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1922, La Marcia su Roma – La nave di Teseo, 2022

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Che mi dice dell’anno 1922?

È quello in cui nacquero Berlinguer, Ugo Tognazzi, Vittorio Gasmann. E in cui morirono Proust e Giovanni Verga. A Parigi uscì l’Ulisse di Joyce. I critici, pressoché unanimi: «Non si capisce niente». Totò aveva 24 anni e di cognome faceva ancora Clemente. De Sica 21 anni, Fellini 2, Nino Manfredi 1. Mastroianni non era ancora nato.

Il cinema esisteva

Certo. Al Provvisorio di Milano (corso Vittorio Emanuele 22) uno spettatore sparò contro lo schermo nel tentativo di fermare i gangster inseguiti dalla polizia. Il pubblico rideva. Qualche volta i giornali scrivevano “la film”. Anche Gramsci, una volta, aveva parlato di “film deamicisiane” in programma al Salone Ghersi di Torino (era il 1916). Non mancavano i capolavori. Il Nosferatu di Murnau, per esempio, anche se solo a Berlino. La sceneggiatura di Cabiria, colossal del 1914, l’aveva scritta D’Annunzio. Da un anno l’America impazziva per Rodolfo Valentino, e il mondo per Il monello di Chaplin.

Le canzoni?

“Come pioveva”, “Scettico blu”, “Vipera”.

La radio? La televisione? I telefoni?

I telefoni, sì. La televisione, no. La radio, in Europa, primi passi. A novembre cominciò a trasmettere la Bbc. Gli esperimenti di Marconi procedevano alla grande. Il marchese Soleri ne parlò, proprio in novembre, alla Camera di Commercio di Milano. Marconi mandava già il segnale attraverso gli oceani, il problema però era rendere poco costose le trasmissioni sulle distanze brevi. Soleri disse che nella sola New York erano stati venduti più di un milione di apparecchi riceventi o, come si diceva allora, “stazioni ricevitrici”.

Le piacciono le notizie di spettacoli, eh?

Le notizie relative alle trasmissioni radio sono notizie di spettacoli? Lei è strano.

Insomma…

Relativamente agli spettacoli, era importante il teatro. L’anno prima, al Fulton Theatre di Brooklyn, aveva esordito Humphrey Bogart: particina di cameriere orientale che dice una sola battuta: «Da bele pel mia signola e suoi molto onolevoli ospiti». Da noi c’era la Duse. A novembre la si vide al Carignano di Torino. A dicembre al Costanzi di Roma. Faceva Gli spettri di Ibsen. Capelli bianchi, niente belletto. Esausta, ma doveva lavorare, per via dei debiti. In febbraio, al Manzoni di Milano, andò in scena l’Enrico IV di Pirandello. I Sei personaggi avevano debuttato l’anno prima al Valle di Roma, regia di Dario Niccodemi (fiasco epocale, col pubblico che gridava «Manicomio, manicomio» e inveiva contro l’autore, fuggito in carrozza con la figlia Lietta e difeso in sala da Galeazzo Ciano e Orio Vergani). La Duse e Pirandello erano, per quei tempi, due vecchi. La Duse, sessantaquattro anni. Pirandello, cinquantacinque. Anche Grazia Deledda, che avrebbe vinto il Nobel nel ’26, e quell’anno pubblicò Il Dio dei viventi, era, per la mentalità dell’anno 1922, vecchia: cinquant’un anno.

D’Annunzio?

Nessuno si occupava dell’età di D’Annunzio. Aveva cinquantanove anni.

L’Italia invece era un paese giovane.

Sì, più giovane di adesso, anche se seicentomila giovani erano stati ammazzati durante la Grande Guerra e, naturalmente, tra il 1915 e il 1918 erano crollati i matrimoni. Eravamo in ogni caso una quarantina di milioni, e il saldo tra vivi e morti segnava ogni anno un +300.000. La popolazione effettivamente residente però aumentava piano perché centinaia di migliaia di italiani, quando arrivava il 31 dicembre, risultavano emigrati. Il governo aveva regolato quel flusso imponente nel 1910, con una legge che sistemava tutti quanti, compresa la figura giuridica dei broker, i sensali che al porto ti imbarcavano e si facevano pagare, gente che trattava l’emigrazione come un qualsiasi export. Avevamo un contenzioso con gli americani, che non accettavano più di quarantamila italiani l’anno. Noi dicevamo: va bene, però gli italiani che partono da altri paesi, tipo il Belgio o la Francia, non li dovete contare. Invece loro li contavano. Avevano fissato una quota per ciascuno Stato.

