Il 24 gennaio 2016 la rete Al-Hayat Media Center, organo di propaganda ufficiale dello Stato islamico, diffonde un video di 17 minuti che incensa «i nove leoni del califfato», come li definisce. Sono ripresi in un paesaggio sassoso, probabilmente in Siria, nel corso dell’estate 2015. Sono vivi, in quel momento. Con fierezza, cinque di loro decapitano dei prigionieri con un coltello, altri tre usano un fucile d’assalto per ammazzarli. Il loro capo, Abdelhamid Abaaoud, annuncia e rivendica in anticipo un grande attentato in Europa. Alcuni mesi dopo, tutti e nove vanno a Parigi per ammazzare 130 persone, prima di essere ammazzati o ammazzarsi da soli.

In realtà, avrebbero dovuto essere dieci. Ne manca uno. Non è nel video. Non è tra le fila dei leoni del califfato. Sarà, in compenso, al centro del processo: si tratta di Salah Abdeslam.
Il decreto di rinvio a giudizio è una sorta di riassunto, in 348 pagine, del milione di pagine che conta tutta l’istruttoria. In teoria non sarebbe accessibile ai giornalisti, ma in pratica lo è. È un documento molto denso, ricchissimo di informazioni che ho spulciato per buona parte dell’estate. Lunghe note biografiche descrivono nel dettaglio la personalità e le azioni di ognuno dei quattordici imputati che compariranno in aula a partire dall’8 settembre (altri sei saranno giudicati in contumacia).

Queste quattordici persone hanno il comune il fatto di non essere morte, ma anche, è il caso di rammentarlo, di non aver ucciso. I nove che hanno ucciso, da parte loro, sono tutti morti. L’azione della giustizia è dunque estinta per quanto li riguarda, ma hanno comunque diritto alle loro note biografiche nel decreto di rinvio a giudizio. Esaminandole, quelle dei vivi e quelle dei morti, sono rimasto affascinato da un dettaglio. Una faccenda di nomi.

I soldati del jihad si danno, o qualcuno dà loro, dei nomi di guerra, le kunya. La kunya comincia sempre per «Abu», che vuol dire padre, e termina con «al-qualche cosa», in base all’origine geografica o a una virtù del combattente. Per esempio, Abu Bakr al-Baghdadi, il capo dello Stato islamico, si chiamava così perché veniva da Bagdad e anche perché Abu Bakr fu il primo compagno del profeta e in seguito il primo dei cosiddetti califfi «ben guidati» che gli succedettero. È basandosi su questo prestigioso modello che un giovane ciberjihadista della città normanna di Caen, con nome e cognome così francesi che più francesi non si può, si è autobattezzato Abu Siyad al-Normandy. Quattro dei nove membri dei commando del 13 novembre, fra cui Abaaoud, erano belgi e quindi si facevano chiamare al-Belgiki; tre erano francesi (al-Faransi) e due iracheni (al-Iraqi).Se passiamo a guardare i quattordici che compariranno a giudizio, abbiamo la sorpresa di non trovare più neanche uno di quei nomi di guerra. Alcuni hanno dei soprannomi, ma è una cosa completamente diversa. C’è Ahmed Damani, detto «Gégé» o «Protesi». C’è Mohamed Abrini, detto «Brioche», non si sa bene se per la sua corpulenza o perché ha lavorato per breve tempo in una panetteria prima di consacrarsi alla perforazione di casseforti, che è all’origine dell’altro suo nomignolo, «Brink’s».

In quale momento si sono conferiti o hanno ricevuto quei nomi di paladini del jihad che per loro dovevano essere estremamente lusinghieri? In quale momento gli altri hanno prudentemente rinunciato a rivendicarli? Era chiaro, esplicito, che il diritto di portarli veniva comprato a prezzo della vita? E che cosa pensare dell’unico che è rimasto, indeciso, sul confine fra i due gruppi?

A differenza delle comparse che lo circonderanno sul banco degli imputati, Salah Abdeslam era parte integrante del commando. Doveva uccidere e venire ucciso anche lui. Senonché, all’ultimo minuto, ha avuto paura oppure la sua cintura esplosiva non ha funzionato: lo sapremo solo se parlerà ed è poco probabile che parli. Quello che sappiamo, in compenso, è che ha anche lui un alias, ma troncato: Abu Abderrahman, semplicemente. Niente particella, niente titolo di nobiltà omicida: «Abu Abderrahman al-niente di niente».

