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Sanità. Don Angelelli (Cei): “Rimettere la relazione al centro della cura. E nessuno resti indietro”

Si è concluso il 15 maggio a Verona il XXV Convegno nazionale di pastorale della salute sul tema “Non ho nessuno che mi immerga. Universalità e diritto di accesso alle cure” (7-15 maggio). Al centro dei lavori un focus sulle povertà sanitarie e la firma di un Manifesto da parte dei presidenti delle Federazioni degli ordini nazionali delle professioni sanitarie – 11 Federazioni, per un totale di 1,5 milioni di curanti – condiviso dall’Ufficio nazionale per la pastorale della salute Cei, per contrastare queste povertà e le disuguaglianze di accesso alle cure. All’indomani dell’evento il bilancio a caldo con don Massimo Angelelli, direttore del suddetto Ufficio, e le prospettive per il futuro, anche in vista del Giubileo 2025.

Foto Calvarese/SIR

Un elemento molto interessante è stata l’alleanza tra pastorale della salute e Federazioni degli ordini professionali, che ha portato alla sottoscrizione di un manifesto per un Ssn più equo, solidale, sostenibile e universale. Quali i prossimi sviluppi?
Siamo grati alle Federazioni per avere accettato l’invito della Cei a fare un focus sulle povertà sanitarie, tema di scottante attualità. Una bella esperienza di collaborazione e condivisione, che tuttavia è solo la prima tappa del percorso di avvicinamento al Giubileo 2025 che faremo insieme agli Ordini delle professioni sanitarie. Il prossimo appuntamento, il 15 novembre a Roma, avrà uno sguardo sui sistemi sanitari europei e vedrà un confronto con tre Paesi: Germania Francia e Spagna; infine il grande evento del Giubileo dei malati e del mondo della sanità (5-6 aprile 2025), dedicato ad un focus mondiale e all’approccio One Health per una salute globale.

A Verona la dottoressa Chris Brown, Head Who European Office for Investment for Health and Development, ha osservato che il nostro non è l’unico Paese a misurarsi con il tema della povertà sanitaria..
L’Italia ha ancora un ottimo servizio sanitario nazionale che può rispondere a molte esigenze; quello che dobbiamo combattere è però la tendenza a diventare un sistema per pochi.

La sfida è come mantenere universalistico il Ssn.

I 4,5 milioni di persone che rinunciano alle cure e gli oltre 40 miliardi di out of pocket sono un dato allarmante. Come vede il futuro del Ssn?
Siamo ad un punto di svolta. Nato con la legge 883 del 1978, in un contesto storico e sociale molto diverso da quello di oggi, il Servizio sanitario nazionale ha concluso i suoi primi 45 anni di vita, dopo il cambiamento epocale legato al Covid. La sfida è il suo aggiornamento mantenendone, come ho detto prima, la vocazione universalistica. Il problema però non è solo finanziario: ci sono i fondi del Pnrr e l’incremento del finanziamento alla sanità, 136 miliardi, è il più alto degli ultimi anni; ritengo che il nodo sia soprattutto organizzativo e gestionale. Occorre ripensare la rete dei servizi sul territorio, ridisegnare la filiera sanitaria e sociosanitaria. Il sistema centralizzato di hub per acuti non funziona se manca la rete di accompagnamento nei post acuti. Occorre inoltre investire di più sui professionisti e valorizzarli:

il Servizio sanitario nazionale è costituito soprattutto da persone che curano persone.

E’ sotto gli occhi di tutti il sottorganico di medici, infermieri e Oss…
Il tema dei medici sta arrivando a maturazione, probabilmente a partire dal 2027 ne avremo un numero sufficiente. Rimane invece cronica la carenza di infermieri, figure a contatto diretto con la cura, ed è il momento di ripensare anche la figura dell’operatore sociosanitario. Vi sono diversi progetti fermi in Parlamento; è tempo di potenziare questa figura: il cosiddetto “operatore sociosanitario specializzato” potrebbe giocare un ruolo strategico nel sistema di cura.

Oggi il paradigma di cura sembra più incentrato sull’erogazione di prestazioni che sulla persona.
L’attuale paradigma tecnocratico, legato alla convinzione (e all’illusione) che strumenti e tecnologia – compresa l’intelligenza artificiale – possano risolvere quello che non riesce a risolvere l’uomo, sta mostrando i suoi limiti, come anche il paradigma inteso come sistema di erogazione di servizi e non come relazione di cura.

