A essere sinceri fino alla brutalità, dobbiamo ammettere che le commemorazioni per le stragi del 1992-’93 sono un rito stanco, ripetitivo, vuoto, noioso, inconcludente. Perché allora dedicare quattro pagine speciali del Fatto al 30° anniversario dell’assassinio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro? Perché forse, in questa Povera Patria, esiste ancora qualcuno che non lo trova inutile. Ma dev’essere un ben strano soggetto. Guardiamoci intorno. La Sicilia e Palermo stanno per tornare nelle grinfie di Dell’Utri e Cuffaro. FI, fondata e guidata da un signore tuttora indagato come mandante delle stragi, è al governo senza che nessuno ricordi quell’agghiacciante indagine, neppure quando l’indagato è candidato dal centrodestra al Quirinale. I pochi pm rimasti a scavare nei rapporti fra mafia e politica, come Gratteri, vengono sistematicamente sabotati e scavalcati, mentre fanno carriera i normalizzatori. La Consulta smantella, con la complicità di governo e Parlamento, il 41-bis e l’ergastolo ostativo: le due armi che, insieme ai pentiti, ci hanno consentito di sapere quel poco che sappiamo sulle stragi. Da otto mesi si attende la motivazione della sentenza d’appello che assolve i colletti bianchi per la trattativa Stato-mafia. Tra un mese si voterà su un referendum per riportare i condannati nelle istituzioni; e si terranno Amministrative al buio, senza che l’Antimafia indichi per tempo i candidati impresentabili.
Eppure restiamo fra i pochi temerari a pensare che la altri mafiosi sul posto? Chi indusse Riina ad anticipare in fretta e furia via D’Amelio prima che Borsellino verbalizzasse le sue ultime scoperte sul piano di destabilizzazione retrostante Capaci? Chi erano gli infiltrati della polizia complici di via D’Amelio che la moglie del pentito Di Matteo lo pregò di non indicare ai pm mentre il figlioletto Giuseppe era prigioniero? Chi è il tizio, sconosciuto ai mafiosi, che Spatuzza vide partecipare al caricamento dell’esplosivo nella Fiat 126 per la strage Borsellino? Chi erano i rappresentanti dello Stato che fecero sparire da via D’Amelio l’agenda rossa di Borsellino? Per rispondere, occorrerebbero magistrati specializzati e coraggiosi, ma i pochi che abbiamo sono quasi tutti in pensione. L’ultimo, Scarpinato, ha affidato ai colleghi rimasti un dossier con nuove piste: vigileremo perché non ammuffisca in un cassetto.
Le controriforme targate Cartabia chiudono la preziosa parentesi Bonafede proprio a questo scopo: una magistratura sempre più burocratica e verticalizzata, in cui basta controllare un pugno di capi per bloccare sul nascere qualunque pm “testa calda”. Come negli anni dei porti delle nebbie e delle sabbie. Nel 1982 il Pg di Palermo Giovanni Pizzillo accusò Rocco Chinnici, capo dell’Ufficio istruzione (il pool con Falcone e Borsellino), di “rovinare l’economia siciliana” indagando sulle banche e gli intimò di “caricare Falcone di processi semplici in modo che cerchi di scoprire nulla”. Ora, grazie alla Cartabia, i pm verranno giudicati dal numero di indagini: chi farà “processi semplici” (sui poveracci) sarà premiato e chi si avventurerà in quelli complessi (sui potenti) punito. In attesa di una nuova generazione di magistrati che ritrovi il coraggio e la memoria dei processi complessi contro la tentazione comodissima di archiviare i buchi neri alla voce “archeologia giudiziaria”, non resta che coltivare e pungolare l’opinione pubblica. In tempi di elezioni, ci resta l’arma del voto: noi continueremo a informare chi vuole sapere, nella speranza che poi tutti compiano il proprio dovere.
LA STRAGE DI CAPACI
Ore 17.58: ucciso Falcone. La morte annunciata: cronaca per chi non sa o non si ricorda23.05.1992, TRENT’ANNI DOPO – Dalle “menti raffinatissime” alle “persone importanti”, dal tritolo al telecomando: come si arriva all’attentatoDI GIUSEPPE PIPITONE
22 MAGGIO 2022
Non si era ancora fatto ammazzare. Era questa la sua più grande colpa. È il 12 gennaio 1992, Giovanni Falcone è ospite di Babele, il programma condotto da Corrado Augias. È un mezzo processo in diretta tv: gli contestano di aver scritto un libro Cose di Cosa nostra, lo criticano perché ha lasciato Palermo ed è andato a Roma, a lavorare al ministero di Grazia e giustizia. Dal pubblico: “Lei dice che in Sicilia si muore perché si è soli, giacché fortunatamente è ancora tra noi, chi la protegge?”. Falcone risponde: “Questo è il Paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e la bomba per fortuna non esplode, la colpa è tua che non l’hai fatta esplodere”. Il giudice si riferisce all’Addaura, a quel fallito attentato del 21 giugno 1989, quando un borsone con 58 candelotti di esplosivo viene ritrovato nei pressi della villa presa in affitto per l’estate. “Per essere credibili in questo Paese bisogna essere ammazzati?”. Alla strage di Capaci mancano quattro mesi.
