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A Parete nel 1957 uccise il fidanzato che dopo averla sedotta l’aveva abbandonata/ di Ferdinando Terlizzi   

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A Parete nel 1957 uccise il fidanzato che dopo averla sedotta l’aveva abbandonata. Il giuramento: “Se non ti sposo, dopo averti sedotta, con questa pistola mi potrai  uccidere”

di Ferdinando Terlizzi 

 

Il 6 dicembre del 1957 i carabinieri di Parete inoltrarono un dettagliato rapporto all’A.G. denunciando in stato di arresto Maria Rotonda Balivo,  di anni 25 da Parete, casalinga, incensurata, responsabile di ‘omicidio volontario premeditato aggravato’ in danno di Raffaele D’Alessandro, di anni 28, contadino, che aveva ucciso con numerosi proiettile mentre al Corso Vittorio Emanuele era a bordo della propria auto.

 Nello steso tempo i carabinieri denunciavano per complicità nel cruento episodio il padre della ragazza Luigi Balivo,  di anni 48, bracciante agricolo, incensurato, per aver fornito alla figlia l’arma omicida e per averla istigata a sopprimere il suo fidanzato. La Balivo nel primo interrogatorio ammise il delitto e raccontò che era stata ‘corteggiata’ dal D’Alessandro fin da quanto lei aveva 14 anni e con il quale si era fidanzato nel 1951 previo consenso di entrambi i genitori.

Il 24 maggio del 1953, nella propria abitazione ed in assenza dei genitori – allettata dalle parole del suo ‘promesso’ sposo di condurla subito a nozze –  si concesse e venne deflorata.  La ragazza raccontò che spesso negli incontri che aveva con il fidanzato – specialmente dopo fatto l’amore – lui le mostrava una rivoltella e le insegnava anche l’uso: il caricatore, la sicura, la mira, lo sparo, il grilletto. Questo ‘addestramento’ era quasi sempre accompagnato dalla fatidica frase: “Se non ti sposo, dopo averti sedotta, con questa pistola mi potrai  uccidere”.

 Il pomeriggio del 3 novembre la ragazza –inopinatamente – incontrava il D’Alessandro nel vicolo antistante l’abitazione del dottore Salvatore Falco intento a pulire la sua motocicletta. Subito lei lo avvicinava e gli chiedeva di getto perché non si era più visto e quando intendeva sistemare la sua posizione;  ma il D’Alessandro,  di rimando,  rispondeva con queste testuali parole: “Via a fare la puttana” ; al che lei rispondeva che ‘la puttana l’aveva fatta solo con lui  e quindi doveva sposarla’. A tale risposta il D’Alessandro andava in escandescenze e montando su tutte le furie esclamava: ”Te ne devi andare… davanti ai miei piedi… disonesta, disgraziata, povera femmina e miserabile”. Alla sua risposta che il disgraziato era solo lui il D’Alessandro le assestava diversi schiaffi al viso facendola uscire del sangue dal naso.

Da quel momento maturò in lei il proposito di vendetta! Poi aggiunse che già in precedenza, e cioè il 2 settembre del 1957, il D’Alessandro, per rafforzare il suo convincimento sulla promessa delle nozze, le aveva regalato una pistola calibro 6,35 con 7 colpi, che lei aveva conservato in un cassettone all’insaputa dei suoi genitori.

Il mattino del 28 novembre del 1957, verso le ore 10, dal balcone della sua abitazione vide il fidanzato con il fratello nei pressi di una salumeria e subito scese ma prima  si mise in tasca la pistola prelevata dal cassettone con un colpo in canna e pronta per lo sparo. Al  Corso Vittorio Emanuele notava che sul lato destro della strada, con il motore rivolto verso Trentola, sostava l’autovettura del D’Alessandro, e, ironia della sorte, sul sedile anteriore latto destro, si trovava il suo seduttore  tranquillo e beato ad ascoltare musica dalla radio dell’auto. Un’idea fredda le serrò il cervello… agì come un automa… fu un attimo… avvicinatosi all’uomo gli implorò per l’ultima volta di sposarla. Lo stesso, però, mentre pronunciava la frase: “Devi andare a fare solo la prostituta”… si abbassava e tentava di mettere mano alla sua pistola che teneva sotto il cruscotto ma la ‘vindice’ fu più svelta… a alla distanza del bruciapelo sparò due colpi in successione che fecero accasciare sul sedile il suo seduttore.

 

 

 Nel consegnarle la pistola il padre le disse: ”Questa è la pistola se sei capace di ammazzare il tuo fidanzato fallo pure… perché da me non riceverai nessun aiuto”.  

 

La versione della Balivo di avere ucciso il fidanzato con la pistola da lui regalatole, invero, non convinse gli inquirenti per cui vennero richieste spiegazioni – tramite i carabinieri di Gardone Valtrompia – alla fabbrica dell’arma la ‘Beretta’ (pistola 6,35 con matricola 95045). Si scoprì, così, una vera e propria catena di San Antonio dell’arma che in definitiva era passata nelle mani del padre Luigi.

