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Drraghi. Addio doloroso per tanti, ma non per tutti: cronaca di una disfatta, voluta da chi?

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Cronaca di una disfatta: al popolo non resta che la rivoluzione.

QUARTA PAGINA
«Io non ho niente da rimproverarmi. Quanto a loro, evidentemente, vogliono sentirsi più liberi e tanti auguri» (Mario Draghi)

Cronaca

Spremute Cominciamo dall’inizio, dai sorrisi complici e ispirati nel salone Garibaldi, dove i senatori al mattino tra un caffè e una spremuta prefigurano i possibili scenari con al centro sempre lo stesso interrogativo: «Che faranno Conte e i Cinquestelle? Voteranno la fiducia». Se lo chiedono anche alcuni degli stessi esponenti M5s a cui è stata imposta comunque la consegna del silenzio. In realtà ben presto si capisce che lo sguardo va rivolto altrove. E non solo perché dal Movimento per tutto il giorno evitano di pronunciarsi [Fiammeri, Sole].

Casini/1 Di buon mattino, Pier Ferdinando Casini solca a grandi passi il Salone Garibaldi ancora semideserto: «Cosa succede oggi? Ma nienteee», sorride sornione, la cravatta con tante piccole coccinelle portafortuna, il mood rilassato [Schianchi, Sta].

Ex amici Per Di Maio parla, fuori dall’Aula, il portavoce Giuseppe Marici e respinge le «continue e gravi ingerenze della Russia nei confronti del governo italiano». E su Facebook, dal fronte opposto, Alessandro Di Battista ironizza sul capo dell’esecutivo: «Qualcuno ha il fegato di votare la fiducia al Messia» [Guerzoni, CdS].

Ore 9,47. Prende il via al Senato la seduta con le comunicazioni del presidente del Consiglio Mario Draghi.

Microfono Il premier prende posto sui banchi del governo, dove lo aspettano i ministri, leali e non. Un minuto di silenzio per Scalfari, poi le comunicazioni del premier. Comincia male. Parte un lungo fischio, ma è il microfono: «Credo ci sia qualcosa che non funziona». L’auspicio non è dei migliori. Draghi si schiarisce la voce [Guerzoni, CdS].

Signor Presidente,

Onorevoli Senatrici e Senatori,

Giovedì scorso ho rassegnato le mie dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica.

Questa decisione è seguita al venir meno della maggioranza di unità nazionale che ha appoggiato questo Governo sin dalla sua nascita.

Il Presidente della Repubblica ha respinto le mie dimissioni e mi ha chiesto di informare il Parlamento di quanto accaduto – una decisione che ho condiviso.

Le Comunicazioni di oggi mi permettono di spiegare a voi e a tutti gli italiani le ragioni di una scelta tanto sofferta, quanto dovuta.

Lo scorso febbraio, il Presidente della Repubblica mi affidò l’incarico di formare un governo per affrontare le tre emergenze che l’Italia aveva davanti: pandemica, economica, sociale.

“Un governo” – furono queste le sue parole – “di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica”.

“Un Governo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili”.

Tutti i principali partiti – con una sola eccezione – decisero di rispondere positivamente a quell’appello.

Nel discorso di insediamento che tenni in quest’aula, feci esplicitamente riferimento allo “spirito repubblicano” del Governo, che si sarebbe poggiato sul presupposto dell’unità nazionale.

In questi mesi, l’unità nazionale è stata la miglior garanzia della legittimità democratica di questo esecutivo e della sua efficacia.

Ritengo che un Presidente del Consiglio che non si è mai presentato davanti agli elettori debba avere in Parlamento il sostegno più ampio possibile.

Questo presupposto è ancora più importante in un contesto di emergenza, in cui il Governo deve prendere decisioni che incidono profondamente sulla vita degli italiani.

L’amplissimo consenso di cui il Governo ha goduto in Parlamento ha permesso di avere quella “tempestività” nelle decisioni che il Presidente della Repubblica aveva richiesto.

A lungo le forze della maggioranza hanno saputo mettere da parte le divisioni e convergere con senso dello Stato e generosità verso interventi rapidi ed efficaci, per il bene di tutti i cittadini.

Grazie alle misure di contenimento sanitario, alla campagna di vaccinazione, ai provvedimenti di sostegno economico a famiglie e imprese, siamo riusciti a superare la fase più acuta della pandemia, a dare slancio alla ripresa economica.

La spinta agli investimenti e la protezione dei redditi delle famiglie ci ha consentito di uscire più rapidamente di altri Paesi dalla recessione provocata dalla pandemia.

Lo scorso anno l’economia è cresciuta del 6,6% e il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo è sceso di 4,5 punti percentuali.

La stesura del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, approvato a larghissima maggioranza da questo Parlamento, ha avviato un percorso di riforme e investimenti che non ha precedenti nella storia recente.

Le riforme della giustizia, della concorrenza, del fisco, degli appalti – oltre alla corposa agenda di semplificazioni – sono un passo in avanti essenziale per modernizzare l’Italia.

A oggi, tutti gli obbiettivi dei primi due semestri del PNRR sono stati raggiunti.

Abbiamo già ricevuto dalla Commissione Europea 45,9 miliardi di euro, a cui si aggiungeranno nelle prossime settimane ulteriori 21 miliardi – per un totale di quasi 67 miliardi.

Con il forte appoggio parlamentare della maggioranza e dell’opposizione, abbiamo reagito con assoluta fermezza all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia.

La condanna delle atrocità russe e il pieno sostegno all’Ucraina hanno mostrato come l’Italia possa e debba avere un ruolo guida all’interno dell’Unione Europea e del G7.

Allo stesso tempo, non abbiamo mai cessato la nostra ricerca della pace – una pace che deve essere accettabile per l’Ucraina, sostenibile, duratura.

Siamo stati tra i primi a impegnarci perché Russia e Ucraina potessero lavorare insieme per evitare una catastrofe alimentare, e allo stesso tempo aprire uno spiraglio negoziale.

I progressi che si sono registrati la settimana scorsa in Turchia sono incoraggianti, e auspichiamo possano essere consolidati.

Ci siamo mossi con grande celerità per superare l’inaccettabile dipendenza energetica dalla Russia – conseguenza di decenni di scelte miopi e pericolose.

In pochi mesi, abbiamo ridotto le nostre importazioni di gas russo dal 40% a meno del 25% del totale e intendiamo azzerarle entro un anno e mezzo.

È un risultato che sembrava impensabile, che dà tranquillità per il futuro all’industria e alle famiglie, rafforza la nostra sicurezza nazionale, la nostra credibilità nel mondo.

Abbiamo accelerato, con semplificazioni profonde e massicci investimenti, sul fronte delle energie rinnovabili, per difendere l’ambiente, aumentare la nostra indipendenza energetica.

E siamo intervenuti con determinazione per proteggere cittadini e imprese dalle conseguenze della crisi energetica, con particolare attenzione ai più deboli.

Abbiamo stanziato 33 miliardi in poco più di un anno, quasi due punti percentuali di PIL, nonostante i nostri margini di finanza pubblica fossero ristretti.

Lo abbiamo potuto fare grazie a una ritrovata credibilità collettiva, che ha contenuto l’aumento del costo del debito anche in una fase di rialzo dei tassi d’interesse.

Il merito di questi risultati è stato vostro – della vostra disponibilità a mettere da parte le differenze e lavorare per il bene del Paese, con pari dignità, nel rispetto reciproco.

La vostra è stata la migliore risposta all’appello dello scorso febbraio del Presidente della Repubblica e alla richiesta di serietà, al bisogno di protezione, alle preoccupazioni per il futuro che arrivavano dai cittadini.

Gli italiani hanno sostenuto a loro volta questo miracolo civile, e sono diventati i veri protagonisti delle politiche che di volta in volta mettevamo in campo.

