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1957, Santa Maria Capua Vetere: Uccise l’amante della sorella con una coltellata al cuore di Ferdinando Terlizzi

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1957, Santa Maria Capua Vetere: Uccise l’amante della sorella con una coltellata al cuore di Ferdinando Terlizzi

Accusò la sorella di averlo istigato ad uccidere il suo amante fornendogli addirittura l’arma. 

Il 10 marzo del 1957, nella ‘Morgue’ del cimitero di San Tammaro, il Dottor Achille Canfora, assistente ordinario della Facoltà Medica Docente della Scuola di Specializzazione in Medicina Legale dell’Università di Napoli, dopo essere stato nominato perito settore dal giudice istruttore Camillo Grizzuti, del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, iniziò le operazione necroscopiche sul cadavere di Salvatore Fusco, ucciso in Santa Maria Capua Vetere,  da Giuseppe Di Monaco. Il responso fu che la causa della morte era stata provocata da emorragia da dissanguamento e che la stessa risaliva a 18-32 ore dall’autopsia. Il mezzo che l’aveva prodotta era stata un’arma da punta e taglio che lese le arterie mesenteriche e renali (coltello, pugnale, o altra arma appuntita ad unico taglia) che la posizione tra la vittima e l’aggressore poteva essere – a seconda dei casi – aggressore destrimane, di fronte alla vittima leggermente spostato a sinistra; aggressore mancino, al fianco sinistro della vittima o dietro, spostato a sinistra e che non vi erano tracce di colluttazione sul corpo della vittima.

Prima che al 26enne venisse, dal giudice istruttore contestato il delitto di omicidio volontario aggravato dal motivo futile, l’avvocato Carlo Cipullo, suo difensore di fiducia, partì lancia in resta per attribuire una qualificazione giuridica all’insano gesto previa l’analisi del comportamento del suo assistito e concluse che si trattava di delitto di omicidio preterintenzionale. Bella mossa. Una difesa azzeccata. Ma per gli inquirenti una lancia con la punta spuntita, vedremo perché.

“Manca soprattutto una causale idonea a giustificare un’azione omicida. Salvatore Fusco – poco prima di morire – ha dichiarato di non aver avuto col Di Monaco alcun litigio di sorta, e di non conoscere i motivi del suo gesto; e allora perchè il delitto? Su ciò non resta che la parola dell’imputato, la quale sarà in considerazione dal Giudice di merito, specie perché la spiegazione del delitto data da Margherita Di Monaco, è smentita oltre che dalla sua stessa parola, anche dall’accertamento testimoniale. Manca dunque una causale proporzionata all’evento e non si può, se non con superficialità, affermare che la morte di Salvatore Fusco è stata dall’imputato voluta”.

“Raggiunge il vecchio padre – al quale confessa di aver inferto una coltellata al suo amico Salvatore Fusco – e va a letto; durante la notte è preso da malore, rimette ripetutamente, alla fine si addormenta. Verso le 6 del giorno dopo Giuseppe di Monaco dorme ancora; è svegliato dal padre perché deve raggiungere Napoli. Aveva già dimenticato la triste vicenda. Come può ciò conciliarsi con la volontà omicida? Chi ha ucciso perché ha voluto uccidere ed è convinto di aver tale intento raggiunto non riesce a dormire. L’uccisione di un uomo non si cagiona facilmente; la morte del proprio simile è un fatto grave ed il volerlo richiede una volontà più che intensa. A Napoli va presso una zia, Francesca Santacroce, ne raggiunge l’abitazione al cospetto di lei piange dirottamente, non risponde alle sue domande. A poche ore dal fatto ci troviamo di fronte ad un soggetto che è oltremodo pentito del suo gesto tanto da perdere quasi i sensi quando da Giuseppe Fusco  apprende la morte dell’amico. Sviene chi ha voluto la morte dell’avversario ? E’ inutile dire che rispondere affermativamente significherebbe avallare un giudizio che è riprovato dalle leggi naturali, le quali insegnano che può venir meno chi è in preda ad una forte emozione, e Giuseppe Di Monaco si addolora fortemente per la morte del suo amico perché non ne voleva la morte. E’ raggiunto carabinieri; è calmo ma abbattuto ed avvilito. Quale ulteriore  commento  per provare che lo stato d’animo dell’imputato non si concilia con quello di chi ha voluto l’evento delittuoso verificatosi?”.

