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Dai giornali di domenica 22 agosto news selezionate da ‘Cronache Agenzia Giornalistica’

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Il cuore del “popolo fedele di Cl” batte su Repubblica. Il Meeting di Comunione e liberazione sembra infatti avere un nuovo riferimento editoriale nel quotidiano che fu del centrosinistra. La kermesse è iniziata due giorni fa con l’intervento di Sergio Mattarella e Rep ne ha dato conto con un certo slancio sentimentale. L’inviata a Rimini Conchita Sannino è anche moderatrice di un dibattito e firma una pagina con due pezzi. Il primo, un resoconto sulle parole del Capo dello Stato: “Mattarella apre il Meeting di Rimini: ‘Vaccinarsi è un dovere di tutti’”. Il secondo, uno struggente racconto degli affezionati della kermesse: “La staffetta genitori-figli nel popolo fedele di Cl: ‘Qui incontriamo il mondo’”. Le testimonianze riscaldano il cuore, ma non quanto l’editoriale di Corrado Augias: “La prevalenza del Noi”. Un’attenzione che si conferma con la copertura video degli incontri, molti dei quali sono trasmessi in diretta sul sito di Repubblica. Eppure tanto trasporto non è certo nel dna del quotidiano. Eugenio Scalfari, per esempio, definiva “i ciellini” come “quella falange integrista e mercatoria che si colloca a destra dell’Azione Cattolica e in concorrenza bottegaia con la prelatura dell’Opus Dei”. E non aveva l’aria di essere un complimento.

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Ponza, sagre e interviste: Durigon come se niente fosse

Ponza, sagre e interviste: Durigon come se niente fosse

Rieccolo – Finite le ferie, il sottosegretario ricomincia a parlare delle Comunali di Latina e riparte in “tour” dalla Puglia a Rieti

di Giacomo Salvini | 22 AGOSTO 2021
Matteo Salvini gli aveva chiesto di “sparire” e Claudio Durigon lo ha fatto a modo suo. Lavorando nell’ombra per il partito ma rendendosi visibilissimo. Non sulla terra ferma, troppo esposta ai flash delle telecamere, ma sull’isola di Ponza dove ormai conosce quasi tutti perché la frequenta da anni. Il gommone affittato per fare il bagno, le spaghettate nei migliori ristoranti dell’isola e anche lo “struscio” nel corso principale di Ponza all’ora dell’aperitivo. Anche quest’anno non si è fatto mancare nulla. Niente “ferie forzate” per redimersi, insomma, dopo la proposta di intitolare il parco di Latina ad Arnaldo Mussolini invece che a Falcone e Borsellino che ha fatto imbufalire mezzo governo. Nel frattempo Durigon ha continuato a lavorare dietro le quinte per completare le liste delle comunali di Roma, trattare sui presidenti di municipio con gli alleati del centrodestra e organizzare i banchetti per la raccolta firme dei referendum sulla Giustizia. E adesso, conclusi i giorni di ferie, è tornato anche a intervenire pubblicamente: ieri ha rilasciato un’intervista al quotidiano locale Latina Oggi sulle amministrative nella sua città e venerdì prossimo è previsto un suo intervento a Ceglie Messapica (Brindisi) alla festa di Affari Italiani. Non solo: il 3 settembre parteciperà alla fiera del Peperoncino di Rieti, organizzata da Livio Rositani (figlio del post-fascista Guglielmo), per parlare di Recovery Plan. Non proprio una politico che vuole rimanere in disparte.

La suapoltrona da sottosegretario però resta in bilico: se è vero che negli ultimi giorni ha parlato più volte con Matteo Salvini – che infatti lo difende pubblicamente – restano freddi i rapporti tra Durigon e Daniele Franco, ministro dell’Economia che avrebbe il potere di revocargli le deleghe. Al premier Mario Draghi, e al suo fedelissimo Franco, la proposta di intitolare il parco a Mussolini non è certo piaciuta e quindi l’irritazione nei confronti di Durigon continua. Ma questo non significa che i due decidano di rimuoverlo prima della mozione di sfiducia che Pd, M5S e LeU hanno annunciato per settembre, quando riapriranno le Camere: l’intenzione di Palazzo Chigi è quella di aspettare quel momento e poi, nel caso, anticipare la sfiducia individuale convincendo Salvini a far dimettere il proprio sottosegretario.

