo che in uno dei verdetti, avevano innanzitutto stabilito che nessuna bomba era a bordo dell’aereo che si inabissò a 3000 metri di profondità; perché quella sera su Tirreno era in corso un’azione di guerra e l’aereo dell’Itavia, su cui viaggiavano quattro membri dell’equipaggio e 77 passeggeri, era stato usato come schermo o meglio uno scudo per impedire ai radar di mostrare l’affollamento del cielo. A abbattere il Dc9 fu un missile o una ”quasi collisione” sostennero i giudici siciliani, non un ordigno. ”Tutti gli elementi considerati – scrisse il giudice Paola Proto Pisani – consentono di ritenere provato che l’incidente si sia verificato a causa di un intercettamento realizzato da parte di due caccia di un velivolo militare precedentemente nascostosi nella scia del Dc9 al fine di non essere rilevato dai radar, quale diretta conseguenza dell’esplosione di un missile lanciato dagli aerei inseguitori contro l’aereo nascosto oppure di una quasi collisione verificatasi tra l’aereo nascosto ed il Dc9”.
Sei anni dopo, il 22 maggio del 2018, è ancora la Cassazione a stabilire un risarcimento. In questo caso i parenti da risarcire erano gli eredi del proprietario dell’Itavia. Dopo il disastro furono sospese le attività di volo (10 dicembre del 1980) e tra il 1980 e il 1981 l’Autorità aeronautica dichiarò decaduti i servizi di linea e venne decisa la risoluzione delle convenzioni esistenti. Ancora i ministeri della Difesa e dei Trasporti i responsabili per la Cassazione: non agirono mentre nello spazio aereo italiano assegnato a Itavia entravano “aeromobili da guerra non autorizzati e non identificati” e “senza che fossero adottate misure per evitare”. Un verdetto che quindi ha ulteriormente ribadito la “tesi del missile”. La Cassazione a sezioni unite si sottolineava l’”omessa attività di controllo e sorveglianza della complessa e pericolosa situazione venutasi a creare nei cieli di Ustica” e l’aereo era caduto in mare a causa “dell’esplosione esterna dovuta a missile lanciato da altro aereo“. Anche in questo caso una sentenza in contrasto, ma successiva a quella sui generali nel filone penale. “Se i ministeri avessero adottato le condotte loro imposte dagli obblighi di legge, – scrive la Suprema Corte – l’evento non si sarebbe verificato, posto che attraverso un’adeguata sorveglianza della situazione dei cieli sarebbe stato possibile percepire la presenza di altri aerei lungo la rotta del Dc9 e, quindi, adottare misure idonee a prevenire l’incidente”. “Ad esempio non autorizzando il decollo, assegnando altra rotta, avvertendo il pilota della necessità’ di cambiare rotta o di atterrare onde sottrarsi ai pericoli connessi alla presenza di aerei militari, infine, intercettando l’aereo ostile con aerei militari italiani“. Itavia, costretta a chiudere i battenti da una campagna denigratoria, era stata fondata dall’imprenditore Aldo Davanzali, morto nel 2005. A prendere il testimone nella battaglia contro lo Stato italiano, sono state le figlie Luisa e Tiziana. Con una sentenza successiva è stato stabilito che il risarcimento per gli eredi di Davanzali sia di 330 milioni. Quando nel 2013 era stato accolto il ricorso degli eredi i giudici della Cassazione avevano stabilito che le indagini erano state inficiate da una “significativa attività di depistaggio“ che poteva avere contribuito concretamente a determinare il crac della compagnia aerea.