 Le prime testimonianze ‘oculari’ dell’epilogo della tragedia furono quelle di Teresa Foglietti e Anna Eramo,  che erano nell’esercizio di salumeria. Le stesse dichiararono che,  come al solito – ogni giorno – i fratelli Nicola e Raffaele D’Alessandro,  portavano un quantitativo di mozzarella nella loro bottega e che mentre Nicola rimaneva all’interno del negozio, il Raffaele, portando una cassetta in mano si era diretto verso la macchina.  Mentre il Nicola, incassato il suo avere lasciò il negozio e subito dopo – lei che era restata dietro al bancone – udì dire che Tonnolella, (era evidentemente  il contranome della ragazza) aveva sparato il proprio fidanzato Raffaele D’Alessandro e di contestarle che il D’Alessandro, per motivi a lei sconosciuti, non intendeva sposare la Tonnolella. La Eramo invece dichiarava che lei era in cucina presso certo Gaetano Orabono,  e che aveva sentito due colpi di pistola si era subito affacciata ed aveva notato il D’Alessandro che si trovava sul sedile anteriore della 1100 Fiat, che aveva il viso intriso di sangue e giaceva con il capo rivolto verso lo sportello sinistro.

Cristina Auriemma, dal canto suo, fornì agli inquirenti una traccia abbastanza significativa sul calvario pre-delittuoso della ragazza,  evidenziando la circostanza secondo la quale nel mese di agosto del 1957, la Maria Rotonda Balivo, si era presentato presso la sua abitazione la quale le aveva rappresentato le difficoltà della sua esistenza specialmente in famiglia – per l’atteggiamento intransigente assunto dal suo fidanzato il quale non intendeva sposarla –  dopo di averla sedotta e numerose volte posseduta. Nell’occasione la Balivo esortava la signora a far intervenire il proprio marito Tommaso Tesone,  (ritenuto amico fraterno del fidanzato D’Alessandro) a riappacificarsi con lei. La Auriemma le promise il suo interessamento e dopo sei/sette giorni il marito riuscì a convincere il D’Alessandro il quale ebbe ad incontrarsi nel comune di Giugliano con la Maria Rotonda Balivo. Tutto sembrava rientrare nella normalità e invece tutto preannunciava la tragedia ed il conseguente delitto. Il D’Alessandro,  infatti, si era allontanato definitivamente da Parete (trasferendosi in altra località ) rimarcando il fatto che non intendeva sposare la Balivo. Ma c’era una circostanza che, a volerla giudicare a freddo (nessuna allusione al famoso “A sangue freddo” di Truman Capote? O forse questa vicenda ha delle affinità? Ai lettori l’ardua sentenza!) che sembra aver ‘scavato’ la fossa al D’Alessandro ed aver armato la mano della vendicatrice. La signora Auriemma precisava, infatti,  che, una sera dell’agosto scorso, verso le ore 20, previa precedente intesa,  lei personalmente aveva accompagnato la Balivo ad un incontro con il suo fidanzato il quale attendeva nella sua macchina -parcheggiata sulla strada Provinciale Parete-Giugliano – e mentre lei attendeva nella macchina i due innamorati  si recarono in aperta campagna ad amoreggiare per circa un’ora e mezza quello che  potremmo anche definire come ‘l’ultimo amplesso’. Inoltre per solennizzare questo incontro il D’Alessandro aveva promesso alla signora Auriemma che a breve lui avrebbe sposato la ragazza.  Un’ultima chiosatura a questo preludio al delitto.  Qualche tempo prima della tragedia il maresciallo dei carabinieri, comandante la Stazione di Parete Giuseppe Galietta,  su impulso della famiglia Balivo, aveva convocato in caserma Raffaele D’Alessandro, al quale era stato riferito che era ‘suo dovere morale’ sposare la ragazza. Lui aveva risposto che era ‘pacifico’ perché anche i suoi familiari ritenevano la giovane come una persona di famiglia, tanto è vero che spesso la facevano lavorare per loro conto. Infine, il giovane, sia pure con qualche rimostranza, promise che avrebbe in futuro certamente impalmato la giovane da lui sedotta. E qui che si era scavata la fossa!

 Gli avvocati Gennaro Fusco e Giuseppe Marrocco, il 3 febbraio del 1958, indirizzarono al giudice istruttore Camillo Grizzuti un foglio di lumi con il quale contestavano il mandato di cattura  emesso contro  Luigi Baglivo,  padre della ragazza accusato di concorso in omicidio.