“Non resta che affidarsi alla decisione dell’insigne magistrato – chiosa infine l’avvocato Cipullo in difesa del suo assistito – dal quale Giuseppe Di Monaco attende con animo sereno giustizia con la speranza   di essere rinviato a giudizio per omicidio preterintenzionale  e di essere escarcerato per decorrenza dei termini della carcerazione preventiva nonostante a ciò la contestazione di quei fatti avvenuti nel mese di febbraio del 1958 essendo stati a lui contestati tutti i capi di imputazione in occasione dell’interrogatorio reso in data 21 febbraio 1957”.

Sfruttava  la sorella  ex prostituta di Bordello   

 

Nella notte del 19 febbraio del 1957, venne ricoverato nell’Ospedale Melorio di Santa Maria Capua Vetere, Salvatore Fusco il quale presentava una ferita da coltello penetrante in cavità alla regione mesogastrica. Interrogato dagli agenti del drappello di Pubblica Sicurezza, in più riprese, date le sue gravi condizioni, il Fusco dichiarò che la sera precedente – ricorrendo il suo compleanno –  egli aveva tenuto una festicciuola nella sia abitazione sita in via Fratelli De Simone, in Santa Maria Capua Vetere, ove conviveva more uxorio con Margherita Di Monaco. Verso le ore 23, durante la cena, si era presentato in casa Giuseppe Di Monaco, fratello della Margherita, il quale era accompagnato da un suo amico, Antonio Tufato, detto “capaianca” ed egòli aveva invitato i due a partecipare alla cena. Il Di Monaco però aveva declinato l’invito assumendo che preferiva andare a casa e pertanto era stato  da lui e dai suoi ospiti accompagnato nella vicina casa della sua amante Maria Capitelli ed aiutato a coricarsi.

 Il racconto del Fusco trovò piena conferma nelle dichiarazioni rese alla Pubblica Sicurezza da parte della Maria Capitelli, dalla Margherita Di Monaco, da Giuseppe Fusco, padre di Salvatore Fusco, da Alberto Scialla e da Antonio Tatufo. La Capitelli aggiunse che il Di Monaco si era dispiaciuto perché la sorella Margherita aveva invitato alla cena lui ma non la Capitelli che giudicava ‘immorale’ per aver procreato figli con più uomini, e dopo essere stato messo a letto aveva chiamato a sè il Tafuto e gli aveva detto: “Questa sera debbo commettere un guaio”, ed infine era tornato in strada per avere sentito bussare alla porta ed era venuto alle prese con uno sconosciuto minacciandolo con un coltello che aveva ricevuto dalla sorella Margherita circa quindici giorni prima perché uccidesse un agnello.

 La Margherita Di Monaco, per sistemare economicamente il fratello (che fino ad allora era vissuto come uno ‘sfruttatore’ di prostitute), dando fondo ai suoi risparmi,  aveva addirittura acquistato un appezzamento di terreno a San Prisco ed un gregge di pecore (circa 20 pecore) per dargli una vita di lavoro e di serenità ma l’ex ‘fratello-lenone’ aveva prima rifiutato e poi dissipato il tutto.

Il Di Monaco fu tratto in arresto a Napoli il 19 febbraio del 1957, e nella circostanza dichiarò ai carabinieri di Poggioreale che  aveva aggredito il Fusco su istigazione della sorella Margherita la quale intendeva sbarazzarsi dell’amante e gli aveva fornito all’uopo l’arma del delitto: un acuminato coltello. Dopo il delitto egli si era rifugiato presso il fratello Salvatore che gli aveva tolto il coltello. Su segnalazione di quest’ultimo l’arma del delitto fu recuperata in una fogna ove era stata gettata.

Margherita Di Monaco, in seguito alla affermazioni del fratello sulla istigazione del delitto venne fermato dagli inquirenti,  ma la stessa respinse con veemenza l’accusa di correità nell’omicidio e fu subito rimessa in libertà.

Il 22 febbraio del 1957, il Commissario di Polizia di Santa Maria Capua Vetere inoltrò all’A.G. un dettagliato rapporto sull’omicidio,  e al Di Monaco venne contestato, oltre al delitto,  anche il reato di calunnia aggravata nei confronti della sorella e di sfruttamento della prostituzione della stessa.