Penso al rispetto paziente delle restrizioni per frenare la pandemia, alla straordinaria partecipazione alla campagna di vaccinazione.

Penso all’accoglienza spontanea offerta ai profughi ucraini, accolti nelle case e nelle scuole con affetto e solidarietà.

Penso al coinvolgimento delle comunità locali al PNRR, che lo ha reso il più grande progetto di trasformazione dal basso della storia recente.

Mai come in questi momenti sono stato orgoglioso di essere italiano.

L’Italia è forte quando sa essere unita.

Purtroppo, con il passare dei mesi, a questa domanda di coesione che arrivava dai cittadini le forze politiche hanno opposto un crescente desiderio di distinguo e divisione.

Le riforme del Consiglio Superiore della Magistratura, del catasto, delle concessioni balneari hanno mostrato un progressivo sfarinamento della maggioranza sull’agenda di modernizzazione del Paese.

In politica estera, abbiamo assistito a tentativi di indebolire il sostegno del Governo verso l’Ucraina, di fiaccare la nostra opposizione al disegno del Presidente Putin.

Le richieste di ulteriore indebitamento si sono fatte più forti proprio quando maggiore era il bisogno di attenzione alla sostenibilità del debito.

Il desiderio di andare avanti insieme si è progressivamente esaurito e con esso la capacità di agire con efficacia, con “tempestività”, nell’interesse del Paese.

Come ho detto in Consiglio dei Ministri, il voto di giovedì scorso ha certificato la fine del patto di fiducia che ha tenuto insieme questa maggioranza.

Non votare la fiducia a un governo di cui si fa parte è un gesto politico chiaro, che ha un significato evidente.

Non è possibile ignorarlo, perché equivarrebbe a ignorare il Parlamento.

Non è possibile contenerlo, perché vorrebbe dire che chiunque può ripeterlo.

Non è possibile minimizzarlo, perché viene dopo mesi di strappi ed ultimatum.

L’unica strada, se vogliamo ancora restare insieme, è ricostruire da capo questo patto, con coraggio, altruismo, credibilità.

A chiederlo sono soprattutto gli italiani.

La mobilitazione di questi giorni da parte di cittadini, associazioni, territori a favore della prosecuzione del Governo è senza precedenti e impossibile da ignorare.

Ha coinvolto il terzo settore, la scuola e l’università, il mondo dell’economia, delle professioni e dell’imprenditoria, lo sport.

Si tratta di un sostegno immeritato, ma per il quale sono enormemente grato.

Due appelli mi hanno colpito in modo particolare.

Il primo è quello di circa 2.000 sindaci, autorità abituate a confrontarsi quotidianamente con i problemi delle loro comunità.

Il secondo è quello del personale sanitario, gli eroi della pandemia, verso cui la nostra gratitudine collettiva è immensa.

Questa domanda di stabilità impone a noi tutti di decidere se sia possibile ricreare le condizioni con cui il Governo può davvero governare.

È questo il cuore della nostra discussione di oggi.

È questo il senso dell’impegno su cui dobbiamo confrontarci davanti ai cittadini.

L’Italia ha bisogno di un governo capace di muoversi con efficacia e tempestività su almeno quattro fronti.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è un’occasione unica per migliorare la nostra crescita di lungo periodo, creare opportunità per i giovani e le donne, sanare le diseguaglianze a partire da quelle tra Nord e Sud.

Entro la fine di quest’anno, dobbiamo raggiungere 55 obiettivi, che ci permetteranno di ricevere una nuova rata da 19 miliardi di euro.

Gli obiettivi riguardano temi fondamentali come le infrastrutture digitali, il sostegno al turismo, la creazione di alloggi universitari e borse di ricerca, la lotta al lavoro sommerso.

Completare il PNRR è una questione di serietà verso i nostri cittadini e verso i partner europei.

Se non mostriamo di saper spendere questi soldi con efficienza e onestà, sarà impossibile chiedere nuovi strumenti comuni di gestione delle crisi.

L’avanzamento del PNRR richiede la realizzazione dei tanti investimenti che lo compongono.

Dalle ferrovie alla banda larga, dagli asili nido alle case di comunità, dobbiamo impegnarci per realizzare tutti i progetti che abbiamo disegnato con il contributo decisivo delle comunità locali.

Dobbiamo essere uniti contro la burocrazia inutile, quella che troppo spesso ritarda lo sviluppo del Paese.

E dobbiamo assicurarci che gli enti territoriali – a partire dai Comuni – abbiano tutti gli strumenti necessari per superare eventuali problemi di attuazione.

Al tempo stesso, dobbiamo procedere spediti con le riforme che, insieme agli investimenti, sono il cuore del PNRR.

La riforma del codice degli appalti pubblici intende assicurare la realizzazione in tempi rapidi delle opere pubbliche e il rafforzamento degli strumenti di lotta alla corruzione.

Dobbiamo tenere le mafie lontane dal PNRR.

È il modo migliore per onorare la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e degli uomini e donne delle loro scorte, a trent’anni dalla loro barbara uccisione.

La riforma del codice degli appalti è stata approvata, ed è in corso il lavoro di predisposizione degli schemi di decreti delegati che devono essere licenziati entro marzo del prossimo anno.

La riforma della concorrenza serve a promuovere la crescita, ridurre le rendite, favorire gli investimenti e l’occupazione.

Con questo spirito abbiamo approvato norme per rimuovere gli ostacoli all’apertura dei mercati, alla tutela dei consumatori.

La riforma tocca i servizi pubblici locali, inclusi i taxi, e le concessioni di beni e servizi, comprese le concessioni balneari.

Il disegno di legge deve essere approvato prima della pausa estiva, per consentire entro la fine dell’anno l’ulteriore approvazione dei decreti delegati, come previsto dal PNRR.

Ora c’è bisogno di un sostegno convinto all’azione dell’esecutivo – non di un sostegno a proteste non autorizzate, e talvolta violente, contro la maggioranza di governo.

Per quanto riguarda la giustizia, abbiamo approvato la riforma del processo penale, del processo civile e delle procedure fallimentari e portato in Parlamento la riforma della giustizia tributaria.

Queste riforme sono essenziali per avere processi giusti e rapidi, come ci chiedono gli italiani.

È una questione di libertà, democrazia, e anche prosperità.

Le scadenze segnate dal PNRR sono molto precise.

Dobbiamo ultimare entro fine anno la procedura prevista per i decreti di attuazione della legge delega civile e penale.

La legge di riforma della giustizia tributaria è in discussione al Senato, e deve essere approvata entro fine anno.

Infine, l’autunno scorso il Governo ha dato il via al disegno di legge delega per la revisione del fisco.

Siamo consapevoli che in Italia il fisco è complesso e spesso iniquo.

Per questo non abbiamo mai aumentato le tasse sui cittadini.

Tuttavia per questo occorre procedere con uno sforzo di trasparenza.

Intendiamo ridurre le aliquote Irpef a partire dai redditi medio-bassi; superare l’Irap; razionalizzare l’Iva.

I primi passi sono stati compiuti con l’ultima legge di bilancio, che ha avviato la revisione dell’Irpef e la riforma del sistema della riscossione.

In Italia l’Agenzia delle Entrate-Riscossione conta 1.100 miliardi di euro di crediti residui, cioè non riscossi, pari a oltre il 60% del prodotto interno lordo nazionale – una cifra impressionante.

Dobbiamo quindi approvare al più presto la riforma fiscale, che include il completamento della riforma della riscossione, e varare subito dopo i decreti attuativi.

Accanto al PNRR, c’è bisogno di una vera agenda sociale, che parta dai più deboli, come i disabili e gli anziani non autosufficienti.

L’aumento dei costi dell’energia e il ritorno dell’inflazione hanno causato nuove disuguaglianze, che aggravano quelle prodotte dalla pandemia.

Fin dall’avvio del governo abbiamo condiviso con i sindacati e le associazioni delle imprese un metodo di lavoro che prevede incontri regolari e tavoli di lavoro.