Questo è il punto: la relazione di cura, la profonda differenza tra curare, essere curati, e “sentirsi” curati, cioè ascoltati e sostenuti.

E non è un optional. Il Ssn va ricollocato all’interno di questa prospettiva di maggiore prossimità con i sofferenti, altrimenti non ne usciamo.

Foto Giovanna Pasqualin/SIR

Ieri mons. Redaelli, presidente della Commissione episcopale per il servizio della carità e la salute, ha espresso l’auspicio che quanto sarà vissuto più intensamente durante il Giubileo divenga la normalità dell’azione pastorale della Chiesa, e vi ha esortato a dare vita ad una sorta di pastorale della salute della porta accanto. Come vi sentite interpellati?
Mons. Redaelli ci ha incoraggiati a proseguire un cammino già da noi intrapreso con il potenziamento del ruolo dei ministri straordinari della Comunione come ministri di comunione tra comunità cristiana e case dei malati. Il suo pensiero ci sprona ad andare avanti sulla strada di una pastorale sempre più integrata con il territorio, e questo interpella anche i nostri confratelli parroci per disegnare insieme un’azione pastorale di prossimità, come ci ha sempre chiesto Papa Francesco: uscire dai nostri luoghi e andare là dove c’è bisogno di annuncio del Vangelo e di testimonianza di cura.

Autonomia differenziata: secondo molti osservatori non farà che ampliare le disuguaglianze tra Nord e Sud portando al collasso la sanità di queste ultime regioni, mentre al Nord si profilerà un rischio sovraccarico da mobilità sanitaria.
Un rischio reale perché al Centro e al Sud manca una sanità di base in grado di garantire una qualità minima di servizi. Se non riusciremo a potenziarli aumenterà certamente la mobilità verso il Nord con enormi costi aggiuntivi per le famiglie anche in termini di trasporti, alloggi, assistenza. E’ urgente supplire alle carenze del Centro-Sud e per questo

non c’è bisogno dell’autonomia differenziata, ma occorre applicare i criteri dei Lea che non vengono garantiti;

tutta una serie di servizi vanno verificati e potenziati, altrimenti non partiranno mai.

La sfida non è raggiungere performance eccezionali, ma parametrare il tutto affinché nessuno resti indietro.

Che messaggio di speranza lascia il convegno di Verona
La nostra preoccupazione è che nessuno rimanga solo ad affrontare l’esperienza della sofferenza e della malattia. Dobbiamo costruire una grande rete di solidarietà di comunità cristiane che si mobilitino sul territorio per farsi prossime ai sofferenti. Sappiamo che la cosa peggiore è affrontare la malattia in solitudine, ma se c’è una rete di supporto e fraternità, anche per le cose semplici, tutto diventa più accettabile.

“Con i sofferenti, pellegrini di speranza” è il tema del vostro 26° Convegno nazionale, in programma a Roma dal 12 al 14 maggio 2025.
Un tema che è la nostra mission, quella che tentiamo di realizzare ogni giorno su tutto il territorio grazie alla rete di sostegno delle pastorali della salute diocesane.

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Sanità. Don Angelelli: “4,5 milioni esclusi dalle cure. Cei e professioni insieme per una salute equa e accessibile”

La Commissione episcopale per il servizio della carità e della salute e l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Conferenza episcopale italiana (Cei), in sinergia con le undici Federazioni e i Consigli nazionali delle professioni sanitarie e sociosanitarie – che rappresentano oltre 1,5 milioni di professionisti – hanno inaugurato un percorso preparatorio per il Giubileo degli ammalati e del mondo della sanità del 2025, dedicato alle povertà sanitarie per una salute equa e accessibile. Ne ha parlato oggi, 7 maggio, don Massimo Angelelli, direttore Ufficio nazionale pastorale della salute Cei, in conferenza stampa a Roma con i rappresentanti delle professioni sanitarie e sociosanitarie d’Italia. “Il tema degli esclusi dall’accesso alle cure – ha detto Angelelli – sta diventando un’emergenza sempre più seria. Se prima si poteva pensare che riguardasse alcune fasce ridotte di popolazione molto svantaggiate, oggi sappiamo che

4,5 milioni di persone non possono curarsi mentre la spesa privata nel 2022 ha superato i 40 miliardi”.

“Ci stiamo allontanando dal dettato costituzionale che prevede l’accesso universale alle cure e la gratuità per gli indigenti. Si stanno curando solo i benestanti”, l’allarme lanciato dal sacerdote.