Durigon, anche per provare a placare le polemiche politiche, ha passato Ferragosto a Ponza dove ha affittato una villetta da amici nella zona nord dell’isola, nella località Le Forna, con la famiglia. Qualche giorno per rilassarsi, senza incontri pubblici o con esponenti politici locali. Ora che è tornato sulla terra ferma, però, non ha alcuna intenzione di assentarsi ancora dalla scena politica. E un primo assaggio lo ha fornito ieri quando ha rilasciato un’intervista a Latina Oggi in sostegno al candidato del centrodestra cittadino, scelto da lui, Vincenzo Zaccheo (“È un valore aggiunto”) e per provare a recuperare la consigliera comunale Giovanna Miele, indicata inizialmente da Durigon come candidata sindaca della Lega ma respinta da Forza Italia e Fratelli d’Italia che chiedevano un civico puro. Così il coordinatore regionale della Lega ha elogiato Miele, vicina alla rottura con il Carroccio: “Il futuro della Lega a Latina non può prescindere anche da lei”. Poi Durigon ha dato la linea a Zaccheo sul programma per vincere contro il sindaco uscente Damiano Coletta. Nessuna domanda invece sulla polemica che lo ha travolto negli ultimi giorni. Per il momento, comunque, Durigon non farà comizi ma, se passerà la tempesta, riprenderà a settembre.

Venerdì intanto è atteso a Ceglie Messapica a “La Piazza”, il festival di Affari Italiani, a cui andranno anche Giuseppe Conte e Matteo Salvini: la sera del 27 Durigon parteciperà a un dibattito alternandosi con l’ex viceministro del Pd, Antonio Misiani. Se nei giorni scorsi dalla Lega facevano sapere che, per evitare di esporlo ai giornalisti, Durigon avrebbe declinato, a ieri la sua presenza restava confermata. Poi il 3 sarà a Rieti per onorare il peperoncino e parlare di Recovery. Ma Durigon non si sta muovendo solo in vista delle comunali. Salvini a inizio estate gli ha affidato lo studio su due proposte economiche da portare al tavolo del governo in autunno: quella sulle pensioni – la Fornero non sarà prorogata – e la modifica del reddito di cittadinanza. Non esattamente il progetto di uno che sta per lasciare la poltrona da sottosegretario al Tesoro. A meno che non sia costretto a farlo prima.

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Perché il Monte dei Paschi può diventare una “banca pubblica”

Perché il Monte dei Paschi può diventare una “banca pubblica”

In Toscana. Vendere a Unicredit o no?

di Simone Gasperin | 22 AGOSTO 2021

Il destino di Monte dei Paschi di Siena appare ormai segnato. La quinta banca più grande del Paese per valore degli attivi scomparirà dalla classifica dei principali istituti bancari italiani. L’ipotesi standalone, di sopravvivenza autonoma con controllo pubblico, sarebbe pregiudicata per motivi fattuali e teorici.

Il primo presuppone l’insolvibilità strutturale di Mps, di cui lo Stato non dovrebbe farsi carico in eterno. Eppure, durante la presentazione della seconda trimestrale, il management della banca ha delineato uno scenario non così scoraggiante. Dal punto di vista del conto economico, si è registrato un altro utile netto trimestrale positivo, corrispondente a 202 milioni di euro cumulati nel 2021, basato sul risultato operativo netto semestrale migliore degli ultimi 5 anni. Migliora anche il rapporto tra il patrimonio di migliore qualità e le attività ponderate per il rischio (il CET1), cresciuto a 10,6%, dal 9,9% di fine 2020. Ma ancora più interessanti sono le affermazioni del Cfo Giuseppe Sica, il quale ha ricordato come sulla base di un aumento di capitale da 2,5 miliardi, previsto dal piano strategico dello scorso gennaio, lo scenario avverso al 2023 coerente con gli stress test dell’Eba porterebbe il CET1 al 6,6% e non a -0,1%.

Se Montepaschi fosse proiettata verso la sostenibilità finanziaria, verrebbe meno una prima ragione di fondo per la privatizzazione con incorporazione in un altro soggetto. Ma qui interviene un’altra, ben più radicata convinzione: lo Stato non dovrebbe essere proprietario e gestore di attività bancarie commerciali. Un ragionamento che trova però confutazione nella storia dello sviluppo economico del nostro Paese.

“L’Italia è stata definita da uno scrittore di cose economiche come il paese dei salvataggi bancari”, così esordiva Donato Menichella in un rapporto del 1944 predisposto per le autorità Alleate. Il futuro governatore della Banca d’Italia spiegava come il susseguirsi delle crisi bancarie avesse trovato definitiva risoluzione solo con la creazione dell’Iri nel 1933 e con la conseguente legge bancaria (R.D.L. 375/36). Col salvataggio delle tre principali banche del Paese – Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma – l’Iri assunse la proprietà delle imprese da esse controllate e praticò la separazione tra credito commerciale e finanziamento industriale.