Chi era il presidente degli Stati Uniti?

Si chiamava Warren Gamaliel Harding, cinquantasette anni. Morì l’anno dopo, prima di finire il mandato. Non se lo ricorda più nessuno. Era repubblicano. A novembre, nelle elezioni di mid-term, i repubblicani persero seggi, ma mantennero la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Ai nostri fini la cosa non ha nessuna importanza.

E in Russia

Lenin, che a ottobre si sentì male. E Stalin, segretario del partito proprio da quell’anno. Anche il nome “Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”, cioè Urss, è del ’22.

Altri fatti internazionali di qualche importanza

La caduta del sultano e la trasformazione della Turchia – con Atatürk – in un paese laico. Ci fu il problema di sistemare le trecento odalische di Mehmed VI, evento su cui Ferzan Özpetek ha anche girato un film (a proposito delle notizie di spettacoli). I turchi avevano sconfitto i greci, e re Costantino era scappato da noi. Poi c’è l’inflazione tedesca, cioè il marco comincia a precipitare proprio nel 1922. Un tempo con un dollaro si compravano quattro marchi. Alla fine dell’anno per un dollaro te ne davano quasi novemila. Ricorderà che in Germania a un certo punto per l’acquisto di un francobollo si dovranno tirar fuori miliardi.

L’inflazione…

È la crisi della Repubblica di Weimar. Il 24 giugno, un sabato, il loro ministro degli Esteri, Walther Rathenau, stava andando in automobile al ministero, quando alla sua Nag s’accostò una Mercedes, e i due che stavano seduti davanti prima gli spararono con un Mp18, e l’ammazzarono, poi per sicurezza gli tirarono anche una bomba. La Germania aveva perso la guerra, ed era stata costretta a cedere territori, e a pagare tremende sanzioni in oro (non ci riusciva). Gli assassini credevano che fosse colpa di Rathenau. Erano di estrema destra.

Hitler?

No, questi erano membri della Consul, organizzazione nazionalista e nemica degli ebrei. Niente di strano. In Germania da un pezzo l’essere nemici degli ebrei veniva sbandierato alle elezioni e faceva prender voti. Hitler tuttavia era già all’opera, quell’anno apparve tra l’altro a Rosenheim, comune comunista, in testa a duecento uomini in uniforme. Blusa grigia, berretto da cacciatore delle Alpi, bracciale bianco rosso-nero, croce antisemita. Rosenheim è anche il comune della Baviera dove è nato Göring.

Leggo che nel 1922 morì il papa.

Sì, Benedetto XV, un pontefice che ci è rimasto nella memoria per i forti discorsi contro la guerra. Morto a gennaio. Dopo un conclave veloce venne eletto papa l’arcivescovo di Milano, Achille Ratti. Grande alpinista.

Pio XI.

Papa Pio XI ci interessa moltissimo. Il fascismo è nato a Milano. Pio XI, da arcivescovo di Milano, aveva manifestato simpatia per Mussolini. Al momento della marcia su Roma – 28 ottobre 1922 – il cardinale Gasparri tranquillizzò l’ambasciatore belga presso il Vaticano, barone Beyens: «Mussolini ci ha informati che lui è un buon cattolico, e che la Santa Sede non ha nulla da temere da lui. Diamogli qualche mese di aspettativa. Ha molto da apprendere in materia religiosa». Il cardinale ignorava che per mano fascista, tra il 1921 e l’ottobre del 1922, erano state ammazzate tremila persone (dati di Salvemini)? Ignorava che Mussolini – ateissimo – aveva scritto nel 1904 un blasfemo L’uomo e la divinità, e che a Losanna, da giovane, parlando alla Casa del popolo, aveva sfidato Dio, se esisteva, a fulminarlo entro cinque minuti (e tirò fuori l’orologio, e cronometrava, e non avendolo Dio fulminato si prese un bell’applauso)? Lui e Pio XI sono quelli che, nel ’29, firmarono il famoso Concordato, cioè la definitiva pacificazione tra Stato italiano e Chiesa. Dopo di questo, Pio XI chiamerà Mussolini “uomo della Provvidenza”. Adesso, appena eletto, il nuovo papa ebbe soprattutto fretta di far sapere, attraverso il solito cardinale Gasparri, che non aveva alcun interesse per il partito cattolico. Una doccia fredda per i cattolici, che avevano ricominciato a far politica.

