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Casaluce. Cronaca anno 1958: un omicidio ed un tentato omicidio per l’uso in comune di un cortile

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Giovanni Di Rienzo uccise  lo zio Filippo Pagano con tre colpi di pistola ma per ‘aberratio ictus’ ferì anche una bambina che in quel momento transitava per strada

Il fatto accadde nel 1958 a Casaluce.  Per l’uso in comune di un cortile un omicidio ed un tentato omicidio.

Verso le 12:35 del 24 ottobre del 1958 i carabinieri di Casaluce furono informati dal  vigile urbano Giovanni Palumbo che pochi minuti prima in via Pietro Rosano di Casaluce un uomo era stato colpito con proiettili di arma da fuoco.

In seguito a tale notizia il maresciallo  capo Francesco Buniello,  comandante della stazione di Casaluce, in compagnia del carabiniere Angelo Salerno, pure di quella stazione,  si portava sul posto per le constatazioni di legge. A terra venne trovato un uomo che sebbene ferito  in più parti del corpo era ancora in vita ma non in grado di parlare.

Fissata la posizione del ferito il sottufficiale provvede subito a farlo trasportare all’ospedale civile di Aversa e mezza autovettura; con la stessa vettura venne pure trasportato all’ospedale una bambina che era rimasta ferita alla mano  da un colpo di arma da fuoco. I due feriti venivano subito identificati per Filippo Pagano, di anni 44,  domiciliato a Casaluce e Anna D’Aniello, di anni 10  anche di Casaluce.

Mentre il Pagano fu rimandato a casa perché incurabile dove infatti vi decedette dopo circa due ore senza aver preso conoscenza la D’Aniello fu invece ricoverata per ferite da arma da fuoco (con pallini)  al dito indice, al  mignolo medio ed anulare, alla  mano destra con sospetta frattura ossea.

Si precisa che quando il Pagano fu medicato presso l’ospedale di Aversa gli fu trovata addosso una pistola a rotazione scarica che a mezzo del Commissariato di Pubblica Sicurezza di Aversa fu consegnata all’arma dei  Carabiniere di Casaluce.

Il sottufficiale mentre si preoccupò di raccogliere le prime di deposizioni verbali circa le circostanze e le modalità del ferimento provvedo ad avvertire il comandante  dell’accaduto per assumere la direzione dell’indagine.

Dalle persone ivi  raccolte, di cui nessuna però era stata presente al momento dello sparo,  si seppe che verso le 12:20 del  24 ottobre del 1958 il Pagano, uscì dalla propria abitazione,  sita in un cortile della via Pietro Rosano 42 ( ma il portone porta il numero civico 44) con la propria bicicletta quando incontrò sul portone suo nipote Giovanni Di Rienzo  domiciliato in via Pietro Rosano anche in  bicicletta che faceva ritorno a casa.

Quest’ultimo avrebbe pronunciato la seguente frase all’indirizzo del Pagano: ”Ma tu non lo vuoi finire“ ed immediatamente dopo avrebbe estratto la pistola ed esplosi  tre colpi con che raggiungevano il suddetto Pagano  e la bambina che transitava.

Successivamente abbandonata la bicicletta si sarebbe dato alla fuga. Come prima accennato al momento degli spari nessun teste era presente ad eccezione della D’Aniello ricoverata presso l’ospedale. Fu interrogato pertanto il primo ad accorrere sul posto Giuseppe Cutillo, un calzolaio il quale lavorava in una bottega sita in via Pietro Rosano a pochi metri e dove avvenne il fatto.

Egli dichiarò che appena affacciatosi vide il Pagano per terra e il Di Rienzo  che fuggiva. Non vi erano altre persone oltre la ragazza rimasta ferita. Precisò che tra le due famiglie da tempo non correvano buoni rapporti. Vennero pertanto intensificate le ricerche per il rintraccio del Di Rienzo che alle ore 17:30 fu arrestato presso l’abitazione di Giovanni Martino dietro informazione dello stesso che aveva provveduto ad informare l’Arma dei carabinieri tramite uno zio Di Rienzo.

Il Di Rienzo interrogato alla presenza del comandante della stazione di Casaluce e del capitano dei carabinieri Roberto Brunelli,  comandante della compagnia di Santa Maria Capua Vetere, ammise di essere l’autore dell’omicidio ma di essere stato costretto a scopo di difesa in quanto lo zio appena lo vide lo investì di rimproveri e subito dopo lo colpì con calci pugni ed infine fece l’atto di tirare fuori la pistola per ucciderlo ed egli più lesto estrasse la pistola e sparò tre colpi indi fuggì.