Questo metodo è già servito per gestire alcune emergenze del Paese: dalla ripresa delle attività produttive nella fase pandemica fino alla sicurezza del lavoro, su cui molto è stato fatto e molto resta ancora da fare.

Oggi è essenziale proseguire in questo confronto e definire in una prospettiva condivisa gli interventi da realizzare nella prossima legge di bilancio.

Quest’anno, l’andamento della finanza pubblica è migliore delle attese e ci permette di intervenire, come abbiamo fatto finora, senza nuovi scostamenti di bilancio.

Bisogna adottare entro i primi giorni di agosto un provvedimento corposo per attenuare l’impatto su cittadini e imprese dell’aumento dei costi dell’energia, e poi rafforzare il potere d’acquisto, soprattutto delle fasce più deboli della popolazione.

Ridurre il carico fiscale sui lavoratori, a partire dai salari più bassi, è un obiettivo di medio termine.

Questo è un punto su cui concordano sindacati e imprenditori.

Con la scorsa legge di bilancio abbiamo adottato un primo e temporaneo intervento.

Dobbiamo aggiungerne un altro in tempi brevi, nei limiti consentiti dalle nostre disponibilità finanziarie.

Occorre anche spingere il rinnovo dei contratti collettivi.

Molti, tra cui quelli del commercio e dei servizi, sono scaduti da troppi anni.

La contrattazione collettiva è uno dei punti di forza del nostro modello industriale, per l’estensione e la qualità delle tutele, ma non raggiunge ancora tutti i lavoratori.

A livello europeo è in via di approvazione definitiva una direttiva sul salario minimo, ed è in questa direzione che dobbiamo muoverci, insieme alle parti sociali, assicurando livelli salariali dignitosi alle fasce di lavoratori più in sofferenza.

Il reddito di cittadinanza è una misura importante per ridurre la povertà, ma può essere migliorato per favorire chi ha più bisogno e ridurre gli effetti negativi sul mercato del lavoro.

C’è bisogno di una riforma delle pensioni che garantisca meccanismi di flessibilità in uscita e un impianto sostenibile, ancorato al sistema contributivo.

L’Italia deve continuare a ridisegnare la sua politica energetica, come fatto in questi mesi.

Il Vertice di questa settimana ad Algeri conferma la nostra assoluta determinazione a diversificare i fornitori, spingere in modo convinto sull’energia rinnovabile.

Per farlo, c’è bisogno delle necessarie infrastrutture.

Dobbiamo accelerare l’istallazione dei rigassificatori – a Piombino e a Ravenna.

Non è possibile affermare di volere la sicurezza energetica degli italiani e poi, allo stesso tempo, protestare contro queste infrastrutture.

Si tratta di impianti sicuri, essenziali per il nostro fabbisogno energetico, per la tenuta del nostro tessuto produttivo.

In particolare, dobbiamo ultimare l’istallazione del rigassificatore di Piombino entro la prossima primavera.

È una questione di sicurezza nazionale.

Allo stesso tempo, dobbiamo portare avanti con la massima urgenza la transizione energetica verso fonti pulite.

Entro il 2030 dobbiamo installare circa 70 GW di impianti di energia rinnovabile.

La siccità e le ondate di calore anomalo che hanno investito l’Europa nelle ultime settimane ci ricordano l’urgenza di affrontare con serietà la crisi climatica nel suo complesso.

Penso anche agli interventi per migliorare la gestione delle risorse idriche, la cui manutenzione è stata spesso gravemente deficitaria.

Il PNRR stanzia più di 4 miliardi per questi investimenti, a cui va affiancato un “piano acqua” più urgente.

Per quanto riguarda le misure per l’efficientamento energetico e più in generale i bonus per l’edilizia, intendiamo affrontare le criticità nella cessione dei crediti fiscali, ma al contempo ridurre la generosità dei contributi.

Come promesso nel mio discorso di insediamento, e da voi sostenuto in quest’aula, questo governo si identifica pienamente nell’Unione Europea, nel legame transatlantico.

La nostra posizione è chiara e forte: nel cuore dell’Unione Europea, del G7, della NATO.

Dobbiamo continuare a sostenere l’Ucraina in ogni modo, come questo Parlamento ha impegnato il Governo a fare con una risoluzione parlamentare.

Come mi ha ripetuto ieri al telefono il Presidente Zelensky, armare l’Ucraina è il solo modo per permettere agli ucraini di difendersi.

Allo stesso tempo, occorre continuare a impegnarci per cercare soluzioni negoziali, a partire dalla crisi del grano.

E dobbiamo aumentare gli sforzi per combattere le interferenze da parte della Russia e delle altre autocrazie nella nostra politica, nella nostra società.

L’Italia è un Paese libero e democratico.

Davanti a chi vuole provare a sedurci con il suo modello autoritario, dobbiamo rispondere con la forza dei valori europei.

L’Unione Europea è la nostra casa e al suo interno dobbiamo portare avanti sfide ambiziose.

Dobbiamo continuare a batterci per ottenere un tetto al prezzo del gas russo, che beneficerebbe tutti, e per la riforma del mercato elettrico, che può cominciare da quello domestico anche prima di accordi europei.

Queste misure sono essenziali per difendere il potere d’acquisto delle famiglie e per tutelare i livelli di produzione delle imprese.

In Europa si discuterà presto anche della riforma delle regole di bilancio e di difesa comune, del superamento del principio dell’unanimità.

In tutti questi campi, l’Italia ha molto da dire – con credibilità, spirito costruttivo, e senza alcuna subalternità.

Ci sono altri impegni che l’esecutivo vuole assumere che riguardano, ad esempio, la riforma del sistema dei medici di base e la discussione per il riconoscimento di forme di autonomia differenziata.

Ma tutto questo richiede un Governo che sia davvero forte e coeso e un Parlamento che lo accompagni con convinzione, nel reciproco rispetto dei ruoli.

All’Italia non serve una fiducia di facciata, che svanisca davanti ai provvedimenti scomodi.

Serve un nuovo patto di fiducia, sincero e concreto, come quello che ci ha permesso finora di cambiare in meglio il Paese.

I partiti e voi parlamentari – siete pronti a ricostruire questo patto?

Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi, e che si è poi affievolito?

Sono qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, solo perché gli italiani lo hanno chiesto.

Questa risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani.

Grazie.

Minuti Lunghezza del discorso di Draghi: 33 minuti [Mattera, Rep].

Applausi Pd, LeU, Iv si alzano ad applaudire, FI resta seduta ma batte le mani, leghisti e cinquestelle restano a braccia conserte [Mattera, Rep].

Mascella Quando il premier conclude il suo intervento, Matteo Salvini ha la mascella bloccata. I rigassificatori, i tassisti, i balneari, i «tentativi di indebolire il sostegno del Governo verso l’Ucraina, di fiaccare la nostra opposizione al disegno del Presidente Putin»… Il presidente del Consiglio, senza nominarlo, lo ha pesantemente censurato [Fiammeri, Sole].

Terremoto È l’inizio della fine. Il premier ha escluso ogni ipotesi di Draghi bis e non tornerà indietro. Il leghista picchia duro. Draghi non lo lascia con lo sguardo, prende qualche appunto, poi si alza ed esce dall’Aula con il ministro Guerini. Si forma un capannello di emergenza. I ministri Franceschini, Brunetta e Speranza e il sottosegretario Garofoli convincono Draghi a tornare sui banchi del governo. Il Senato è in tempesta. La portavoce di Palazzo Chigi, Paola Ansuini, parla con i giornalisti per placare i senatori: «Draghi non ha sfidato, né attaccato i partiti, il suo intento era richiamarli alla responsabilità e tracciare il cronoprogramma delle riforme di fine legislatura». Tutto inutile, il terremoto è iniziato [Guerzoni, CdS].

