MA DOVE VIVE LA MELONI QUANDO DICE CHE IL “SUD È LA LOCOMOTIVA ECONOMICA D’ITALIA

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La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha più volte dichiarato nel corso degli ultimi giorni, a mo di bandiera fiera di sventolare che, il Sud Italia nel corso del 2023 si sia guadagnato l’appellativo di locomotiva del paese.
La Premier, dimentica di specificare che due anni di crescita superiore alla media nazionale hanno dato solo l’illusione che la “convergenza” inseguita per decenni fosse a portata di mano per il Mezzogiorno. In realtà lo slancio del post-Covid, unito alla forte spinta degli investimenti del Pnrr, si sta già esaurendo: il Rapporto Svimez prevede per il biennio 2025-2026 un “ritorno alla normalità”, e cioè a una crescita più stentata per il Sud, rispetto alle altre aree del Paese.
Se quindi il 2024 si chiuderà con un rialzo del Pil dello 0,9% per il Mezzogiorno, contro una media dello 0,7% per il Centro-Nord, nel 2025 invece, a politiche invariate, il Sud metterà a segno solo una crescita dello 0,7%, contro l’1% per il resto del Paese. E per il 2026 il divario sarà della stessa misura (+0,8% contro +1,1%).
Sulla frenata del ritmo di crescita al Sud incidono soprattutto il rallentamento degli investimenti pubblici, il rientro delle politiche di stimolo agli investimenti privati (a cominciare dallo stop alla decontribuzione Sud) e i tagli ai sostegni per le famiglie (la riforma del reddito di cittadinanza ha ridotto da oltre 850 mila a meno di 480 mila nuclei familiari la platea dei beneficiari).
Va da sé che giochino un ruolo non secondario anche le debolezze croniche del Mezzogiorno, che due anni di crescita sostenuta non hanno di certo scalfito.
Se lavoro c’è è un lavoro sostanzialmente povero, che ha un impatto negativo sui consumi: anche al Sud in questi anni è aumentata l’occupazione, tra il 2019 e il 2024 si registrano 330 mila unità in più, ma ci sono tre milioni di lavoratori sottoutilizzati o inutilizzati, 1,4 milioni di lavoratori poveri, e i tre quarti degli occupati a tempo parziale subiscono anche il part-time involontario, contro una quota del 46,2% al Centro-Nord.
In sostanza: se si guadagna poco, se si viene retribuiti poco si spende poco.
Una situazione che appare senza via d’uscita, e che spinge i giovani alla fuga: negli ultimi dieci anni 200 mila laureati hanno lasciato il Mezzogiorno per il Centro-Nord, facendo diventare giorno dopo giorno le regioni del Sud sempre più un deserto.
Pesa la scarsa offerta di servizi pubblici, dalla scuola alla sanità. E nei prossimi anni potrebbe andare peggio, visto il blocco del turnover al 75%.
La segretaria della Fp Cgil Serena Sorrentino ricorda che: «Rischiamo di arrivare da qui al 2026 e verificare che, per esempio, abbiamo costruito grazie al Pnrr una serie di case di comunità, ospedali o asili nido che non potremmo utilizzare perché manca il personale, o di dover delegare ai privati la gestione dei servizi, aumentando le diseconomie». Gli investimenti del Pnrr al Sud valgono 1,8 punti percentuali di Pil, più che per il resto del Paese, ma vanno collegati ai fondi di coesione e a un progetto più ampio di rilancio, che passa anche per la Zes unica.
Ancora una volta una mancanza di coordinazione e organizzazione sostanziale.

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