Esisteva un partito cattolico?

Si chiamava Partito popolare. Esisteva da quasi quattro anni. Il fondatore Luigi Sturzo aveva specificato che non si trattava di un “partito cattolico”, ma di un “partito dei cattolici”. S’era presentato alle elezioni del 1919 e aveva portato in Parlamento anche De Gasperi e Gronchi. Immagino che non sia necessario spiegarle chi erano De Gasperi e Gronchi.

Leggo: Alcide De Gasperi, primo ministro italiano dal ’45 al ’53, diede avvio alla ricostruzione del Paese dopo la Seconda guerra mondiale. Fondatore della Democrazia cristiana, importantissimo, grandissimo, cattolicissimo, ma per niente succubo del Vaticano e del papa Pio XII. Giovanni Gronchi: terzo presidente della Repubblica italiana, dal 1955 al 1962. Prima di Antonio Segni, e dopo Luigi Einaudi.

Einaudi, nell’anno 1922, scriveva sul Corriere della sera. Aveva 48 anni. Al fascismo aveva riservato qualche lode. I fascisti «tutelano le ragioni supreme dell’economia nazionale e della libertà umana, contro l’arbitrio politico, il monopolio economico e la distruzione della produzione». Così il 7 giugno 1922, in un articolo provocato dal fatto che a Bologna il prefetto Cesare Mori aveva proibito ai disoccupati di andarsi a cercare un lavoro in un comune diverso da quello in cui erano registrati. Decreto che dava di conseguenza all’ufficio di collocamento socialista il monopolio della manodopera locale. Commercianti, agricoltori, industriali, proprietari di case protestavano. Gli squadristi – armati di bastoni, fucili, pistole, bombe – arrivarono a Bologna da Ferrara, Modena, Firenze, Verona, Padova per mettere la città a soqquadro e pretendere che Mori fosse rimosso. Il Corriere scrisse: «Caratteristico il bivacco notturno delle numerose squadre. Sotto i portici della città i fascisti hanno dormito su giacigli di paglia improvvisati». Seguirono aggressioni, devastazioni, incendi contro Case del popolo, abitazioni private, circoli, cooperative, Camere del lavoro. Ventimila squadristi, la città paralizzata dalla serrata di industriali e commercianti, servizi pubblici sospesi per ordine delle camicie nere. Dopo cinque giorni, Mussolini ordinò di farla finita, e comunque i fascisti l’ebbero vinta perché alla fine Mori, che due anni dopo Mussolini avrebbe spedito in Sicilia a combattere la mafia, fu richiamato a Roma e poi trasferito a Bari.

E su queste violenze Einaudi era d’accordo?

Su quelle di Bologna stette zitto. A settembre, quando gli squadristi si presentarono a Brescia, scrisse: «Sono tanti piccoli fatti i quali fanno temere che i fasci, una volta diventati dominatori ed organizzatori di masse, corrano il rischio di comportarsi nella stessa maniera delle organizzazioni rosse». Articolo del 27 settembre.

Piuttosto tiepido, no?

All’inizio si fecero affascinare in parecchi. Croce, il 24 ottobre, andò a sentire Mussolini a Napoli, e alla fine del discorso applaudì. Giustino Fortunato, il grande meridionalista che gli stava seduto accanto, disse: «C’è troppa violenza in questa gente». Croce: «Ma don Giustino, vi siete scordato quello che dice Marx? La violenza è la levatrice della storia». All’uscita, – Mussolini aveva parlato al San Carlo – Luigi Russo azzardò: «A me è parso un istrione». Croce: «Ma la politica è teatro, Luigi. Quel Mussolini è un bravo istrione».

Mi si stringe il cuore.