Suk La seduta è sospesa, Draghi va alla Camera per consegnare il discorso al presidente Fico, e nei partiti comincia la giostra. Salvini riunisce il Carroccio, Renzi interpreta la rabbia dei leghisti: «Draghi ha detto “non voglio una fiducia di facciata”, non lo avrei apprezzato se si fosse messo a fare il suk in Parlamento». Ad aprire il mercato sono le forze politiche. Tutti alzano il prezzo, pongono veti e condizioni, chiedono posti di governo e sottogoverno [Guerzoni, CdS].

Dittatori La Meloni ha seguito il dibattito del Senato dal suo ufficio alla Camera, «sbigottita» per la discussione in aula dove «si sono presi tutti a pesci in faccia» per qualche ora. Irritata dalle parole di Draghi: «Arriva in Parlamento e di fatto pretende pieni poteri, sostenendo che glielo hanno chiesto gli italiani. Fratelli d’Italia non intende assecondare questa pericolosa deriva». Più tardi, tra i militanti che la circondano in piazza Vittorio, aggiungerà: «La differenza tra le democrazie e i regimi totalitari è che in democrazia il modo per valutare se i cittadini ti chiedono di governare è il voto. Se Draghi vuole verificare il consenso degli italiani si candidi alle elezioni» [Bravetti, Sta].

Ore 11.30. In Aula cominciano gli interventi dei gruppi parlamentari. Assenti durante il dibattito i ministri del M5S.

Casini/2 All’ora di pranzo, mentre il M5S chiuso nei suoi uffici con Conte non è più percepito come un problema, perché i riflettori si sono spostati sul centrodestra e inizia a diffondersi la voce che chissà, forse Lega e Forza Italia non votano, Casini si aggira scuro in volto: «Ero molto più tranquillo stamattina» [Schianchi, Sta].

Ore 13.00 I leader del centrodestra di governo si vedono nella villa di Silvio Berlusconi per fare il punto.

Mattarella Mattarella ha provato fino all’ultimo a riportare tutti i leader al buon senso. Nel pomeriggio ha provato a telefonare a Berlusconi e Salvini. Ma quando alle sue domande e sollecitazioni si è sentito leggere il comunicato che stava preparando il centro-destra, non ha insistito [Palmerini, Sole].

Risoluzioni Alla ripresa dei lavori, dopo la pausa pranzo, ci sono due risoluzioni presentate in Senato. La prima, a firma di Roberto Calderoli, chiede un governo «profondamente rinnovato», che includesse solo le forze politiche «espressione dei partiti che hanno votato a favore della fiducia» lo scorso 14 luglio (segno che Lega e Forza Italia vogliono un nuovo governo, con nuovi ministri e una nuova agenda). La seconda, a firma di Pierferdinando Casini, con un testo stringatissimo: «Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio, le approva».

Ore 14.51 La discussione generale va avanti velocemente. Molti interventi vengono ritirati. I partiti della maggioranza e in particolare il Pd tentano un’ultima mediazione. Così, quando la discussione generale si sta avviando alla conclusione dalla maggioranza chiedono alla presidente Elisabetta Casellati una pausa di sospensione. Un’ora e mezza è quanto rimane per rimettere assieme i pezzi. Troppo poco, troppo distanti le posizioni [Fiammeri, Sole].

Tabacci Sospensione dei lavori. Passa il sottosegretario Bruno Tabacci, l’aria curiale, le parole come fil di ferro. «Sa qual è la notizia Che Salvini se ne stava nascosto dietro a Conte. E invece eccolo qui, chi è Salvini» [Roncone, CdS].

Ore 17.40 Draghi replica agli interventi dei senatori.

Senatrici e Senatori,

sarà una replica abbastanza breve. Prima vorrei ringraziare coloro che hanno sostenuto l’operato del governo con lealtà, con collaborazione, con partecipazione.

Il secondo punto riguarda un’osservazione fatta dai senatori Casini, Santanché, Gasparri, Licheri. Sono osservazioni più o meno simili, a proposito di alcune parole espresse da me nel mio intervento iniziale con cui sembro quasi mettere in discussione la natura della nostra democrazia, come se avessi detto che non è una democrazia parlamentare: la democrazia è parlamentare, ed è la democrazia che io rispetto e nella quale mi riconosco.

Vorrei a questo punto rileggere esattamente le cose che ho detto oggi: “giovedì scorso ho rassegnato le mie dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Questa decisione è seguita al venir meno della maggioranza di unità nazionale che ha appoggiato questo governo fin dalla sua nascita. Il Presidente della Repubblica ha respinto le mie dimissioni e chiesto di informare il Parlamento di quanto accaduto. Una decisone che ho condiviso”.

A questo punto esistevano due possibilità: una era semplicemente presentarmi in aula, dichiarare e confermare le mie dimissioni, lasciare un intervento e andare via senza voto.

Il sostegno che ho visto nel Paese, la mobilitazione – rileggo – di questi giorni da parte di cittadini, associazioni, territori a favore della prosecuzione del governo è senza precedenti e impossibile da ignorare. E’ questo sostegno che mi ha indotto a proporre o riproporre il patto di coalizione e sottoporlo al vostro voto. Siete voi che decidete. Quindi niente richieste di pieni poteri.

Ed è per questo che siamo arrivati a questo punto della discussione. Ho voluto rispondere a questo punto perché è importantissimo.

Veniamo a un terzo punto che è stato sollevato: perché il governo non è intervenuto sullo ius scholae, sulla cannabis, sul ddL Zan? Voglio essere chiaro, siccome questo è stato un rimprovero rivolto dal governo nel corso di varie occasioni: il governo ha deciso di non intervenire per la sua natura di governo fondato su un’ampia coalizione, chiamiamola di unità nazionale, nei temi di origine parlamentare.

Vengo poi a una o due questioni specifiche, sollevate soprattutto del senatore Licheri. Sul salario minimo ho detto quello che dovevo dire: c’è una proposta che è in corso di approvazione a livello della Commissione europea, abbiamo aperto un tavolo con i sindacati, con Confindustria, lo apriremo e continueremo le discussioni qualunque sia la vostra decisione oggi con le altre confederazioni datoriali e credo si possa arrivare a una proposta di salario minimo che non veda l’imposizione, il diktat del governo sul contratto di lavoro.

Anche sul reddito di cittadinanza ho detto quello che dovevo dire: il reddito di cittadinanza è una cosa buona, ma se non funziona è una cosa cattiva.

Sul superbonus voi sapete quello che ho sempre pensato, ma il problema non è il superbonus, il problema sono i meccanismi di cessione che sono stati disegnati: chi ha disegnato quei meccanismi di cessioni senza discrimine e senza discernimento, lui o lei o loro sono i colpevoli di questa situazione in cui migliaia di imprese stanno aspettando i crediti. Ora bisogna riparare al malfatto, bisogna tirar fuori dai pasticci quelle migliaia di imprese che si trovano in difficoltà.

Non ho veramente molto altro da dire e chiedo che sia posta la fiducia sulla proposta di risoluzione presentata dal senatore Casini.

Silenzio Quando Draghi chiede il voto sulla risoluzione di Casini, cala il silenzio [Fiammeri, Sole].

Stupore Al voto, dunque, si va sul testo di Casini. Prendere o lasciare. Una scelta, quella di Mario Draghi, che il centrodestra accoglie con «stupore». Lega e Forza Italia decidono di agire di conseguenza: «Non parteciperemo al voto» [Bulleri, Mess].

Papeete Dov’è Matteo Salvini?

Eccolo laggiù. Sta entrando alla buvette, chiude una telefonata, ripone il cellulare in tasca. Cronisti intorno. Domande.

Perché in aula lei oggi non ha mai preso la parola Silenzio.

Si vergogna a metterci la faccia sulla fine di questo governo?

Silenzio.

È il suo nuovo Papeete?

