L’impresa, pur non nuova nell’ispirazione (Attualità di Dostoevskij, Dostoevskij nella coscienza d’oggi sono titoli di saggi e convegni dei primi anni 80), è realizzata con una tecnica peculiare: da un lato, uno stile salmodiante e avvolgente, fatto di ripetizioni, anacoluti, frasi brevi e costruzioni “parlate”, quasi un monologo di Carlo Lucarelli o di Ascanio Celestini; dall’altro, la continua intersezione del piano saggistico-biografico (Nori che racconta la vita di Dostoevskij, riportando ampi stralci delle sue lettere, dei suoi romanzi, delle testimonianze coeve: documenti ben scelti, tradotti con verve e assai godibili) e del piano autobiografico (Nori che parla della propria, di vita, agganciandone alcuni episodi salienti – dalla morte dei genitori ai suoi problemi coniugali – a fatti o opere dell’autore di cui sta parlando, o di altri autori più o meno vagamente connessi). In tal modo, la scrittura di Nori imbarca di tutto, da Marco Travaglio ai libri di Zavattini, dal Coronavirus a Frederick Forsyth alla destra trumpiana.

L’andamento desultorio che ne vien fuori rende il libro un ibrido, a tratti un po’ irritante per il tono ironico o scopertamente forzato di certi accostamenti. Ma d’altra parte il guadagno è grande in termini di freschezza e autoironia (“un ridicolo, vecchio orfano parmigiano che abita a Casalecchio di Reno” si definisce l’autore: la mente corre al Sogno di un uomo ridicolo), di assenza di ogni retorica e di ogni patina professorale.

Può sembrare incredibile, ma in 280 pagine Nori non menziona mai il Grande Inquisitore (gettonatissimo tra filosofi e giuristi d’ogni età), mai Federico Nietzsche, il nichilismo o il “problema di Dio” (Nori dev’essere poco devoto), mai la “questione del Male in Dostoevskij”, viceversa al centro di libri fortunati come Il Male Assoluto (appunto) di Pietro Citati. Di più, Nori si prende il lusso di dedicare un capitolo a “Tolstoj e Dostoevskij” senza citare l’omonimo saggio di George Steiner, forse l’analisi più completa della loro antitesi ideale, poetica e politica.

A Nori importa meno “venerare” Dostoevskij che avvicinarlo a noi: di qui anche il “taglio” poco epico e più “quotidiano” che dà ai momenti salienti della sua vita, dall’agonia della prima moglie alla morte del fratello Michail fino alla perniciosa ostinazione nel gioco d’azzardo tra Bad Homburg e Baden-Baden.

Tra le cose che Nori più vuole avvicinare c’è il senso della solitudine umana: la frase emblematica (anche in quarta di copertina) è “Io son poi da solo, e loro sono tutti”, tratta dalle Memorie del sottosuolo. E nel racconto che Sofja Kovalevskaja (futura grande matematica) offre del pomeriggio pietroburghese in cui Dostoevskij le preferì la sorella Anna (che poi comunque non avrebbe sposato), il clou sta nella frase conclusiva “Tutti erano felici, tutti si sentivano bene, tutti tranne me…”, significativamente obliterata da Citati nel proprio resoconto di quello stesso, memorabile pomeriggio.

Per Nori, la letteratura è una “seconda Gerusalemme”, è incompatibile con la serenità, e brechtianamente “sta sempre dalla parte del torto” (piacerebbe a Walter Siti?). Chissà cosa penserà di un libro uscito in Francia nel 2019, e da noi nel novembre scorso per Donzelli col titolo Dostoevskij.

Lo scrittore della mia vita: l’autrice, la grande filologa e filosofa Julia Kristeva, ripercorre anche lei il ruolo di Dostoevskij nella propria formazione di donna e di studiosa, e trova nelle sue “estenuanti polifonie” (così le definì Bachtin) la profezia dell’odierno “streaming di sms, blog e Facebook”, nei suoi femminicidi l’avatar dell’odierno sdoganamento di ogni crudeltà, nel “tutto è permesso” di Ivan Karamazov il prius di una Rete in cui “il romanticismo e il sarcasmo sostentano il marketing globalizzato”.

Un altro approccio, più politico e militante, all’eredità di un uomo e di un autore che, in modi diversi, non cessa di agitare il nostro futuro.