Ci cascarono in tanti. Al momento di votare la fiducia al governo, conquistato da Mussolini dopo la marcia su Roma, 16 novembre 1922, lo appoggiarono tutti. De Gasperi, Croce, Gronchi e i cattolici di Sturzo che non avrebbe voluto e fu messo in minoranza. Ancora altri che oggi non immagineremmo mai. Enrico De Nicola, nostro primo presidente della Repubblica, presiedeva quell’assemblea e ascoltò Mussolini che insultava i deputati senza interromperlo e senza dire una parola in difesa del Parlamento. Ci teneva a confermarsi uomo al di sopra delle parti. Il sicuro antifascista Giovanni Amendola, che gli squadristi avrebbero ammazzato di botte nel ’26, il 1° ottobre del ’22 andò a parlare ai liberal-democratici di Sala Consilina. Si augurò che i fascisti fossero chiamati al governo, spiegò che grazie a loro la guerra vittoriosa del ’15-’18 era stata valorizzata, che questa valorizzazione aveva restaurato la coscienza nazionale, fascismo e socialismo non erano che due braccia delle quali di volta in volta la democrazia avrebbe potuto servirsi per il conseguimento delle sue finalità nazionali. Un altro illuso. Tra gli uomini politici spicca, per la lucidità con cui comprese, il solo Matteotti.

Giacomo Matteotti, quello che i fascisti ammazzarono nel ’24.

Matteotti non si sbagliò mai, e denunciò in Parlamento non solo gli orrori fascisti, ma anche le protezioni di cui i fascisti godevano. Per esempio, discorso alla Camera del 10 marzo 1921:

«Nel cuore della notte, mentre i galantuomini sono nelle loro case a dormire, arrivano i camion di fascisti nei paeselli, nelle campagne, nelle frazioni composte di poche centinaia di abitanti; arrivano, accompagnati naturalmente dai capi della Agraria locale, sempre guidati da essi, poiché altrimenti non sarebbe possibile conoscere nell’oscurità in mezzo alla campagna sperduta la casetta del capolega o il piccolo miserello ufficio di collocamento. Si presentano davanti a una casetta e si sente l’ordine: “Circondate la casa!”. Sono venti, sono cento persone armate di fucili e di rivoltelle. Si chiama il capolega e gli si intima di scendere. Se il capolega non discende, gli si dice: “Se non discendi ti bruciamo la casa, tua moglie e i tuoi figliuoli!”. Il capolega discende, se apre la porta lo pigliano, lo legano, lo portano sul camion, gli fanno passare le torture più inenarrabili, fingendo di ammazzarlo, di annegarlo, poi lo abbandonano in mezzo alla campagna, nudo, legato ad un albero. Se il capolega è un uomo di fegato e non apre e adopera le armi per la sua difesa, allora è l’assassinio immediato che si consuma nel cuore della notte, cento contro uno. Questo è il sistema nel Polesine.

«A Salara (i fatti son consacrati tutti negli stessi rapporti dell’autorità) a Salara un disgraziato operaio di notte sente bussare alla porta. “Chi è?” domanda. “Amici!”, gli si risponde. Apre e si accorge di aver davanti una banda di armati. Tenta di rinchiudere la porta; ma glielo impediscono con un piede, e attraverso alla fessura venti colpi di fucile e di rivoltella lo distendono cadavere.