Silenzio (però s’aggiusta la cravatta e poi stappa una lattina di Coca-Cola: al Papeete Beach era a torso nudo, sudato e barcollante, e vuotava un mojito dietro l’altro).

Accanto a Salvini c’è uno dei suoi più cari amici: Claudio Durigon (quello che giusto un anno fa propose di dedicare un parco pubblico di Latina ad Arnaldo Mussolini, fratello minore del Duce; sorvolando sul dettaglio che il parco era già intitolato a Falcone e Borsellino). Durigon cerca di buttarla in allegria.

Mostra al capo la foto del figlio: «Mi somiglia, eh?». Nessuno ride. La Lega è scossa. Salvini, pochi minuti fa, ha cercato di dire qualcosa a Giancarlo Giorgetti, il numero due della Lega, che lo ha — letteralmente, brutalmente — ignorato.

Giorgetti aveva abbracciato Draghi alla fine del suo discorso. Un gesto di affetto, una plastica dimostrazione di intesa. Da quel momento, numerose telefonate tra Giorgetti e i governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, che chiedevano rassicurazioni. «Matteo che intenzioni ha». Ma Matteo era seduto davanti a Silvio Berlusconi, nella sua villa sull’Appia Antica (Giorgia Meloni costantemente al telefono). «Non strapperemo mica», chiedeva Zaia. E invece qui s’è strappato tutto, tutto è venuto giù [Roncone, CdS].

Spin doctor Rocco, calmati.

«E-le-zio-ni! E-le-zio-ni!».

Rocco, dai, non fare così.

«Ma sono troppo felice! Troppo!» (Rocco Casalino saltella, stringe i pugni, eccitazione efferata: già si immagina finalmente candidato qui al Senato, un bell’accredito sicuro sul conto corrente, l’auto blu. Giuseppe Conte, immobile, osserva il suo spin doctor: l’avvocato di Volturara Appula suda freddo, ha il viso tirato e bianco come la pochette. Sta pensando: questo festeggia, però io intanto ho fatto un casino, ho acceso la miccia della crisi e — adesso — non solo mi sono giocato la reputazione ma, forse, pure la guida del Movimento. Il testimone oculare di questa scena esce dalla stanza dicendo: «Vi lascio soli, che è meglio»).

Il governo, fuori, sta morendo [Roncone, CdS].

Xanax I dimaiani si aggirano per il palazzo vestiti a lutto. “Troppi errori, da parte di tutti”, scuotono la testa. I colleghi centristi sono disperati. Mariarosaria Rossi, dentro alla buvette, inveisce contro la Lega: “Questi non si capisce cosa vogliono”. Qualche stanza più in là, Licia Ronzulli ha appena detto a Mariastella Gelmini, futura ex ministra, che deve darsi una calmata e se non ci riesce si prendesse lo Xanax. La leghista Lucia Borgonzoni non si capacita di aver perso il momento topico: “Ma nessuno ha avuto la prontezza di fare un filmatino?” [Zanca, Fatto]. La Gelmini poco dopo annuncerà di aver lasciato, dopo 25 anni, Forza Italia,

Giorgia Telefonata delle 19, in Senato: «Matteo ce l’abbiamo fatta!». All’altro capo del telefono c’è Giorgia Meloni. Sprizza adrenalina. Ha la sensazione di averla spuntata, stavolta, dopo 4 anni e mezzo a chiedere il voto [De Cicco, Rep].

Casini/3 Il senatore bolognese scuote la testa, la giornata sulle montagne russe è finita e l’ultimo tornante è stato fatale, «lasciatemi solo nel mio dolore» [Schianchi, Sta].

Ignavi Salvini, Berlusconi e Conte decretano la fine del governo, senza formalmente assumersi la responsabilità di dire «no» [Mattera, Rep] • «Questa è la misura della loro debolezza. Non riuscivano neppure a pugnalarlo. Dopo nove ore di agonia non volevano neppure concedergli la dolce morte di governo, le dimissioni terminali. A un certo punto, al Senato, un girone di anime ignave, ha avuto perfino questa idea: “Facciamo mancare il numero legale così la votazione è nulla e abbiamo ancora spazi per trattare. Aggiorniamo la seduta a domani. Draghi? Non se ne può andare. Chi si crede. Deve restare”. Ci sono tanti modi per accompagnare un governo alla fine. M5s, Lega e Forza Italia sono scappati dall’aula. In guerra, e tutti dicono che lo siamo, si chiama fellonia, tradimento» [Caruso, Foglio].

Colpevoli Draghi sta per uscire di scena. Gli hanno sentito dire questa frase: “Tutti gli italiani devono sapere che i colpevoli sono loro. Lega, M5s, Forza Italia. I colpevoli sono loro” [Caruso, Foglio].

Ascensore «L’addio è davanti a un ascensore. Mario Draghi trova la forza di una battuta, nonostante tutto. Sono le 19.30. Nove ore dopo aver parlato, nove ore che hanno ribaltato ogni pronostico, il presidente del Consiglio è esausto. La maggioranza di unità nazionale non c’è più. Solo 95 senatori, meno di un terzo del totale, hanno risposto sì alla fiducia. Gli chiedono se salirà subito al Quirinale per dimettersi: “Intanto prendo l’ascensore”, risponde. Fuori dal Senato, lo attende la macchina e una piccola folla di giornalisti. Esce, alza il braccio per salutare e sorride. Sembra quasi un sorriso di sollievo, e che contrasta con quello che si lascia dietro» [Lombardo, Sta].

Verdetto Il verdetto arriva con le ombre del crepuscolo, quando la presidente Casellati declama con tono esausto i numeri della non-sfiducia a Mario Draghi. Presenti 192, votanti 133, favorevoli 95, contrari 38. Il governo di unità nazionale non esiste più, affossato da Conte, Salvini e Berlusconi, che hanno puntato le loro carte sulle elezioni anticipate [Guerzoni, CdS]. Quando sul tabellone di Palazzo Madama compaiono i numeri sono da poco passate le 20: il presidente del Consiglio è tornato nel suo ufficio a palazzo Chigi [Mattera, Rep].

Coglione Qualche coglione ha consigliato a Draghi di «completare» l’iter parlamentare prima di presentarsi al Quirinale. Ecco perché non andrà stasera da Mattarella: aspetta di essere umiliato anche alla Camera dei Deputati… [Dagospia].

Orient Express «L’Italia è forte quando è unita» ha detto Draghi. E ieri una sorta di unità, non virtuosa, si è avuta. Inizialmente sembrava che il solo Conte volesse accoltellare Draghi, ma poi, durante la lunga giornata, in Senato sembrava di stare sull’Orient Express di Agatha Christie [Ajello, Mess].

Nonno Lo schema io e il Paese da una parte e voi dall’altra deve avere indispettito ancora di più i partiti e i parlamentari ed è caduta la scure sul collo dell’ex banchiere. Il quale era il più scettico di tutti sulle proprie speranze di sopravvivenza: «Io dico parole che mi sembrano di verità. Se vanno bene, bene. Sennò, facciano loro». Traduzione: se mi danno la fiducia, si fa come dico io; se me la negano, me ne torno a casa a fare il nonno (e poi magari il segretario generale della Nato o tra due anni il successore di Ursula alla guida della Ue). La botta che poi prenderà verso sera non la dissimula il premier, ma comunica a un amico quanto segue: «Io non ho niente da rimproverarmi. Quanto a loro, evidentemente vogliono sentirsi più liberi e tanti auguri». Già la bocciatura dei partiti quando voleva diventare Presidente della Repubblica gli era risultata massimamente indigesta, ora farsi umiliare un’altra volta rinunciando all’Agenda Draghi per dare mano libera alle propagande elettorali di Conte, Salvini e Berlusconi no e poi no [Ajello, Mess].

Rosh haShana I partiti stanno già discutendo sulla data del voto che potrebbe essere il 2 ottobre. Si era parlato anche del 25 settembre ma è la vigilia del capodanno ebraico, dunque, si potrebbe andare alla settimana dopo [Palmerini, Sole].

