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Capua. Grande cinema al ‘Ricciardi’ con ‘La mano di Dio’, ultimo film di Sorrentino del cinema. Sull’ultimo di Sorrentino

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Dopo la presentazione di Massarelli, domenica 2 dicembre al teatro Ricciardi è stato proiettato il film “La mano di Dio” di Sorrentino.

(Al Ricciardi si è accolti sempre dalle sagge e appassionate parole del Direttore e poi c’è la possibilità di discutere del film davanti a un caffè (o altro) preparato dal Caffè Don Carlo)

Analisi del film

Dopo aver cercato di addentrarsi nelle pieghe nascoste del potere, tentando di mostrare – da un’angolazione diversa rispetto a quella adottata per delineare le oscure fattezze de il Divo – le trame segrete che hanno determinato gli ultimi vent’anni della storia italiana, Sorrentino, lasciando da parte, ma non troppo, il “ridicolo sublime” di lynchana memoria, decide di raccontare la “sua” storia, intrecciandola sapientemente con quella di Napoli, la Napoli degli anni 80′, e di chi, di questa città, continua ad essere il mito attorno al quale si addensano, come attratti da un centro di gravità irresistibile, sogni e speranze di emancipazione sociale e individuale. Memorabile, in questo senso, l’esclamazione dello zio Alfredo – un personaggio grottesco che ricorda le “figure” delle commedie di Eduardo, presenza tacita, ma rilevante all’interno del racconto sorrentiniano -: “Se il Napoli non compra Maradona, io mi uccido”. Ecco, uno dei punti di forza dell’opera risiede proprio nella rappresentazione simbolica del Pibe de oro. La sua presenza non invade mai goffamente il campo della narrazione, ma lo illumina dall’alto. È una luce verso la quale si dirigono gli occhi stupefatti di Fabietto, alter-ego del regista. In una scena, in particolare, egli compare seduto in macchina. La macchina da presa, dopo essersi incollata allo sguardo sognante di Fabietto, indugia, per pochi istanti sul volto di un Maradona imberbe, nel fiore dei suoi anni. La sua presenza fisica, negli occhi traboccanti di meraviglia di Fabietto, sembra sottrarsi alla sua stessa fisicità, diventando la concrezione di una trascendenza inafferrabile. In questa prospettiva, Maradona assurge davvero a incarnazione del divino, a segno dell’ineffabile. La sua figura non si sovrappone a quella di San Gennaro (Enzo De Caro), qui “umano troppo umano”, ma libra sopra l’intreccio fitto di vite trasfigurando la loro sofferenza, accendendo l’anelito della loro speranza. In questa scelta, Sorrentino si discosta dall’immagine splendida che lo scrittore Luciano De Crescenzo fornì del calciatore: “era la massima di Dioniso e la schifezza di Apollo”. Qui, ad emergere in primo piano, non è né il dionisiaco né l’apollineo, ma il “il numinoso”.

Eppure, la mano di Dio, non è – solo – quella dell’asse argentino, ma la mano del cinema. Se è Maradona a salvare la vita concreta del alter-ego del regista, è lei, la mano della Settima Arte, a salvare la vita interiore, il senso, senza il quale la propria esistenza è cieco destino. Perché, come ripete Fabietto, riportando una frase pronunciata da Fellini in un’intervista, <<una realtà senza immaginazione è scadente>>. Il cinema non solo si profila come lo sguardo capace di interpretare il mondo. Ma questa interpretazione è, al contempo, riscrittura e trasformazione del mondo contemplato. La regia di Sorrentino, infatti, assurge a protagonista indiscusso dell’opera. Qui la il suo “occhio” è capace di districarsi negli interni, rilevando dettagli e oggetto carichi di rimandi simbolici; al tempo stesso mostra di saper trovarsi a proprio agio quando la “retina” della macchina di presa si lascia impressionare dagli spazi ampi di paesaggi che, da esteriori, subito si tramutano in luoghi interiori.
Il cinema, sembra dirci il regista napoletano, è l’immaginazione che manca alla stolida ordinarietà del reale. È il cinema ad avere il compito di redimere dando voce ed espressione al nostro sentire più profondo.

Infatti, questo uno degli assunti principali dell’opera, un dolore che non può essere raccontato – diventando simbolo, metafora, immagine, mito – ci avvelena. Perché vivere, in ultimo, è aver cura della propria ferita. Saperla riconoscere, saperla dire. Dirla, però, non con la parola, ma con la potenza dell’immagine-tempo.

Lo splendido finale, ricamato dalle note di “Napule è”, lo attesta. Qui, Fabietto, dopo aver incrociato lo sguardo del ‘monaciello’ (forse lui da bambino?), si lascia cullare dalla nostalgia, mista ad ambizione, di chi lascia la propria terra per acciuffare i propri sogni. Il suo volto diviene uno specchio su cui scorrono i colori dei passaggi amati, ormai già ricordi nella trasparenza del finestrino. Qui, a nostro avviso, il pubblico che vi assiste non è più pubblico, ma una comunità di destino. Perché, tutti insieme, si ritrovano accomunati dallo stesso sentire, dallo stessa amore per una terra e per un popolo. Ecco il capolavoro di Sorrentino: aver fatto di nuovo del cinema una liturgia laica, una religione popolare in cui l’altro non è altro, ma fratello, fratello nella visione del miracolo dell’apparire.

Perché il film di Sorrentino va gustato al cinema – di Gabriella Clemente

È stata la mano di dio
Con questo film incontriamo le radici culturali ed esistenziali dell’arte di Sorrentino, nella sua materia palpitante. Nella prima parte del film Napoli è ricordata con un racconto che è l’esatto corrispondente dell’Amarcord di Fellini: un puro atto di amore, potrebbe diventare nostalgia ma non lo è. Maradona come il Rex, mare e sole invece della neve, personaggi dissonanti e incancellabili, forse più vivi e reali rispetto alle figure trasognate di Fellini. Qui assistiamo al nascere della vocazione artistica di Fabietto, desideroso di diventare un regista, qui vengono dichiarate le sue fonti d’ispirazione. La più importante? Forse Dante. Poi irrompe un lutto come uno tsunami. Cosa succederà al protagonista, che ne sarà di lui, dei suoi desideri? L’impossibilità di raccontare quel lutto, di ‘elaborarlo’ ci consegna un finale aperto ed irrisolto, nel film non c’è spazio per facili speranze; è un viaggio, un divenire. Nessun film dovrebbe essere visto, almeno la prima volta, in televisione. Il cinema è un’esperienza immersiva, la propria realtà si trasferisce all’interno del film; la televisione è vivere una cosa tra altre, mantenendo il contatto con la quotidianità. Ma questo è tanto più vero per un film come ‘È stata la mano di dio’, dove ci si immerge tante volte nella luce estiva, nel mare di Napoli. Solo al cinema la bellezza di zia Patrizia, lo sguardo incantato di Fabietto, i lunghi capelli della baronessa dispiegano la loro magia.

(Fonte: BelvedereNews – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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