In seguito, la riforma bancaria del 1936, scritta da Menichella e dai suoi collaboratori all’Iri, estese all’intero sistema bancario il principio della specializzazione funzionale (commerciale e industriale), temporale (breve periodo e medio-lungo periodo), settoriale e territoriale tra i diversi istituti finanziari. L’articolo 1 della nuova legge bancaria definiva l’esercizio del credito come una funzione “di interesse pubblico”, da orientare allo sviluppo economico del Paese, come la intese la nuova classe dirigente del secondo dopoguerra.

Il sistema bancario che caratterizzò gli anni del miracolo economico rimase prevalentemente pubblico anche dal punto di vista degli assetti proprietari. Ancora nel 1990, quando l’Italia si apprestava a “sorpassare” il Regno Unito in termini di reddito pro capite, il 34,8% del totale dei prestiti era erogato dai cosiddetti istituti di credito speciale (Imi, Crediop, ecc.), enti pubblici che raccoglievano risparmio sotto forma di obbligazioni e finanziavano attività industriali a medio-lungo termine. La parte restante interessava il credito commerciale di breve periodo a famiglie e imprese, diviso a sua volta in: banche di interesse nazionale controllate dall’Iri (13,6%); istituti di diritto pubblico, fra cui Monte dei Paschi di Siena (18,7%); banche popolari, casse rurali, casse di risparmio e banche cooperative (42,2%). Solo il rimanente 25,4% veniva da banche interamente private.

In seguito, in meno di un decennio, il sistema che durava dal 1936 venne interamente stravolto. Si recepì il principio delle direttive comunitarie – fra tutte la 77/780/CEE – sulla natura “di impresa” degli enti creditizi. Con la legge Amato-Carli del 1990 gli istituti di credito di diritto pubblico vennero trasformati in SpA, predisponendone la graduale privatizzazione. Anche l’Iri smobilizzò le sue banche fra il 1989 e il 1994. Infine, con il Testo Unico Bancario del 1993 si sancì la fine della specializzazione bancaria e il ritorno della banca universale. I risultati di questa profonda trasformazione sono stati positivi per i nuovi azionisti privati, ma lo stesso non si può dire per la stabilità del sistema bancario, come si è potuto constatare negli ultimi anni.

Nel resto del mondo le banche commerciali a partecipazione statale esistono tutt’ora e spesso ricoprono un ruolo pubblico fondamentale. Come il sistema delle Landesbanken tedesche che, tramite lo status di tripla A della banca pubblica d’investimento KfW (la quale si finanzia per mezzo di obbligazioni con garanzia dello Stato), ottiene liquidità a basso costo con cui si finanziano le imprese, le quali in questo modo beneficiano di un vantaggio competitivo in termini di accesso al credito.

Una Mps autonoma e con una missione pubblica di politica economica, pur sempre all’interno dei vincoli regolamentari e di mercato, potrebbe impegnarsi a finanziare le imprese che intendono investire in tecnologie e processi a impatto ambientale positivo. Inoltre, una Mps pubblica che guardasse al Mezzogiorno (dove si trovano circa un quarto delle sue filiali) potrebbe controbilanciare il predominio settentrionale del sistema bancario italiano.

Schumpeter definiva il banchiere come l’eforo del capitalismo, per il ruolo “da guardiano” nel finanziamento delle attività produttive. Non a caso gli embrioni di un capitalismo commerciale nacquero in Italia, assieme alle prime forme moderne di banca. Così come nel XV secolo Monte dei Paschi ne fu il precursore, oggi potrebbe diventare il campo di sperimentazione di un nuovo modello di banca pubblica.

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“Fondi neri per 45 milioni” Nella lista anche l’Atalanta

“Fondi neri per 45 milioni” Nella lista anche l’Atalanta

Per i pm i fratelli Ronzoni, arrestati a maggio, esportavano valuta tramite otto “scatole” estere. Tra i clienti 104 società. Il club: “Nessun rapporto”

di Stefano Vergine | 22 AGOSTO 2021

Il file si chiama “conti” e raccoglie una lista di 104 società italiane. Un elenco di imprese sospettate di aver usato per anni un sistema finalizzato a creare montagne di nero all’estero. Quando gli uomini dell’Agenzia delle Entrate hanno trovato la lista, si sono subito resi conto di essere di fronte a una miniera di informazioni. Alcune aziende hanno nomi importanti, e l’email che accompagna l’elenco è piuttosto esplicita: “Ecco il file aggiornato anche con i nuovi clienti BSI”, sigla che sta per Banca Svizzera Italiana. Era il luglio del 2014 e i funzionari dell’Agenzia stavano perquisendo la sede milanese della Luga Audit & Consulting Srl, studio commercialistico intestato a Oscar Ronzoni, professionista di Como con residenza a Lugano. In silenzio, negli anni, il materiale sequestrato è passato al vaglio del nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano, che sotto il coordinamento del pm Paolo Storari è recentemente passato all’azione: Oscar Ronzoni, insieme al fratello Luca, è stato arrestato nel maggio scorso per riciclaggio. Ha scritto il gip, Domenico Santoro, disponendo il carcere preventivo per i due: i fratelli Ronzoni hanno compiuto “operazioni di trasferimento di somme di denaro al fine di non consentire l’identificazione della provenienza attraverso movimentazioni estero su estero…. sino alla retrocessione in Italia, anche in contanti, e all’estero su relazioni bancarie offshore, per un ammontare complessivo di oltre 18 milioni di euro”. La cifra riguarda però solo pochissime delle 104 società riportate nell’elenco sequestrato ai fratelli Ronzoni. Segno che in futuro potrebbero esserci altre sorprese.