Un percorso in tre tappe. Il percorso prevede tre fasi distinte, ognuna dedicata all’analisi delle principali povertà sanitarie. La prima, il convegno Le povertà sanitarie in Italia, si terrà venerdì 10 maggio a Verona (Università degli studi, ore 15 – 19) e avrà come focus la situazione del nostro Paese. Il secondo appuntamento, il prossimo 15 novembre a Roma, analizzerà la situazione europea; l’ultimo, il 5 aprile 2025, sarà dedicato ad una visione della dimensione globale. “Analizzare chi e quanti sono coloro che, nel nostro Paese, non hanno accesso alle cure necessarie o non possono permettersi l’acquisto di farmaci”, è l’obiettivo del convegno del 10 maggio, ha spiegato ancora Angelelli. Nella città scaligera esperti del settore, economisti, ricercatori e rappresentanti istituzionali, uniti ai professionisti sanitari, baluardo della tutela della salute pubblica, discuteranno le soluzioni e le strategie per migliorare l’assistenza sanitaria nazionale. Obiettivo,

“una sanità più equa e accessibile”.

Il convegno di Verona. Tra i relatori Chris Brown, direttore Ufficio europeo per gli Investimenti e lo sviluppo della salute dell’Oms; Ketty Vaccaro, sociologa e responsabile Area welfare e salute del Censis; Silvio Brusaferro, professore ordinario di Igiene generale e applicata presso l’Università degli studi di Udine; Cristiano Camponi, direttore generale dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà (Inmp). Dal ministero della Salute, oltre al ministro Orazio Schillaci, parteciperanno Alberto Siracusano, coordinatore del Tavolo di lavoro tecnico sulla salute mentale, e Americo Cicchetti, direttore generale della programmazione sanitaria.

Foto Ufficio pastorale salute Cei/SIR

Manifesto per una sanità poi inclusiva. Al termine dei lavori, ha annunciato Angelelli, “i presidenti delle Federazioni e dei Consigli nazionali delle professioni sanitarie – Fnomceo, Fnovi, Fofi, Fnopi, Fnopo, Fno Tsrm e Pstrp, Cnop, Fnob, Fncf, Fnofi, Cnoas – tenteranno, durante la tavola rotonda finale, di individuare le soluzioni per una sanità del futuro più inclusiva e firmeranno un manifesto contro le povertà sanitarie. Noi, come Conferenza episcopale – ha concluso– andremo ad analizzare quali sono le nostre risposte possibili” attraverso “il Terzo settore di ispirazione cristiana.

C’è bisogno di migliore connessione tra sanitario, sociosanitario e assistenziale”.

Cura è relazione. “Occorre ritornare alle fondamenta della nostra professione per dare senso al carattere universalistico e solidaristico del nostro Ssn. Preoccupano i dati sulla rinuncia alle cure, ma anche sulla stanchezza di nostri colleghi che rinunciano alla professione o si trasferiscono all’estero”. Lo ha detto Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi (Federazione ordini professioni infermieristiche), secondo la quale è necessario “ricomporre il nostro sistema salute con sinergie virtuose tra le sue componenti” e “rimettere al centro il cittadino e i professionisti con i loro bisogni, capitale intangibile della nostra sanità pubblica che va salvaguardato e curato, altrimenti – ha sottolineato – per noi infermieri diventa difficile trasformare la cura in relazione. Questo compito di umanizzazione è insostituibile,

non possiamo rinunciare al rapporto di vicinanza e fiducia con la persona assistita”.

“Oggi si rischia, e purtroppo accade, di privare le persone di una parte delle cure fondamentali di cui hanno bisogno con una conseguente pericolosa deriva del nostro Servizio sanitario nazionale. Registriamo non solo una scarsa attrattività, ma anche una drammatica carenza di personale sanitario”, l’allarme lanciato da Teresa Calandra, presidente Federazione nazionale Ordini delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione (Fno Tsrm e Pstrp), che ha inoltre auspicato

“una doverosa riflessione sui tanti morti sul lavoro. Bisogna fare meglio e puntare con urgenza e concretamente sulla prevenzione,

i nostri tecnici della prevenzione nell’ambiente e nei luoghi di lavoro devono essere massimamente valorizzati”.

