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Attualità

*Carburanti: né Stato, né mercato* di Vincenzo D’Anna*

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*Carburanti: né Stato, né mercato*

di Vincenzo D’Anna*

Questo articolo ha necessità di un’introduzione che richiami alcuni principi di economia politica esposti nel modo più semplice possibile perché i comuni lettori possano ben comprenderne il significato. Più in generale parleremo di come il popolo italiano stia pagando i beni energetici, in primis i carburanti, a prezzi di strozzinaggio indipendentemente dal costo delle materie prime, ovvero del petrolio. Da anni ci sforziamo, anche dalle colonne di questo giornale, di denunciare i guasti dello statalismo, ovvero di una nazione che si professa essere di ispirazione liberale ma che, all’atto pratico, ha instaurato un regime economico di tipo socialista. In un apparato liberale vige, infatti, un sistema basato sul libero mercato di concorrenza, certamente regolato e controllato, sia dalle leggi che dall’Autority della Borsa Valori (la Consob). La regola è quella della libera contrattazione tra chi vende e chi acquista in ragione dei reciproci interessi. Insomma: il meccanismo della domanda e dell’offerta, sia sui prodotti naturali sia sui cosiddetti “beni scarsi” che sono quelli che vengono prodotti e poi immessi sul mercato, oppure le materie di disponibilità limitata (oro, diamanti, ecc.). In questa tipologia di “Paese” non c’è ingerenza delle istituzioni (e del governo) in economia, men che meno lo Stato interferisce con provvedimenti calati dall’alto sulle dinamiche economiche, creando turbative dell’ordine naturale. Viceversa nei regimi socialisti, ovvero statalisti, gli apparati centrali si arrogano il diritto di pianificare ed intervenire direttamente nei processi di libero scambio, di instaurare privative e Monopoli. Lo Stato stesso svolge il ruolo dell’imprenditore, quasi sempre in regime di vantaggio e di esclusività, in nome di superiori presunti interessi collettivi da tutelare. Quest’ultima impostazione diventa perniciosa e si estende al settore dei beni e dei servizi che diventano pubblici sul falso presupposto che mancando il profitto d’impresa ci sia un servizio migliore e più economico per l’utenza. Purtroppo i fatti della storia economica e politica ci dicono che quel presupposto di superiorità etica dei fini da realizzare si traduce in un grande inganno, producendo deficit e tasse fino a trasformarsi in una costante ingerenza politica. La mancanza dei rischi perché lo Stato rifonde i debiti,
la scarsa responsabilità imprenditoriale, gli scopi elettorali e clientelari,
consustanziali alla impresa statale, si traducono in costante produzione di servizi scadenti, essendo stato deciso il nesso etico e pratico che lega la vita delle aziende al gradimento dell’utenza, al soddisfacimento dei bisogni di cittadini, come, invece, capita nella gestione aziendale dei privati. Le perdite delle aziende vengono puntualmente accollate al debito statale, disperse ed occultate nel medesimo e dall’alto regine di tassazione. L’Italia quindi vive fin dalla sua nascita repubblicana di questa mescolanza di sistemi, che vengono scelti ed applicati a seconda delle convenienze del momento. Il frutto di questa ambiguità di fondo è la paurosa cifra raggiunta dal debito pubblico di una Nazione “a perdere”, dispensatrice di benefici e prebende per ingraziarsi il più vasto blocco elettorale possibile. In genere si pubblicizzano le perdite (sottoforma di gabelle accollate ai cittadini) e si privatizzano gli utili di quegli imprenditori e di quelle ditte che finanziano la politica oppure coprono speculativamente le fette di mercato che lo Stato ha scelto di ignorare. Un sistema parassitario diffuso ed eterno. Qualora ci fosse ancora bisogno di dimostralo, le recenti vicende che riguardano l’aumento dei costi energetici e, nello specifico, di quello dei carburanti ne offrono l’ennesima conferma. Lo Stato ha rinunciato all’energia atomica e compra da terzi nelle vicine centrali, ha dismesso gran parte delle quote ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) ovvero di una società florida e che ha sempre prodotto utili, ha ceduto, o meglio, svenduto, altri asset imprenditoriali di aziende decotte dai debiti che poi ha quasi sempre dovuto finanziare, in seguito, (a beneficio dei nuovi proprietari). Cassa integrazione, sconti su contributi ed investimenti, rottamazioni varie, finanziamenti agevolati, bonifiche ambientali e messa in sicurezza mai realizzati dai subentranti proprietari: il tutto per scongiurare licenziamenti e ricatti dei nuovi padroni. L’affare Enimont (chimica), l’Ilva (acciaio), l’Enel (energia) e la SIP (telecomunicazioni), tanto per citarne alcuni, sono i grani di un lungo rosario. Oggi gli “statalisti” non hanno il coraggio di tagliare le accise ma neanche di liberalizzare il settore energetico con nuove raffinerie e liberalizzazioni della grande distribuzione dei prodotti petroliferi (mercato ). Sfruttare i benefici della concorrenza e far scendere i prezzi contro i Monopoli dei petrolieri, che si arricchiscono e gongolano nella patria delle contraddizioni e delle vilta’ politiche.

*già parlamentare

FONTE.

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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