Maledizione «A Palazzo Chigi spiegavano che “i partiti hanno fatto i loro congressi oggi”. La Lega era lacerata. Il M5s non fa testo. Si sono serviti di Draghi per risolvere la loro “non democrazia interna”. Povero illuso! Voleva fare le cose, pensava di poterle fare. Un senatore: “Si vede che è economista”. Mentre Draghi parlava lo spread già volava ai livelli della Grecia carta straccia. C’è stato un momento in cui sembrava che Berlusconi potesse fare il miracolo. Quando ha capito che non era aria, Maria Stella Gelmini se ne è andata. Ha lasciato Fi. Il Quirinale non sapeva che dire. Draghi invece alla sua squadra confidava solo: “Avrei fatto tutto quello che avevo promesso e sarebbe stato abbastanza”. Aspetta di vederli all’esame quando il Paese sarà a un punto dall’esplosione. Non farà mai politica, no, ma dirà chi ritiene gli affidabili e chi gli inaffidabili. Li chiamerà per nome. Le sue parole peseranno come una maledizione» [Caruso, Foglio].

Americani Proprio ieri, nella Sala Capitolare del Chiostro di Santa Maria sopra Minerva, il Ministero degli Esteri organizzava il Transatlantic Investment Commitee, con gli investitori d’Oltreoceano. Era previsto un intervento del ministro Di Maio, che ha annullato tutto all’ultimo, ovviamente. Unico politico: il senatore Adolfo Urso, presidente del Copasir, di Fratelli d’Italia. Per garantire agli americani lì presenti che il futuro governo a trazione Fdi sarà convintamente atlantista e al fianco degli alleati nella guerra in Ucraina.

Cin cin di Simone Canettieri Il Foglio

“Senatrice Taverna, il suo Campari Spritz è pronto”. Ore 20, alla buvette c’è aria di “liberazione”. Cin cin. I grillini trangugiano prosecchi e patatine con intensità da bar del porto di Livorno. Parlano malissimo di Beppe Grillo, come al solito. A proposito, ma lo avete sentito l’Elevato? “No, non gli funzionava internet”. Risate velenose. Incredibile, una volta una battuta così sarebbe stata inimmaginabile. I leghisti, intanto, sono scomparsi. E dunque la scena è tutta per loro, per i 5 stelle, contenti e confusi, ubriachi di emozioni e così garruli. La senatrice M5s Anna Piarulli al bancone: “Non so nemmeno più come mi chiamo, ma sono felice”. E Paola Taverna Si sta abbracciando con una collega: “E’ andata bene. Abbiamo dimostrato di essere coerenti e nessuno ci può accollare la fine di Draghi. Inoltre, i rapporti con il Pd non sono persi”, dice la vicepresidente del Senato, per tutti donna Paola dal Quarticciolo, al Foglio con il suo drink arancione in mano. Pare che l’idea di rimanere in Aula senza partecipare al voto sia stata una sua trovata. “Ma non lo scrive, già mi odiano tutti qui, meglio avere un basso profilo. Ma abbiamo tenuto così in piedi il numero legale perché non prendiamo per il sedere i cittadini”. Intanto urlo dei cronisti delle agenzia di stampa: “C’è Lettaaa!”. E scatta la rincorsa al segretario del Pd. Ha una cera color zinco, si muove a scatti nervosi verso l’uscita. Ci ha provato fino alla fine. È andato anche al “capezzale di Conte”, come scherza Luigi Zanda, con Roberto Speranza e Dario Franceschini. Non c’è stato nulla da fare. “L’importante è che non ci danno colpa a noi”, ride Rocco Casalino, vera epifania qui a Palazzo Senatorio. “Non dico niente, non riuscirete a stuzzicare la mia vanità: avrei tante battute da fare”. Poi Casalino scompare nel bunker del M5s, le stanze del gruppo parlamentare. Ecco dov’è Conte? “È in riunione permanente, sta convocando un Consiglio nazionale, un’assemblea congiunta”, raccontano i senatori grillini abbastanza increduli della situazione: “Giuseppe è il nostro Mentana: l’uomo della maratona”. Ma cosa farete? “Al momento ancora non lo sappiamo”, dicevano alle 19 i pentastellati. Un’ora prima, sempre alla buvette, c’era stata la scena chiave della giornata: arriva Matteo Salvini, occhi rossi di stanchezza, in compagnia dell’inseparabile amico Claudio Durigon, già ex sottosegretario all’Economia. Paciosi, si scolano due Coca Cola. Parlottano. Si aggiunge Roberto Calderoli, il firmatario della risoluzione che ha fatto saltare il banco. Annuncio del capo del Carroccio tra un sorso e l’altro: “La risoluzione di Casini? Certo che non la voteremo”, dice Salvini. Senatore le manca solo il mojito e poi siamo al Papeete 2 in versione boiserie? Salvini non raccoglie la provocazione: “Un giorno scriverò un libro su questa giornata”. Stiamo già preparando le liste elettorali, spiegano ancora dal Carroccio. “È’ finita, dai”, dice Andrea Crippa, vicesegretario di Salvini, con il sorriso di chi sarà ricandidato per un altro giro. Gli staff dei ministri iniziano a farsi due conti: “Fino a quando mi pagheranno lo stipendio?”. Letta, volto di zinco, è andato al Tg1 per dare degli “irresponsabili” a tutti. Compreso Conte, certo. Che non nomina. In serata al Nazareno organizzano una riunione sulla campagna elettorale. Conte ha spiegato al segretario Pd che “le repliche di Draghi ci hanno umiliato: non gli voteremo mai la fiducia”. Anche Dario Franceschini, fuoriclasse della manovra, inizia a vedere scuro e mentre inizia la votazione prende a braccetto Roberto Speranza: “Si dimette”. C’è l’ha con il premier. “Sento aria di Grecia”, tuona Gianluigi Paragone, già grillino e già leghista. Conte e Salvini fin dalla notte avevano iniziato ad annusarsi. “Tu che fai?”. “Voi che fate?”. Adesso i vecchi partner del populismo si danno la colpa a vicenda su questo nuovo Papeete? “Colpa del Pd e del M5s”, dice Salvini. “Ci ha buttato fuori Draghi, e comunque non abbiamo presentato noi la risoluzione”. La situazione è così grave che spuntano Razzi e Scilipoti. Interviene la presidente Casellati: “Il senatore Ciampolillo ha chiesto di intervenire in dissenso con il gruppo…”. Simone Canettieri