Impegno per equità sociale. Per Mirella Silvani, vicepresidente Cnoas (Consiglio nazionale ordine assistenti sociali), “il mancato accesso a cure, programmi di prevenzione, assistenza continuativa e adeguata per una vita dignitosa, genera problemi che faranno arretrare lo stato di salute della popolazione e danneggeranno il tessuto sociale e produttivo del nostro Paese. Un attacco all’equità sociale e al benessere della nostra società che, come assistenti sociali, contrasteremo con forza”. “Siamo qua – ha detto Silvia Vaccari, presidente nazionale Fnopo (Federazione ordini professioni ostetriche) – perché purtroppo una donna su dieci è in povertà e non ha accesso alle cure. Dovremmo lavorare tutti insieme sulle determinanti salute; dalla salute della donna dipende quella della famiglia”.

Ssn strumento di giustizia. “Chi è costretto per motivi economici a rinunciare a curarsi rappresenta una sconfitta per il nostro Paese. Come dice Papa Francesco

il Servizio sanitario nazionale è uno strumento di giustizia e pace.

Dobbiamo valorizzare questo patrimonio, fatto anche e soprattutto delle straordinarie competenze delle professioni sanitarie e socio-sanitarie”. Così Filippo Anelli, presidente della Fnomceo, intervenuto in videocollegamento. “Nostro impegno – ha concluso – è lavorare per contrastare le povertà sanitarie e per sostenere il Ssn quale strumento di unità e coesione sociale”. “Un tema non solo economico, ma sociale”, ha osservato Andrea Mandelli, presidente Fofi (Federazione ordini farmacisti italiani), assicurando l’impegno della Federazione nel cammino avviato dalla Cei. “Nonostante i 140 miliardi” circa “di investimento dello Stato, in Italia si sta delineando sempre di più l’incapacità di poter fruire della sanità”. “Noi farmacisti abbiamo una grande opportunità: essere a contatto col paziente, forse più degli altri professionisti, perché siamo sulla strada”. Le risposte alla povertà sanitaria, ha concluso, “non possono venire solo dai professionisti, ma vogliamo fare la nostra parte”.

 

 

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Giornata del malato. Don Angelelli: “Recuperare la dimensione relazionale della cura ripensando il sistema sanitario”

“’Non è bene che l’uomo sia solo’. Curare il malato curando le relazioni” è il tema del Messaggio di Papa Francesco in occasione della XXXII Giornata mondiale del malato che ricorre l’11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes. Ne parliamo con don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei.

Quest’anno il Papa si sofferma sull’importanza delle relazioni, attribuendo ad esse un valore terapeutico. Perché questa sottolineatura

Credo sia una delle eredità del Covid, evento sanitario che ha coinvolto le popolazioni ma avuto molti effetti collaterali, tra cui quello che è passato alla storia come isolamento sociale. Il distanziamento, pur necessario per il contenimento dei contagi, ha di fatto costituito una grave violenza alle nostre vite. Per questo Francesco si rende conto che esiste una ferita da sanare proprio nelle relazioni, dimensione insita nel cuore di ogni persona. Con il Covid si è scoperto quello che almeno noi dal punto di vista sanitario sapevamo:

la componente relazionale è componente di cura a tutti gli effetti.

foto SIR/Marco Calvarese

Il Papa parla di relazioni del malato “con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari – con il creato, con sé stesso”. Quindi invita a prendersi cura della persona malata nella sua inscindibile totalità di componenti fisico-biologica, emotiva, ma anche spirituale.

È proprio così. Secondo la magnifica definizione del card. Sgreccia,

la persona è una totalità unificata di corpo, mente e spirito.

Ma in questi decenni il sistema di cura ha perso di vista questa totalità e si è concentrato quasi esclusivamente sulla dimensione biologica, sul corpo, sulla patologia da combattere. Ma la patologia non esiste a prescindere dalla persona. Quindi un sistema di cura integrale, come vuole essere il sistema di cura, deve prendere in carico anche la dimensione psichica e spirituale. Luca Argentero, nella terza serie della fiction “Doc – Nelle tue mani” in onda in questi giorni, parlando in una scena con un suo specializzando, fa dire al suo personaggio, il dottor Fanti:

“Se noi curiamo solo il corpo della persona, la curiamo al 50%”.

Io sono perfettamente d’accordo. Occorre recuperare l’asse portante della cura che è la relazione.