Nel corso della istruttoria il Di Monaco ritrattò l’accusa nei confronti della sorella rimarcando il fatto che l’aveva accusata falsamente perché dopo la sua unione con il Fusco non aveva voluto più sentirlo e gli negava perfino un pugno di sale. Affermò, inoltre, che Salvatore Fusco, mentre lo accompagnandolo per la seconda volta in casa della sua amante gli rimproverò  di odiare la Margherita ed afferratolo per la gola lo costrinse a consegnargli il suo coltello. A suo dire il Fusco presa l’arma la spiegò e fece il gesto di colpirlo (si trattava di una molletta cioè di un coltello a serramanica tanto in voga in quegli anni nella mani della malavita di terz’ordine)ma egli fermò la mano del Fusco e facendo ferma su di essa fece sì che l’arma penetrasse nel corpo dell’aggressore. Quanto all’accusa di sfruttamento della sorella Margherita, il Di Monaco, si protestò innocente. Ma dai testimoni vennero però confermate le risultanze delle prime indagini. Venne riunto il procedimento per omicidio, calunnia e sfruttamento della prostituzione  altro procedimento a carico di Giuseppe Di Monaco e Antonio Tafuto per concorso in furto aggravato di agnelli in danno di tale Ferdinando D’Angelo  commesso in agro di Carditello nella stessa notte in cui si verificò l’omicidio. Ma l’istruttoria successiva assolse entrambi da questo furto.     

 

Il processo di primo e secondo grado.  La condanna a 25 anni di reclusione per omicidio e sfruttamento della prostituzione.   La conferma in Cassazione

Il presidente della Corte di Assise nella sua relazione introduttiva disse che era rimasto pienamente accertato che Giuseppe Di Monaco per lungo tempo visse ‘passivamente’ a carico della sorella Margherita facendosi corrispondere dalla stessa con continuità parte dei guadagni che ella traeva dalla sua attività di prostituta. Successivamente la donna precisò che il fratello aveva preteso continuamente da lei somme varianti dalle diecimila alle centomila lire, e che essa anzi, per sistemarlo una buona volta  aveva acquistato un gregge di 19 pecore e glielo aveva affidato in custodia – ma inutilmente giacché egli – preferendo continuare la vita di ozio, aveva abbandonato gli animali che dovettero essere venduti. Non vi era parte civile e il pubblico ministero chiese una condanna a 30 anni di reclusione contestando in udienza la recidiva. La difesa chiese una diversa qualificazione del delitto ed in subordine il minimo della pena. La Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Prisco Palmieri; giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero, Adriano De Filippis), nel processo di primo grado il 19 dicembre del 1959, emise una  condanna  a 26 anni di reclusione per omicidio abietto. Il 21 novembre del 1959, perveniva alla cancelleria della Corte di Assise un telegramma del Procuratore Generale della Corte di Appello di Napoli, con il quale preannunciava l’appello contro la sentenza che aveva irrogato la Corte sammaritana.  Nei successivi motivi depositati il Procuratore Generale evidenziava, innanzitutto, che la causale dell’omicidio consumato dal Di Monaco era da considerarsi abietta, ed inoltre che la sentenza riconosceva il fatto che l’imputato uccise il Fusco amante della sorella spinto da odio derivante dalla preoccupazione di non poter continuare a sfruttare i guadagni ricavati fino ad allora dalla prostituzione della congiunta. E non ebbe ritegno  ad accusare falsamente la sorella di averlo istigato nel delitto.  Inoltre il P.G. era contraria alla concessione delle attenuanti generiche perché l’imputato era recidivo. Chiedeva quindi la revoca delle attenuanti e prevedeva – a pena espiata – data la personalità dell’imputato – una misura di sicurezza con internamento di tre anni in una casa di lavoro e colonia agricola in sostituzione della libertà vigilata. Il 14 novembre del 1962, a 5 anni dal delitto, la III sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli (Grassini Duilio, presidente; Corrado Di Salvo, giudice consigliere; procuratore generale, Rodolfo Gargiulo) condannava Giuseppe Di Monaco, in parziale riforme della sentenza di primo grado a 25 anni e mesi di reclusione e alla colonia penale come chiesto dal Procuratore Generale. A gennaio del 1963 l’On. Avvocato Guido Cortese presentava in Cassazione il ricorso contro la sentenza di secondo grado. Si chiedeva di riconsiderare il dolo alternativo in soggetto affetto da ubriachezza; l’unico colpo inferto non poteva prevedere la morte, la evidente contraddizione della motivazione ed infine il difetto di motivazione. Ma il Supremo Collegio respinse il ricorso. Gli avvocato impegnati nei processi furono: Guido Cortese, Mario Zarrelli e Carlo Cipullo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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