Gli altri, quelli che abitano soltanto i loro poveri nomi di tutti i giorni, non era previsto che uccidessero e immagino che i loro avvocati cercheranno di spiegare che non sapevano molto bene che cosa facevano, a cosa stavano partecipando noleggiando delle automobili, acquistando le taniche di liquido per la manutenzione delle piscine che servono per fabbricare le bombe o andando a recuperare in una Parigi a ferro e fuoco, la notte del 13 novembre, il loro amico Salah che diceva di avere dei problemi. Alcuni ripeteranno probabilmente quello che ha ripetuto instancabilmente Jawad Bendaoud, il proprietario del fatiscente immobile di Saint-Denis dove Abaaoud fu scovato e ucciso dalle forze di sicurezza qualche giorno più tardi: «Mi hanno chiesto di rendere un servizio e ho reso un servizio» (la frase ha girato sui social, un intermezzo comico in quei giorni terribili; l’accogliente affittacamere è stato soprannominato «Century 21», dal nome della famosa agenzia immobiliare americana).

Di tutti gli imputati, Salah Abdeslam è il solo che avrebbe dovuto uccidere, anche se non l’ha fatto. È questo che gli vale la nostra attenzione, e le impressionanti condizioni di detenzione che sono state ampiamente descritte: isolamento totale, la sua cella circondata da altre celle vuote a fare da cuscinetto, telecamere accese 24 ore su 24. Il timore non è tanto che possa evadere, quanto che possa suicidarsi, privando così il processo della sua vedette. Una vedette di basso livello: il suo avvocato belga, Sven Mary, ha fatto sensazione quando ha detto che il livello mentale del suo assistito era quello «di un posacenere vuoto». È una tesi difensiva: l’imputato è troppo cretino per preoccuparci di lui. Posacenere vuoto o meno, si può pensare che questo processo verta su ben altro che Salah Abdeslam e che soffermarsi sulla psicologia di Salah Abdeslam equivalga a concedergli troppo onore.

Qualcuno, però, non l’ha pensato. È un qualcuno che ha seguito un percorso strano. Si tratta di una donna di nome Etty Mansour, che non è stata vittima degli attentati, non ha avuto vittime tra le sue conoscenze, ma che era incinta, che ha partorito qualche giorno dopo e da quella coincidenza all’apparenza poco significativa ha tratto l’oscura certezza di avere il dovere di capire qualcosa di quello che era appena successo. Senza essere giornalista, senza essere incaricata da nessun altro se non da se stessa, senza parlarne con le persone che le erano più vicine, è andata a indagare a Molenbeek, quel quartiere di Bruxelles da cui proviene una buona fetta dei jihadisti europei e in particolare tutti gli al-Belgiki del commando. Indagare a Molenbeek, indagare su Salah Abdeslam è una cosa che bisogna voler fare. Nessuno parla, tutti le chiudono subito la porta in faccia. Non è soltanto difficile, ma pericoloso.

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Chiunque altro avrebbe rinunciato. Etty Mansour si è ostinata. Ha girato per Molenbeek per quattro anni, ha incontrato educatori, imam, autorità comunali e poi, poco a poco, avvicinandosi per cerchi concentrici, i vicini, i compagni di classe, fino alla fidanzata di Salah Abdeslam, che ha potuto amare, lei bella, intelligente, grave, devastata, come la descrive Etty, un ragazzo immaturo, festaiolo, invidioso, manipolatore, roso dal risentimento, sì, ma non un posacenere vuoto. Nessuno è un posacenere vuoto. Quanto a me, non ho passato quattro anni a Molenbeek, ma gli ultimi quattro mesi – era molto più facile – a divorare libri per prepararmi al processo. Potrei raccomandarne parecchi; fra i tanti: i reportage di David Thomson (Les français jihadistes, Les revenants), il saggio di Marc Weitzmann (Un temps pour haïr).

Alla vigilia della prima udienza, del momento in cui Salah Abdeslam e gli altri tredici faranno il loro ingresso dentro l’aula sotto i nostri sguardi, il complesso e sorprendente ritratto di Etty Mansour (Convoyeur de la mort, edizioni Équateurs) mi ricorderà che noi che seguiamo questo processo non siamo venuti per giudicare – quello è il lavoro dei giudici – ma per comprendere, o almeno provarci. La posizione inversa è stata sostenuta dal nostro primo ministro dell’epoca, Manuel Valls, con queste parole indignate: «Spiegare è già giustificare». Io non credo.

(Traduzione di Fabio Galimberti) 1-(continua)