Il Papa mette in guardia dalle cure ridotte e mere prestazioni sanitarie e sottolinea il bisogno di una vicinanza piena di compassione e tenerezza sul modello del Buon samaritano, capace di “rallentare il passo e farsi prossimo”. Affermazione bellissima e ricca di significato, ma poco praticabile: come si fa oggi a rallentare il passo in ospedali e ambulatori dove l’attività è scandita da ritmi frenetici?

Ci troviamo a fare i conti con un importante scollamento tra l’erogazione delle prestazioni e la cura. In alcuni casi riusciamo a curare i pazienti, in molti casi anche a guarirli, ma non riusciamo a farli sentire curati. La persona riceve la prestazione, ma non si sente curata, perché quest’ultima dimensione appartiene al tema delle relazioni. Non abbiamo tempo, perché il sistema è compresso sul concetto di prestazione. Non a caso rileviamo una grande fatica, anche professionale, da parte dei curanti – medici e infermieri – profondamente insoddisfatti perché si sentono “distributori di prestazioni” mentre sono nati per relazionarsi con il paziente e avviare un percorso di cura. Argentero cita anche una mia affermazione: “Noi siamo persone che curano persone”. Insomma,

occorre recuperare la dimensione umano-relazionale della cura.

Bisogna andare verso un sistema che permetta questo, ma occorre avere un numero sufficiente di curanti che si possano relazionare con un numero adeguato di pazienti.

Sono invece davanti agli occhi di tutti le immagini di Pronto soccorso congestionati, file d’attesa interminabili, cronica carenza di medici e infermieri costretti a turni massacranti, risorse finanziarie inadeguate… Oltre al modello di cura è in crisi il rapporto di fiducia medico-paziente, come dimostrano la medicina difensiva e le continue aggressioni ai sanitari.

Questo è il nodo fondamentale. Abbiamo un servizio sanitario che funziona, e funziona bene. Eroga molte prestazioni. Potrebbe funzionare meglio? Certo, ci sono delle distorsioni, lo sappiamo, però si tratta di un sistema che fondamentalmente tiene, ma la sfiducia che si è creata nasce dal fatto che è stata umiliata la dimensione relazionale. Abbiamo da poco celebrato i 45 anni del Ssn, e lo stesso presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha affermato che è un sistema da difendere e aggiornare. Nel 1978, quando è stato creato il servizio sanitario nazionale, il tessuto sociale, la ricerca e il modo di fare medicina erano completamente diversi. C’è bisogno di un ripensamento, e il Pnrr in questo momento sta fallendo i suoi obiettivi perché non vediamo i risultati di un ripensamento globale del sistema in cui le forze vengano ridistribuite e le opportunità ricalcolate.

L’attuale modello di Ssn è vecchio e superato; va ripensato nei ruoli, nella distribuzione sul territorio, nelle funzioni e nei servizi.

Il 25 gennaio è stato presentato alla Camera dei deputati il manifesto Dignitas curae per una nuova sanità, un progetto che mette al centro della cura la persona e non la malattia…

Sottoscrivo pienamente il manifesto e rinvio la responsabilità alla politica perché è un tema esclusivamente di riflessione, di riorganizzazione e di volontà politica. Se la  società si evolve e cambia da sé, i sistemi vanno invece modificati dalle persone. In questo momento abbiamo un disallineamento tra esigenze sociali e risposta dello Stato. Va riallineato il sistema. Il Covid ha suonato la sveglia; ha dato uno schiaffo a tutto il sistema. Se non cogliamo questa lezione, decine migliaia di persone saranno morte invano.

 

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Cammino sinodale. Don Angelelli (Cei): “Comunione, partecipazione, missione è anche il nostro stile operativo”

“Fin dall’inizio del Cammino sinodale la pastorale della salute si è sentita immediatamente coinvolta perché è una pastorale che opera al di fuori dei contesti ecclesiali, all’interno delle strutture sanitarie a contatto con i curanti, i malati e la sofferenza. Abbiamo la possibilità di incrociare le vite di tante persone che spesso in condizioni normali non frequentano i luoghi ecclesiali: i non credenti, i delusi, tutti coloro che a diverso titolo hanno accantonato il tema di Dio”. Esordisce così don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei che insieme ad altri tre Uffici ha dato vita ad un vero e proprio “cantiere sinodale”.

foto SIR/Marco Calvarese

Don Angelelli, pastorale della salute come luogo privilegiato di ascolto?
Sì; il nostro servizio ci consente di essere antenne, recettori sul territorio di tante sensibilità e di contesti diversi; ci permette in particolare di ascoltare chi ci guarda da fuori, da lontano. Una rete relazionale che abbiamo messo a frutto per poter contribuire a questa grande fase di ascolto. Del resto, la pastorale della salute si nutre proprio di ascolto: quello che facciamo ogni giorno incontrando e accompagnando la sofferenza delle persone. E ci sentiamo dei privilegiati.