GLI ANNI 80: BUSCETTA E IL MAXIPROCESSO
Tutto comincia con Tommaso Buscetta, il boss che nel giugno del 1984 decide di collaborare con Falcone. Meno di due anni dopo, il 10 febbraio del 1986, le accuse di don Masino portano al Maxiprocesso. Gli imputati sono 475 e per processarli viene costruita un’enorme aula bunker, attaccata al carcere Ucciardone di Palermo. Il 16 dicembre del 1987 i giudici vanno a sentenza: 19 ergastoli, condanne per tremila anni di carcere. Per la prima volta Cosa nostra viene condannata come un’unica organizzazione criminale. “Abbiamo vinto”, esulta Falcone con Giovanni Paparcuri, il perito informatico del pool. A Paolo Borsellino dice: “La gente fa il tifo per noi”. Quello, però, è solo il primo atto. E dura pochissimo. Sui giornali Falcone diventa “il giudice sceriffo”, si comincia a parlare di “teorema Buscetta”. Quando il giudice alza il tiro sui colletti bianchi, sui politici come Vito Ciancimino, sugli intoccabili come i potenti esattori fratelli Salvo, ecco che il sistema si muove. E reagisce.
FINE ANNI 80: LA STAGIONE DEI VELENI E DEI CORVI
A Palermo comincia la stagione dei veleni. Come quelli scatenati da un articolo dello scrittore Leonardo Sciascia sul Corriere della Sera il 10 gennaio 1987. Il titolo è destinato ad avere successo: “I professionisti dell’antimafia”. Sciascia non usa mai direttamente quella espressione, ma contesta il fatto che in alcuni settori – come la politica o la magistratura – aver lottato contro la mafia può diventare un modo per fare carriera. Quelli sono ancora gli anni di Antonino Caponnetto, il magistrato che era arrivato da Firenze per sostituire Rocco Chinnici, l’inventore del pool antimafia assassinato con un’autobomba il 29 luglio del 1983. Quasi cinque anni dopo, la sera del 19 gennaio del 1988, il Csm deve eleggere il successore di Caponnetto. Falcone è il suo erede naturale, ma viene scelto Antonino Meli: un magistrato più anziano, che non si è mai occupato di mafia. Quella notte Falcone comincia a morire. Lo sosterrà Borsellino anni dopo, scagliandosi contro i “giuda” che tradirono l’amico e collega magistrato. Nell’estate del 1989 alcune lettere anonime vengono inviate alle più alte cariche dello Stato: accusano Falcone di aver pilotato il ritorno dagli Stati Uniti dell’esponente della mafia sterminata dai corleonesi, il pentito Salvatore Contorno, il quale – secondo il Corvo – era stato usato da Falcone per stanare Totò Riina. In un’altra missiva, stavolta pubblicata dal Giornale di Sicilia, una vicina di casa si lamenta per il caos provocato dalle macchine di scorta del giudice: propone di trasferire fuori città tutti i magistrati antimafia. Ma a impensierire Falcone è ancora il fallito attentato dell’Addaura. È in un’intervista a Saverio Lodato su L’Unità che parla per la prima volta di “menti raffinatissime”, che “tentano di orientare certe azioni della mafia”, “punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi”. È su questo che lavora Falcone alla fine degli anni ’80. Sulle trame nere dietro ai delitti politici, sul ruolo di Gladio, sui soldi investiti da Cosa nostra al nord. Dopo Buscetta, il giudice interroga pentiti su pentiti. Sente Francesco Marino Mannoia e appunta: “Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”. L’appunto sarà ritrovato da Paparcuri, suo storico collaboratore, soltanto nel 2017. Ma agli atti queste dichiarazioni non risultano.
1991: VIA DA PALERMO
Arriva Pietro Giammanco, procuratore capo di Palermo. Falcone nel febbraio del ’91 accetta la proposta di Claudio Martelli e va a Roma a dirigere gli Affari penali. Gli rimproverano di essersi seduto sul potere, di aver lasciato incompiute le indagini sui politici collusi. Quelli sono i mesi in cui il Maxiprocesso arriva in Cassazione. Molti pentiti come Mannoia, Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Salvatore Cancemi raccontano che a Totò Riina erano arrivate garanzie: le condanne sarebbero andate in fumo. Riina non si fida: ai suoi dice che a Roma Falcone sta facendo più danni che a Palermo. Ed è vero: il giudice riesce a fare in modo che il Maxi finisca su un tavolo diverso da quello di Corrado Carnevale, noto per l’alto numero di condanne annullate per cavilli.