Fracassa di Francesco Merlo la Repubblica

Più imprevedibile di un manicomio, la politica ha messo in scena l’inedito, goffo duello finale tra Matteo Salvini e Pierferdinando Casini, il gabbamondo sempre gabbato contro il più astuto di tutti, gatto e al tempo stesso volpe dell’eternità italiana. Incredibilmente, hanno perso entrambi, Salvini e Casini, ma solo perché Berlusconi non ha perdonato Pierfurby, come per sempre lo ha battezzato Dagospia catturandone l’anima, e mai avrebbe permesso proprio a lui — “il traditore” — di salvare Mario Draghi e il suo governo. Salvini non se l’aspettava, sognava di avere imprigionato Draghi in un’altra tela, una supertela da Uomo Ragno, e di essere diventato, proprio lui così ruvido e maldestro, il nuovo finissimo tessitore di Palazzo, nascosto come il papa absconditus del diritto ecclesiastico. E ora è furioso perché, in una giornata-babele, ha invece aiutato Draghi a dimostrare che, anche in Italia, ci si può dimettere non solo quando ci si sente “al di sotto”, ma anche quando ci si sente “al di sopra”, come fu, per esempio, il caso di De Gaulle che andò via senza dare spiegazioni e perciò permise a Raymond Aron di scrivere: «È un piacere ascoltare il silenzio di quest’uomo». Matteo Salvini lo aveva pure detto: non temo Giorgia Meloni, temo Giuseppe Conte. Non che ancora lo temesse come l’avversario che solo tre anni fa — sembra un secolo — lo aveva castigato e umiliato. Salvini temeva Conte come destino finale. Non solo aveva paura che la Lega si sgretolasse come i 5stelle, ma che “l’effetto Draghi” continuasse a immiserire la sua leadership, sino a renderlo appunto insignificante: un altro Conte. Ovviamente il capitano ha ancora il terrore di non essere più capace di sedurre, riscaldare e caricare i ragazzi padani che a settembre lo aspettano a Pontida, «i rivoluzionari da scuola Radioelettra» li chiama Giorgetti, che ieri sera gli ha detto: «La tua partita comincia adesso, dopo i novanta minuti in campo».
Ieri Salvini implorava Berlusconi — non fatemi “marciare” con Giorgia Meloni né “marcire” con Giancarlo Giorgetti — quando si è messa vorticosamente a girare la sua doppia identità. La scenografia era la Villa Grande che fu di Zeffirelli, il teatro del colpo di scena, del grande spettacolo, dell’eccesso che prende la mano. Dunque si sentiva smarrito, Matteo Salvini, come l’omino volante di Chagall, ma nella versione dell’omaccio volante, deturpato dal rancore, il meno zeffirelliano di tutti gli uomini.
E perciò alle 13, con Berlusconi, Salvini posava a statista: «Faremo il bene dell’Italia». Alle 14 telefonava, addirittura, a Giorgia Meloni: «Preparati alla campagna elettorale, torneremo insieme». E poi alle 15, al telefono con Mattarella, di nuovo: «Presidente, faremo il bene dell’Italia». E ancora alle 20, quando tutto ormai sarà finito, dirà: «Faremo il bene dell’Italia».
Salvini si era pure preso le sberle di Draghi ma, obbedendo a quell’altro se stesso, paziente e strategico, che non riuscirà mai a diventare, aveva indossato la tunica penitenziale, si era adornato di umiltà e aveva scelto di non parlare al mattino in Senato. Avrebbe voluto farlo nel pomeriggio per battezzare il Partito unico, «il centrodestra di governo per Salvini presidente». Non che avesse rinunciato a fare il regista: aveva ceduto il suo posto al capogruppo Romeo e si era messo a trattare, ma questa volta senza esporsi per non ripetere il disastro del gennaio scorso quando, alle grandi manovre per il Quirinale, bruciava “nomi” a ripetizione, persino quelli di Sabino Cassese e di Elisabetta Belloni.
E va bene che siamo nel Paese delle mille identità, ma più che il solito, abusato Machiavelli ci vorrebbe adesso un comico per raccontare quel capitan Salvini che, in combattimento contro se stesso, per tutta la durata del governo Draghi si atteggiava a Churchill: «Sono pragmatico, sono un uomo concreto, lascio agli altri le etichette: fascista, comunista». Studiava i codici della moderazione da quando a Bologna lo avevano sconfitto — ricordate? — le sardine. Mascherato da Cherubino di Mozart, «non so più cosa son, cosa faccio», si tratteneva in maniera sgangherata davanti a Draghi che fingeva di credere al suo travestimento pur sapendo che, prima o poi, Salvini sarebbe tornato se stesso. E se all’inizio ci volevano i nomi “Elsa Fornero” o “Carola Rackete” per farlo tornare, magari per un momento, l’incredibile Hulk, quello che più insultava e più seduceva una certa Italia in decomposizione: «sbruffoncella, fuorilegge, complice dei trafficanti, assassina, delinquente, criminale». E invece, dopo l’aggressione dell’Ucraina, erano i raggi gamma di Putin a risvegliare il capitan Fracassa dei “pieni poteri”, diventato pacifista e filorusso.
Anche “la ciambella” con cui aveva sognato ieri di salvare e imprigionare Mario Draghi in una camicia di forza, la mozione presentata dal suo fido Calderoli, deve essergli sembrata una sapienza di filosofia politica anglosassone alla Isaiah Berlin e non la solita furbizia politica meridiana, la destrezza di mano del terrone padano: «Il Senato accorda il sostegno all’azione di un governo profondamente rinnovato sia per le scelte politiche sia nella composizione ». Ma poi, all’improvviso, come Clint Eastwood, è arrivato Pierfurby, con il suo rigo appena: «Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio dei ministri, le approva»: al cuore, Ramon, al cuore. Francesco Merlo

Migliore di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano

“Qualcosa non va”, dice Draghi iniziando il discorso al Senato e indicando il microfono, con la solita arietta da Maria Antonietta, ma più proterva e sprezzante del solito. Poi ci spiega che Lui è lì non perché ha avuto 55 fiducie dal Parlamento, ma “solo perché l’hanno chiesto gli italiani” (e noi che non gliel’abbiamo chiesto o ci siamo distratti o non siamo italiani). Che con Lui “nel 2021 il Pil è cresciuto del 6,6%” (grazie alla Finanziaria del Conte-2 e al famigerato Superbonus). Che grazie a Lui l’Italia è entrata nel Regno di Sturno: “Ruolo guida nell’Ue e nel G7” (ma quando mai), “ritrovata credibilità internazionale” (c’era già Lui a Bruxelles quando l’Ue ci diede i 209 miliardi di Recovery), “riforme senza precedenti nella storia recente” (tipo la Cartabia appena bocciata dalla Ue), insomma “un miracolo civile”.
Poi purtroppo è tornata la politica, con la sua dialettica fra idee e interessi diversi, che Lui chiama “distinguo, divisioni, sfarinamento, strappi, ultimatum”. Fino a quello dei 5Stelle, che lui ha deciso di drammatizzare con le dimissioni malgrado una fiducia del 70% perché “chiunque potrebbe ripeterlo” (in realtà s’era già ripetuto prima, da Lega e Iv, ma lui se n’era infischiato): un autoaffondamento degno di Schettino, che manda a picco la nave e poi dà la colpa allo scoglio.
Poi infila una serie di balle sulle riforme fatte (magnifica quella sulla legge fiscale che favorisce i ricchi, ma per lui è fatta per i poveri) e ne annuncia una caterva per arrivare almeno fino a marzo (quando in teoria si dovrebbe votare): un programma di legislatura (la prossima) che prende a sberle soprattutto la Lega di Salvini (sui tassisti e i balneari), ma anche i 5Stelle di Conte (le balle sul Rdc che danneggia il mercato del lavoro e le non-risposte sprezzanti sugli altri 8 punti). Guardacaso i due leader che a gennaio gli sbarrarono la strada del Quirinale la prima volta che tentò la fuga. Poi quel capolavoro di populismo delle élite sugli “italiani che ci chiedono di essere qui” e la “mobilitazione senza precedenti per il governo, impossibile ignorare”, dove il servilismo peloso dei padroni e delle lobby viene confuso con il consenso popolare. Che si calcola nelle urne, non sui giornaloni (a proposito: gl’italiani che all’80% dicono no alle armi in Ucraina è possibile ignorarli?). Traduzione: io sono il Migliore, gli italiani sono con me, quindi decido tutto io, sennò me ne vado. I partiti cattivi “non devono rispondere a me, ma a tutti gli italiani”, che Lo portano in trionfo. E il Parlamento, in tutto ciò? Deve “accompagnare con convinzione il governo”: il potere legislativo, già culla della democrazia, degradato a badante o a caregiver dell’uomo solo al comando.
Checché ne dica Draghi, piccato con Meloni che lo punge sul vivo, è una richiesta di “pieni poteri”. E può avere due soli moventi: la voglia matta di farsi cacciare, oppure il tentativo di spaccare Lega e FI fra coerenti e governisti a prescindere, come già fatto nei 5Stelle con l’operazione Di Maio (a proposito: Giggino ’a Pultrona aveva escogitato la scissione per stabilizzare il governo e la cadrega, invece li ha fatti esplodere entrambi, praticamente un genio).
A quel punto, clamoroso al Cibali. Lega e FI, offese a morte dal premier, litigano furiosamente e reclamano un nuovo governo senza M5S, infatti non votano la mozione Casini con Pd, Leu e centristi, ma ne presentano una propria. Ora Conte, additato da tutti come lo sfasciacarrozze del governo per una non sfiducia, può salvare il governo in un solo modo: non più restandovi, ma uscendone. Letta e Speranza, visto il panorama ribaltato, riescono quasi a convincerlo a ritirare i ministri per l’appoggio esterno con la fiducia. Così la frattura nelle destre governiste esploderebbe, perché il governo avrebbe la fiducia senza di loro. Mentre Conte ci pensa, Draghi s’impegna subito per dissuaderlo. In una breve e sgangherata replica, anziché rispondere alle offese del leghista Romeo (ormai la Lega è out), prende i 5Stelle a calci in faccia: balle insultanti sul Reddito (“se non funziona è una cosa cattiva”; e pazienza se Inps, Istat e i suoi stessi ministeri dicono l’opposto; ma Di Maio, l’autore, tace e acconsente) e sul Superbonus (“colpa di chi l’ha mal fatto senza discernimento”; e pazienza per gli effetti positivi sull’ambiente, i 700mila nuovi occupati, il rilancio dell’edilizia e il +6,6% di Pil che Lui peraltro si intesta; ma il Pd, il coautore, tace e acconsente). Il tutto alzando la voce in quella che ha tutta l’aria di una crisi isterica in piena Aula, oppure una gelida mossa per scoraggiare un’eventuale fiducia grillina in extremis. Risultato: il M5S non si spacca, anzi guadagna pure un senatore; Lega e FI si ricongiungono a FdI.
Il Migliore dei Migliori si congeda così, col secondo e definitivo autoaffondamento alla Schettino, senza più neppure uno scoglio da incolpare. Ha fatto tutto lui, con una serie di mosse talmente scomposte e scombiccherate da non lasciare rimpianti, se non tra i numerosi clientes. Un tragicomico coming out in diretta tv che ha svelato a chiunque abbia occhi per vedere chi è davvero: un grande cultore non del bene comune, ma del proprio monumento. Così è riuscito ad apparire perfino peggiore dei famigerati partiti che, casomai ne avessero bisogno, Lui e i suoi laudatores avevano screditato per 17 mesi. Diceva bene, Draghi, all’inizio del suo discorso: “Qualcosa non va”. Ma non era il microfono. Era Lui. Marco Travaglio