Perché?
Perché in questo atteggiamento di ascolto incrociamo le domande esistenziali di tanta gente.

Il momento della malattia e della sofferenza fa emergere fondamentalmente la domanda di Dio.

Dall’ascolto all’avvio di un “cantiere sinodale” con altre realtà Cei. Di che si tratta
Abbiamo voluto sviluppare il tema della vulnerabilità come elemento comune a quattro uffici e servizi nazionali della Cei – pastorale della salute, delle persone con disabilità, tutela dei minori, Caritas Italiana – avviando

un cantiere sinodale tra vulnerabilità e corresponsabilità

con l’obiettivo di sviluppare nuovi modelli di collaborazione, rafforzare sinergie e progettualità comuni, praticare un ascolto condiviso degli scenari di vulnerabilità nei diversi ambiti e territori, realizzare un censimento nazionale di questi ambiti condivisi e, infine, restituire in una sintesi quanto raccolto per progettare scenari di interventi pastorali futuri. Siamo tutti chiamati a trasformare lo sguardo per individuare le vulnerabilità dei nostri fratelli e sorelle; al tempo stesso è necessario, quando ci si ritrova vulnerabili, non avere timore di chiedere aiuto. Come ripete Papa Francesco, nessuno si salva da solo, ma in virtù dell’incontro con l’altro.

Come si è sviluppato finora il lavoro del cantiere?
Si è snodato lungo quattro direttrici:

individuare, sostenere, proteggere, accompagnare.

Siamo partiti dall’analisi degli scenari di vulnerabilità presenti sui territori di azione pastorale di ogni ufficio per condividerli e mettere in luce quelli di maggiore rischio, per poi analizzare gli strumenti già a disposizione e le azioni già in essere a sostegno degli scenari individuati. A seguire, l’esame degli interventi di prevenzione e cura più efficaci e il tipo di formazione specifica necessaria, nonché l’ipotesi di scenari condivisi con altri ambiti di azione pastorale. A conclusione del percorso si terrà un evento nazionale con i responsabili degli uffici e servizi diocesani per condividere quanto realizzato e porre le basi per linee condivise di progettazione pastorale in vista di uno strutturato cammino comune.

Comunione, partecipazione, missione le parole chiave del Sinodo. Come vi interpellano?
Tre atteggiamenti nei quali ci ritroviamo molto, propri della pastorale della salute. Comunione è per noi presenza empatica, apertura e accompagnamento dell’altro. Attraverso la relazione con il paziente, il personale sanitario e i familiari riusciamo a fare una proposta di Dio e a testimoniare una presenza nei luoghi del dolore. Partecipazione significa essere presenti fisicamente, sempre. Solo così cappellani ospedalieri e assistenti spirituali possono prendere parte concretamente all’esperienza della sofferenza. Per quanto riguarda la missione, ci consideriamo missionari in ambienti diversi da quelli tradizionali. Proprio perché

non siamo una Chiesa in uscita, ma una Chiesa che è da sempre stata fuori abitando le periferie esistenziali per annunciare con la presenza e la testimonianza.

Nella mia esperienza di cappellano mi sono a volte imbattuto in situazioni molto dolorose di fronte alle quali non trovavo parole da dire, ma sono stato ringraziato per esserci. Malattia e sofferenza mettono in contatto con la verità.

Che cosa si aspetta dal Sinodo, quali attese?
Ero presente quando i vescovi decisero di chiamarlo “Cammino sinodale”. All’interno della loro assemblea si respirava un bellissimo clima e mi fu chiaro fin dall’inizio che non dovevamo aspettarci un risultato ovvio, ma essere aperti per cercare di accogliere questo vento dello spirito che attraversava la Chiesa. Non so che cosa aspettarmi, ma non lo so per scelta. Voglio vivere questo cammino pienamente, senza la certezza di sapere a che cosa mi porterà ma con la coscienza e la profonda fiducia che

è lo Spirito a muovere il popolo di Dio.

In questo percorso di discernimento e di comprensione, senza risultati scontati, la Chiesa troverà certamente nuova linfa e nuove forze per annunciare il Vangelo.

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