Aggiunse che il delitto avvenne mentre lui in bicicletta stava ritornando a casa. Tuttavia la confessione del Di Rienzo è vera solo in quanto egli sparò contro lo zio ma non sembra attendibile per quanto concerne le cause e le modalità e ciò risulta dalle successive testimonianze rese da altre persone.

Prima di tutto quella dello stesso fratello Nicola che lavorava con lui presso il nonno Biagio Carbone. Egli infatti ha dichiarato che il fratello Giovanni lasciò di lavorare due o tre minuti prima di mezzogiorno e che tornò a casa per pranzare senza la bicicletta poiché proprio quel giorno non l’aveva portata perché quella mattina faceva freddo.

Ha aggiunto che il fratello non aveva in tasca alcuna pistola che certamente avrebbe notato in quanto lavorava con i soli pantaloni e maglietta. Si fa presente che Nicola Di Rienzo il giorno precedente aveva fatto una dichiarazione differente.

La mattina aveva udito la madre del Di Rienzo gridare per la strada: “Gli vogliono far fare la fine della ‘Luparella’”, donna uccisa in altre circostanze in seguito ad una lite avuta con la figlia del Pagano.

Il precedente

Antonio Di Rienzo, padre dell’omicida, esplose sei colpi di pistola contro la cognata Anna Sepe moglie del defunto Pagano.

Le stesse cose dice l’allora compagno di lavoro Lorenzo Zaccariello. Di rilievo anche le deposizioni rese spontaneamente dagli operai Vincenzo Simoniello, Pasquale Ausilio e Giovanni Di Rienzo i quali lavoravano insieme per la macellazione della canapa nel cortile della casa di Michele Simoniello sita in via Principe Umberto.

Essi affermarono di aver visto due o tre minuti prima di mezzogiorno Giovanni Di Rienzo rientrare a casa senza bicicletta. Lo stesso si fermò anche e scambiare due parole con loro.

Il calzolaio Cutillo, inoltre, reinterrogato, ha detto di aver visto il Di Rienzo passare in bicicletta davanti al suo sgabuzzino di lavoro una mezz’ora tre quarti d’ora prima che sentisse gli spari e che andava in direzione opposta di casa sua.

Precisava, inoltre,  anche che durante la mattina aveva udito la madre del Di Rienzo gridare per la strada: “Gli vogliono far fare  la fine della ‘Luparella’” (donna uccisa in altre circostanze in seguito ad una lite avuta con la figlia del Pagano N.d.A.).

Precisò, infine, che gli spari non furono preceduti da lite o colluttazione e che certamente avrebbe udito essendosi verificato il fatto a pochi metri da dove lavorava.  Infine la deposizione di Anna D’Aniello che sentì dire dal Di Rienzo: “Tu la vuoi finire?”…  poi  un colpo che non sa da chi fu esploso e colpita scappo via.

Vi è considerare inoltre che sul corpo del cadavere si notavano tre fori e precisamente uno al braccio destro,  uno alla spalla,  esplosi entrambi da media distanza, ed uno al centro del capo esploso a  bruciapelo.

Non ti spiega come abbia fatto il Di Rienzo a colpirlo in quei posti sparando per difendersi da una minaccia frontale.

Inoltre dal certificato medico rilasciato dal medico dopo aver visitato il Di Rienzo  subito dopo l’arresto riscontra una lieve escoriazioni guaribile nel 30esimo che dimostra che non vi fu una colluttazione.

Come si rileva del verbale di interrogatorio della madre dell’omicida Immacolata Sepe, nella mattinata del 24 ottobre 58 vi fu una  ennesima discussione tra lei e la figlia del morto Giuseppina Pagano.

In seguito a ciò la Sepe verso le 11 lasciò la casa senza farvi più ritorno fino al giorno 27 ottobre 1958.

Si ritiene che ella si sia portata presso i figli che lavoravano insieme per raccontare l’accaduto. Dopodiché Giovanni lasciò di lavorare, si portò a casa, si armò ed uscì in bicicletta in cerca dello zio col deliberato propose di ucciderlo.

Girovagò alcuni minuti davanti a casa dove  fu visto dal Cutillo in bicicletta muoversi in direzione opposto alla casa.

Quando il Pagano uscì al portone lo affrontò e sparò  alcuni colpi che lo colpirono al braccio e alla spalla, poi dopo che  fu  caduto ne esplose uno a bruciapelo alla testa. Indi fuggì.