Stando alle 215 pagine di ordinanza di custodia cautelare, i due commercialisti comaschi hanno creato una sorta di fabbrica del riciclaggio a cavallo tra l’Italia e la Svizzera. Una versione in scala provinciale dello studio Mossack&Fonseca, quello venuto alla ribalta con i Panama Papers, ma capace di offrire ai propri clienti molti più servizi. Sistemi chiavi in mano. Oltre alla gestione di società offshore, i Ronzoni avrebbero infatti garantito anche l’esportazione di valuta all’estero grazie a otto società-veicolo europee. Otto scatole usate per emettere fatture false. In questo modo le imprese italiane potevano da un lato abbattere gli utili in patria, dall’altro crearsi un tesoretto nero fuori confine. Per il problema principale (come fare poi a usare il nero parcheggiato all’estero) i commercialisti italo-svizzeri, secondo gli inquirenti, avevano trovato la soluzione.

Ai clienti veniva offerta una doppia opzione, sostiene la Procura di Milano. Consegna del denaro in Italia, tramite spalloni, oppure investimento del tesoretto in Perseus, un fondo domiciliato presso la Amber Bank & Trust di Nassau, Bahamas. “Appare innegabile, alla luce delle emergenze indiziarie descritte, che i fratelli Ronzoni da quasi un decennio esercitino, in maniera che non si ha tema di definire professionale, l’attività di riciclaggio. Questa si fonda, per come si è avuto modo di apprezzare, su complicati intrecci e legami tra società risiedenti all’estero, apparentemente legate da rapporti contrattuali, rivelatisi meri schermi formali diretti a consentire vorticosi giri di fatturazioni per operazioni inesistenti e conseguenti restituzioni delle somme ai clienti”, ha scritto il gip Santoro disponendo l’arresto per i due lo scorso maggio.

In carcere i Ronzoni sono finiti per presunte operazioni di riciclaggio organizzate a beneficio di società. Come ad esempio la Italveco Srl, a proposito della quale il gip scrive: “È plausibile ipotizzare che gli importi pagati da Italveco… possano trovare giustificazione in una dazione corruttiva finalizzata ad avvantaggiare Italveco nell’aggiudicazione di un’importante commessa legata alla costruzione di un impianto di bioetanolo in Crescentino (Vercelli)… commissionato dal Gruppo Mossi & Ghisolfi”. Rispetto all’elenco delle aziende trovato nello studio dei due commercialisti comaschi, restano da approfondire 100 nomi. Non è detto che tutte queste società abbiano partecipato al “Sistema Ronzoni”.

Di certo sono tutte imprese italiane, tra cui alcune molto note come Marazzi (ceramiche), Danieli (acciaio), Atalanta (calcio), Valtur (turismo), Sanlorenzo (yachts). Le indagini stanno proseguendo, si legge nell’ordinanza, “soprattutto con riguardo all’individuazione dei numerosi altri clienti” dei fratelli Ronzoni. Le 104 società sono finite sotto il faro della Procura perché hanno ricevuto fatture da otto imprese europee. Proprio quelle otto usate dai Ronzoni per fare uscire i soldi dei clienti dall’Italia. Fatture emesse e pagate nel giro di quattro anni, dal 2012 al 2016, per un totale di 45 milioni di euro. Alle domande del Fatto, Marazzi e Danieli non hanno risposto, mentre Sanlorenzo ha detto di non voler rilasciare commenti. Nicolaus Tour, il gruppo oggi proprietario del marchio Valtur (la società è fallita nel 2018), sottolinea che “i fatti fanno riferimento alle gestioni del marchio precedenti rispetto a quella attuale”.

L’Atalanta,  club che fa capo all’imprenditore Antonio Percassi, ci ha fatto sapere di non essere a conoscenza di indagini a proprio carico e ha assicurato che, da un primo e rapido controllo amministrativo, non risulta aver mai avuto rapporti commerciali con le otto società usate dai Ronzoni per fare uscire i soldi dei clienti dall’Italia.

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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