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Il caso Lea Schiavi: chi uccise la giornalista?

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LIBRO-INCHIESTA

Il caso Lea Schiavi: chi uccise la giornalista?

L’INDAGINE – L’omicidio di una donna dimenticata dal suo Paese. Antifascista, fu una delle prime inviate: Massimo Novelli sottrae all’oblio il suo nome

DI MADDALENA OLIVA 

7 MARZO 2022

La sua storia, la storia della morte di Lea, fu raccontata per la prima volta nel programma tv They Live Forever: “Vivono per sempre”. Era passato pochissimo tempo da quel 24 aprile del 1942, il giorno in cui Lea Schiavi, 35 anni, giornalista antifascista di Borgosesia, venne uccisa in un’esecuzione premeditata, nei pressi di Miandoab, non lontano da Tabriz, la città più importante dell’Iran del Nord, allora quartier generale dell’Armata Rossa. “Vivono per sempre” era il titolo della trasmissione americana del ‘42, ma Lea Schiavi, per il suo Paese, per l’Italia, è invece come se non avesse vissuto, come fosse mai esistita. È stato così per quasi ottant’anni. Nessuna menzione negli elenchi delle associazioni antifasciste e della Resistenza. Non un ricordo da parte dei circoli femministi, né, tanto meno, dall’Ordine dei giornalisti.

“Sei un comunista?”, chiese Maria. “No, sono un antifascista”, rispose Robert Jordan. “Da molto tempo?”. “Da quando ho capito il fascismo”. Non sappiamo se ebbe modo di leggere Per chi suona la campana di Ernest Hemingway. Molto probabilmente sì. E non solo perché Lea fosse sposata con un americano, Winston Burdett, giornalista e corrispondente di guerra per la famosa CBS. Ma perché, per chi conobbe Lea Schiavi Burdett, il primo ricordo era sempre: “Di se stessa diceva di essere antifascista”. Lo scrisse allora George Weller, corrispondente di guerra e Premio Pulitzer, che aggiunge: “È improbabile che Lea fosse comunista”. Per “il suo chiassoso e allegro senso dell’umorismo. Le donne italiane sono ricche di fascino, ma Lea era anche spiritosa. La sua specialità erano le storie incredibilmente divertenti di disavventure femminili”. Scorrendo le pagine de Il caso Lea Schiavi di Massimo Novelli – che più di tutti ha sottratto all’oblio quel nome – così la vedrete. A Milano, al ristorante Bagutta, seduta al tavolo coi colleghi maschi, quando, assieme a Guelfo Civinini del Corriere, “rivolgendosi ad alcuni commensali, la signorina Schiavi definì il Duce un muratore e il Fuhrer un imbianchino”, secondo la più antica annotazione di polizia sul suo conto (era il 1938). E ancora: Lea e il suo primo viaggio da inviata per l’Ambrosiano a Belgrado. La missione era scrivere di costume e di storia, ma nei suoi pezzi, pur parlando d’altro, inizia a spirare quell’alito di morte che avvolgerà l’Europa. Lea, inviata speciale, capace di “eguagliare i giornalisti maschi nel bere”. Lea, che “non poteva, per sua natura, prendere mai sul serio niente che non fosse avventura e imprevisto”, come ricorda nel 1955 Antonio Siri sul Corriere d’informazione.

Nel notevole sforzo e ricerca di verità che Massimo Novelli fa su questa figura dimenticata, c’è anche questo: il tentativo di restituire profondità e contorni a una vita di una giovanissima donna, i cui sogni, “in quel declinare degli anni Trenta, dovettero fare i conti con la realtà”. Una realtà di morte. “I combattimenti di Spagna, il sangue che scorreva in Asia, e la paura che presto una guerra avrebbe sconvolto tutta l’Europa. Hitler aveva inghiottito l’Austria, stava per prendersi la Cecoslovacchia e la Polonia, nessuno sembrava volerlo fermare. I pogrom contro gli ebrei in Germania e in Austria, il nazismo che faceva proseliti nei Balcani…”. È proprio quando si affaccia alla vita, quando inizia a viaggiare per raccontare, che in Lea matura una insofferenza crescente: per l’Italia dei gerarchi, per le leggi razziali, per Mussolini. All’inizio, viene solo tenuta d’occhio. I suoi articoli passano al vaglio della censura fascista. Arriva poi il provvedimento di espulsione da Romania e Jogoslavia per “propaganda antilegionaria”. Il mandato di arresto. Marito e moglie decidono allora di rifugiarsi in Turchia e poi in Iran. Qui Lea, annota il Servizio segreto militare, “lavora per i giornali americani e fa propaganda antifascista. Al Cairo dicono che sia legata all’Intelligence Service, a cui segnala i connazionali rimasti in Iran, e che abbia aderito al Free Italy Movement. Quindi intensificare i controlli”. Fino al 24 aprile 1942. Fino al giorno in cui Lea Schiavi viene uccisa.

La ricostruzione dell’agguato da parte dell’amica Zina Aghayan, che viaggiava con lei in Kurdistan, fu molto precisa: l’auto venne bloccata da “due gendarmi. Il più anziano prima si era accertato dell’identità di Lea; poi, dopo avere avuto la certezza, le aveva sparato, uccidendola”. Restano i misteri. Chi aveva ucciso Lea Schiavi Burdett? Era stata eliminata perché come giornalista “she knew too much”, sapeva troppo, secondo quanto il marito Winston dichiarò nel 1955, davanti al Senato, dopo aver confessato di essere stato un comunista? O l’avevano ammazzata perché antifascista? O, ancora, era stata uccisa dai russi per dare una lezione al marito? Tutte domande su cui si interroga Novelli in un clima da Guerra di spie, per citare il titolo del libro di Mimmo Franzinelli che per primo cercò di non far calare il sipario sulla morte di Lea. Quasi fosse un investigatore, qui Novelli scrive un libro nel libro: si mette sulle tracce di Lea Schiavi e ne ricostruisce tutti i passi, gli spostamenti, quasi i pensieri. Perché, come dice la citazione di Eric Ambler con cui l’autore apre il libro: “L’importante, in un assassinio o tentato assassinio politico, non è sapere chi ha sparato, ma chi ha pagato le pallottole”.

FONTE:

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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