«A Peltorazza il capolega sente battere alla sua casa di notte, sempre di notte. Gli si dice che è la forza pubblica. Il disgraziato crede, apre. Lo prendono, lo legano, lo bastonano, lo trascinano per tutta la provincia di Padova, esponendolo al ludibrio di tutti, fino a che lo abbandonano in mezzo alla strada. Quel disgraziato ritorna a casa, denunzia il fatto, e il brigadiere dei carabinieri lo arresta!«A Pincura, piccolo paese in mezzo alla campagna, a mezzanotte arriva un camion davanti all’Ufficio di collocamento, una miserabile bicocca, una stanzetta. Non c’è nessuno dentro, ma per assicurarsene meglio i fascisti sparano a mitraglia, di cui si riscontrano le tracce sul muro. Non c’è nessuno: allora, fuori la benzina, e si brucia tutto. Poi vanno alla casa del Sindaco, sempre dopo la mezzanotte: non lo trovano per puro caso. La moglie è all’ospedale, la figlioletta dice: “Mio padre non c’è”. Non ci credono; lo vanno ricercando nei piccoli rispostigli: non lo trovano; ma intanto una vittima la vogliono, e vanno più in là, nella campagna deserta, alla casa del capolega che dorme. Circondano la casa. Duecento colpi di moschetto e di revolver punteggiano i muri della casupola da ogni lato. Il disgraziato scende e difende col petto l’ingresso della sua casa; cinquanta colpi crivellano la porta ed egli è ucciso nella sua casa stessa. Quando il disgraziato difensore della casa è caduto, con due colpi dentro il petto, dietro la porta che difendeva, e la moglie lo sorregge fra le braccia, entrano (io sono stato a vedere la casa e ne ho riportata un’impressione tremenda) entrano inveendo, s’assicurano che il morto sia veramente morto e scuotono violentemente il figlioletto, che con le sue grida denunziava sulla strada, nella notte, l’assassinio del padre. Egli ne porta ancora sulle braccia il segno malvagio!«Ad Adria, pochi giorni or sono, è avvenuto un incidente fra un fascista ed un facchino. Il facchino fu ucciso dal fascista. Sarebbe dovuto bastare. Ma invece nella notte seguente arrivano ancora i camions, perché i fascisti non erano paghi di avere ammazzato un uomo solo. E vanno, dopo l’una di notte, alla casa del segretario della sezione socialista, lo prendono, lo legano, lo portano sull’Adige, fingono di immergerlo nel fiume, o di legarlo coi piedi dietro il camion e poi lo abbandonano legato ad un palo telegrafico in provincia di Padova! E il Corriere del Polesine, l’organo degli agrari, ha il coraggio di far l’esaltazione di questo fatto malvagio e vergognoso. Poi, sempre nella stessa notte, mentre, naturalmente, i carabinieri dormono (poiché la Sottoprefettura era stata preavvisata nella giornata della spedizione fascista e quindi la consegna era di russare), mentre i carabinieri dormono, la stessa banda armata si presenta alla casa del presidente della Deputazione provinciale di Rovigo. Battono alla porta di casa. “Chi è?”. “La forza”, rispondono. Perché avviene anche che molti della masnada sono vestiti in divisa, quando anche alle loro gesta non partecipano, come a Lendini, tenenti del regio esercito addetti alla requisizione. Battono dunque, dicendo che è la forza pubblica. Nelle disgraziate campagne del Polesine ormai si sa che quando si batte di notte alla porta di casa, e si dice che è la forza pubblica, è la condanna di morte. Quindi alla casa del presidente della Deputazione non si apre. Tentano di forzare la porta: non riescono: saltano sul poggiolo, lo forzano. Il disgraziato vuole difendersi con la rivoltella, ma la moglie e la madre lo dissuadono, lo inducono a fuggire. I colpi di rivoltella lo inseguono quasi nudo per la strada. Egli va alla caserma dei carabinieri, ma essi tardano un’ora ad andare, perché i carabinieri non ci sono per mettere in galera i delinquenti, che vanno ad assalire le case di notte. E intanto la masnada penetra nella casa; prende le donne, la moglie, la madre del disgraziato e colla rivoltella in pugno si esige che indichino dove è nascosto. E continua così la storia, ma nessuno viene, nessuno è scoperto, nessuno sa chi siano i delinquenti. Nella stessa via, una viuzza di Adria, abitano gli agenti investigativi; tutta la strada è a rumore, tutti gridano per quello che sta avvenendo; ma gli agenti investigativi non sentono nulla e non si fanno vedere.

«È un’organizzazione a delinquere conosciuta nei suoi centri, nelle sue persone, nei suoi mezzi, nei suoi capi, uno per uno, e voi la lasciate stare».
Matteotti pronunciò questo discorso in Parlamento, e non successe niente?
Tre giorni dopo gli squadristi sequestrarono Matteotti a Castelguglielmino, e lo seviziarono con un bastone. Il prefetto di Rovigo si chiamava Pietro Frigerio, e simpatizzava per i fascisti. Non successe niente. Matteotti dopo una settimana tornò alla Camera e riprese la parola:
«Il brigadiere dei carabinieri di Pincara cantava, beveva, sparava insieme ai fascisti di cui era socio […] I carabinieri di Loreo, quando parecchi individui sono andati a riferire loro di fascisti che li avevano percossi, hanno arrestato i denunziatori […] Il comandante dei carabinieri di Lendinara proclama che i socialisti debbono essere tutti ammazzati, e che appena finita la sua ferma egli si farà fascista. Il tenente dei carabinieri di Rovigo è udito prendere i suoi accordi con i locali agenti di queste violenze, e in prefettura a me dichiara che le violenze usate nel Polesine contro i leghisti non sono che la legittima ritorsione delle violenze commesse in provincia di Bologna».
Matteotti chiedeva che l’Arma dei carabinieri fosse epurata «dagli elementi che la infamano». Non successe niente.
Come si arrivò a questo punto?
È quello che mi accingo a raccontarle.

(di Giorgio Dell’Arti – Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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