Scenari di Francesco Verderami Corriere della Sera

Draghi lascia la scena, ma in campagna elettorale il suo nome sarà quello più citato. Persino il profilo delle coalizioni sarà influenzato dagli effetti del suo governo, e dal modo in cui è finito. Insomma Draghi c’è anche se non c’è già più. E proprio perché la figura del premier agli occhi dei partiti stava progressivamente assumendo un carattere politico, il centrodestra ha sfruttato l’apertura della crisi provocata da M5S per puntare alle urne ed evitare di venir destrutturato dall’azione di Palazzo Chigi. Già l’altro ieri si erano visti i prodromi della manovra: al vertice da Berlusconi — dove non erano stati invitati i ministri di Forza Italia — i tentativi di mediazione di Gianni Letta erano stati respinti. E ieri il Cavaliere ha risposto al telefono a Draghi solo a operazione completata. Tatticamente si tratta di una mossa «di scuola», che consente ai tre leader di compattarsi, di presentarsi uniti alle future elezioni e di impedire che la temuta «mutazione montiana» del premier si completi.
In realtà il centrodestra già oggi paga un costo per la sua scelta. L’addio del ministro Gelmini alle file azzurre — e il disagio che al momento non si è tradotto in rottura di Carfagna e di Brunetta — prelude a un’emorragia di una decina di parlamentari forzisti dell’area «moderata». Quelli che, per dirla con il senatore Cangini, non si rassegnano alla «politica mangiata dalla demagogia». È un fatto però che l’accelerazione verso il voto toglie spazio e tempo al disegno di quelle pattuglie centriste che si muovono alla periferia della coalizione e sono attratte dal magnete draghiano. Si vedrà se il centrodestra sconterà un dazio elettorale per essersi cointestato l’offensiva finale contro il governo di unità nazionale.
Ma non c’è dubbio che in campagna elettorale dovrà fronteggiare una narrativa degli avversari impostata proprio sulla figura e l’opera del premier.
«Sempre che il premier non scenda direttamente in campo», spiegavano ieri all’unisono un esponente di centro e un deputato del Pd. Sono speranze ridotte al lumicino e coltivate per qualche istante ieri sera dopo la scelta del Quirinale di imporre anche il passaggio alla Camera sulla fiducia. Ma ai centristi già basterebbe «un endorsement di Draghi con la sua agenda di governo»: «Un simile evento sconvolgerebbe il quadro politico e potrebbe mettere in dubbio il pronostico che dà già per vincente il centrodestra alle elezioni». Bisognerebbe capire quanto del gradimento personale (molto alto) del premier si trasformerebbe in consensi. Eppure Renzi ci scommette. Lo si è capito nel dibattito al Senato, quando il leader di Italia viva ha annunciato che «daremo una casa e un tetto ai riformisti, perché il nostro sì a Draghi non riguarda solo il passato. Riguarda il futuro».
Quanto grande possa essere questa casa, non è dato sapere. La formazione di Toti, sebbene schierata con il premier, sarà chiamata a una scelta di campo. E siccome l’attuale sistema di voto ha una ferrea logica di schieramento e il governatore ligure guida una giunta di centrodestra, il passo sembrerebbe obbligato. Ma l’arcipelago centrista che si muove sulla linea di frontiera tra i due blocchi può avere nell’agenda Draghi il collante ideale. Vale per Renzi quanto per Calenda. Come vale anche per Di Maio, che meditava altri progetti quando fece la scissione dal M5S e confidava di avere tempo per strutturare la sua operazione. Al punto che, il giorno dopo il distacco dai grillini e sotto l’effetto dell’endorfina, si lasciò andare a una confidenza con un collega ministro: «Vedrai… a settembre anche Giancarlo sarà dei nostri».
Vere o meno che fossero le aspettative, ieri sera «Giancarlo» Giorgetti le ha mandate deluse: «La fine del governo poteva avvenire in modo più dignitoso», ha commentato laconico. Il ministro non lascia la Lega, ma insieme ai governatori fa trapelare un malcontento che promette di diventare qualcos’altro in futuro se il disegno elettorale di Salvini non andasse come da copione. Perché la verità è che in questi sedici mesi la figura di Draghi ha agito in profondità nei partiti della maggioranza. E per quanto nessuna forza politica abbia mai amato il premier, alcune di esse oggi — per calcolo o disperazione — si aggrappano all’ex capo della Bce per sfuggire a un destino apparentemente già segnato.
È il caso, per esempio, del Pd. Quando nacque il gabinetto di larghe intese, al Nazareno l’ostilità dei democratici verso Draghi si tradusse in una frase: «Questo governo fa paura». Ora che fa paura il centrodestra, persino i dirigenti più avversi al premier hanno in tasca il suo santino. D’altronde a chi potrebbero affidarsi adesso che il «campo largo» non esiste più? Ieri, appena si è sparsa la notizia di un incontro tra Letta, Speranza e Conte è scoppiato il pandemonio nel partito dove non vogliono più sentir parlare del capo grillino. Via il punto di riferimento del progressismo, nel Pd si alzano le insegne di Draghi e della sua agenda. Guerini parla fitto con Renzi come non succedeva da anni. E Letta proverà ora a costruire un rassemblement nel nome di «super Mario». In fondo la partita elettorale si deve ancora giocare. (Francesco Verderami)

(Fonte: Anteprima – Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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