 L’11 aprile del 1958, il giudice istruttore Camillo Grizzuti, a cui era stato affidato il caso,  con una mossa a sorpresa inviò una fonogramma ai carabinieri di Parete ordinando agli stessi di citare per il giorno 17 aprile, alle ore 10 una serie di testimoni che potevano chiarire i risvolti, gli antefatti e il movente  del delitto della ragazza e di suo padre. Con una espressa ‘raccomandazione’ di avvisare i personaggi ‘il più tardi possibile’ e ‘senza indicazione dello scopo dell’invito’, onde evitare – raccomandava Grizzuti – per evitare preordinazioni. Puntualmente il giorno fissato sfilarono in caserma:  Salvatore D’Angiolella, agricoltore; Luigi Chianese, Marietta Costanzo, possidente; Salvatore Fratellanza, mediatore; il dirigente dell’ufficio Daziario; Virginia Giuseppone; Ciccillo, figlio di Michele D’Alessandro e  cugino del defunto Raffaele D’Alessandro; Nicola D’Alessandro, Vincenzo Iavarone, Teresa Foglietti, Giovanni Capone e Luigi Chianese 

  

I processi con una condanna a 13 anni di reclusione per padre e figlia, pene ridotte a 10 in appello e confermate in Cassazione. L’attenuante del valore sociale e morale.

 

 

Il 29 settembre del 1958 il giudice istruttore Camillo Grizzuti, in parziale difformità della richiesta del pubblico ministero,  chiese il rinvio al giudizio della Corte di Assise di Maria Rotonda Balivo e del padre Luigi, per rispondere, nello stato di detenzione in cui si trovavano, la prima, del delitto di omicidio in pregiudizio di Raffale D’Alessandro; il secondo, di concorso per averle fornito una pistola e inoltre il rinvio al giudizio per i reati relativi all’arma di Vincenzo Pirozzi, Antonio Pezone e Francesco Mariniello. Il processo di primo grado – che occupò varie udienze – si concluse con sentenza del 24 agosto del 1959 e,  la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Eduardo Cilento; giudice a latere, Guido Tavassi; giudici popolari: Gennaro Del Vecchio, Raffaela De RosaGaetano Diana, Giuseppe Ferrara, Maria Rosa Nepi e Ezio Mesolella), condannò padre e figlia a 13 anni di reclusione ciascuno.

 E’  chiaro che la Balivo  – rintuzzarono i giudici della Corte di Assise – fu spinta ad ammazzare il D’Alessandro dalla necessità di salvare il proprio onore in quanto quello la aveva sedotta e poi abbandonata, e ciò emerge in maniera evidente che l’omicidio non fu compiuto per reagire ad un pericolo posto in essere in quel momento dal D’Alessandro bensì fu l’attuazione di un proposito aggressivo che la Balivo nutriva da tempo.

Dell’uccisione  del D’Alessandro – conclusero i giudici – la Balivo deve senz’altro rispondere a titolo di omicidio volontario, non potendo assolutamente contestarsi la sua volontà omicida, data la imponenza della causale che la spinse ad agire. Ma all’omicidio partecipò anche il padre della ragazza, Luigi Balivo,   la responsabilità dello stesso per il concorso nel delitto emerge dalla chiamata in correità operata nei suoi confronti dalla figlia e dal fatto che quando non ancora gli era stato contestato il concorso nel delitto – si era reso uccel di bosco.

In conclusione i giudici di primo grado ritennero che il delitto era stato ‘premeditato’ anche sulla scorte delle frasi in precedenza pronunciate dalla ragazza: “Ti devono portare a casa avvolto in un lenzuolo, devi essere ammazzato, devi cascare dalla motocicletta”  e tuttavia ritennero di concedere in ordine all’omicidio le attenuanti del motivo di ‘particolare valore morale e sociale’.

La concessione di questa attenuante che comportava un notevole sgravio della pena edittale fu molto avversata dai difensori di parte civile i quali sostennero che essa non andava concessa in quanto il D’Alessandro non si sentì di sposare la Balivo per avere rilevato la immoralità di lei e della madre di guisa che debba ritenersi giustificato il comportamento e negarsi per la immoralità stessa dei Balivo ogni carattere di nobiltà ai moventi dell’omicidio. Tale atteggiamento dei difensori di parte civile era poggiato sul racconto fatto dal maresciallo dei carabinieri Galietta il quale aveva riferito alla Corte che il D’Alessandro nel dichiararsi restio a contrarre il matrimonio spiegava che la sua perplessità era determinata dal disgusto che provava per la madre della Balivo in quanto la stessa una notte lo aveva fatto coricare nello stesso letto occupato da lei e dalla figlia cosicchè egli aveva avuto contemporaneamente rapporti carnali con entrambe.

Ma tale obiezione non può essere accolta – spiegarono i giudici nel loro verdetto – perché non confermata da altre deposizioni ed energicamente smentita dai Balivo. Era una scusa per non convolare a giuste nozze conclusero in coro anche i giudici popolari.  Vennero altresì concesse ai due imputati anche le attenuanti per la provocazione oltre alle generiche e la condanna, come detto, fu ad anni 13 ciascuno. E tuttavia in grado di appello la pena venne ridotta ulteriormente a 10 anni di reclusione ciascuno ed in Cassazione confermata definitivamente. Nei processi furono impegnati gli avvocati: Alfredo De Marsico, Gennaro Fusco, Francesco Saverio Siniscalchi, Antonio Schettino, Ciro Maffuccini, Alfonso Martucci e Giuseppe Marrocco.

 

 

 

 

 

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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