Fu visto fuggire da Giuseppina Pagano figlia del morto la quale precisò che nella mattinata tra lei e la Sepe ci fu una animatissima discussioni e che in seguito a questo minaccia la Sepe aveva minacciato di recarsi dal maresciallo dei carabinieri per cui il Pagano nel timore di essere trovato una pistola in casa se la mise in tasca.

A questo punto si ritiene opportuno puntualizzare i rapporti che intercorrono tra le due famiglie. Esse da molti anni sono in continua lite a causa dell’uso del cortile antistante in comune con le due abitazioni.

Nell’ottobre del 1956 Antonio Di Rienzo, padre dell’omicida, esplose sei colpi di pistola contro la cognata Anna Sepe moglie del defunto Pagano, perché quest’ultima si era opposta a che deponesse delle fascine in detto cortile. In seguito a ciò Giovanni Di Rienzo fu condannato a 12 anni di reclusione per tentato omicidio.

Da allora i rapporti divennero sempre più tesi. I litigi si susseguirono a litigi per motivi sempre più banali. Il 19 ottobre del 1958 si verificò un altro incidente: tale Pasquale Cerrone si era portato in birroccio da Casandrino a Casaluce per far visita alla famiglia Pagano e lasciò nel cortile il biroccio cioè dentro in casa; pare che al ritorno non avesse più trovato un fucile da caccia ivi depositato e per tale motivo fu incolpato la famiglia Di Rienzo con conseguente litigio. Per ultima e la lite del 24 ottobre del  58 che fu l’ultima goccia che fece traboccare il vaso.

 19 anni di reclusione pena ridotta in appello a 15 anni. Concessione delle attenuanti generiche

Il giudice istruttore Vincenzo Cimmino, con sentenza del 26 aprile del 1960, rinviò al giudizio della Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere Giovanni Di Rienzo, per omicidio volontario aggravato e  Antonietta Di Fraia (parente dell’imputato) perché aveva tenuto nascosta la pistola del delitto.  Dalla perizia necroscopica affidata al Prof. Carlo Romano dell’Università di Napoli si dedusse che la causa della morte del Pagano furono il grave trauma cranio encefalico e la ferita polmonare.

I mezzi prodotti furono arma da fuoco. L’aggressore si trovava lateralmente sulla destra della vittima e a distanza molto ravvicinata (colpo a bruciapelo).

Giovanni Di Rienzo, tratto in arresto e comparso innanzi alla Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere in dibattimento Giovanni Di Rienzo modificando in parte i precedenti interrogatori dichiarava che la pistola da lui adoperata aveva già il colpo in canna, perché così gli era stata consegnata dal venditore, e spiegava che, al ritorno dal lavoro, che avrebbe dovuto riprendere alle 13 13:30, l’aveva prelevato da un cumulo di immondizia, sotto il quale l’aveva nascosto, e portata in paese perché era sua intenzione di rivenderla con lo scopo di acquistarne, col denaro che ne avrebbe ricavato, un regalo per la propria fidanzata.

Affermava inoltre che dal lavoro stesso si era allontanato in bicicletta forse non visto dal fratello e dai suoi compagni.

Negava, infine, di essere stato informato, dopo il delitto, del rinvenimento dell’arma negli abiti dell’ucciso durante la visita all’ospedale. Al momento dell’incontro davanti al portone al numero 42 di via Pietro Rosano, egli aveva ben visto tale arma alla cintura dei pantaloni dello zio  e comunque sapevo che costui, era armato di pistola.

La Corte di assise di primo grado, con sentenza del 3 maggio 1961 lo condannò ad anni 19 di reclusione per omicidio e per lesione per aberratio ictus, con la concessione delle attenuanti generiche. In grado di appello al Di Rienzo venne ridotta la pena di un anno per un provvedimento di amnistia e per la Di Fraia il reato venne cancellato. La difesa nei motivi di appello aveva chiesto l’assoluzione del Di Rienzo per ‘legittima difesa’ o quantomeno per ‘eccesso colposo’ di legittima difesa e la concessione della attenuante della provocazione ed in subordine il minimo della pena.

La Corte di assise di appello di Napoli, con sentenza del 7 dicembre del 1963, composta da Emanuele Montefusco, presidente; Giovanni Nazzaro, consigliere e con l’intervento del pubblico ministero, Giuseppe Chiliberti, sostituto procuratore generale della Repubblica, riduceva la pena ad anni 15.

Nel ricorso per Cassazione fu invocata una violazione per difetto di motivazione ma la Suprema  Corte respinse il ricorso e il verdetto venne confermato. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Alfredo De Marsico, Carlo Cipullo, Ciro Maffuccini e Alfonso Martucci. 

(di Ferdinando Terlizzi – Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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