Fu il pretesto per condurre il detenuto “in una saletta senza arredi”. “Mi fecero spogliare, mi fecero togliere anche gli indumenti intimi – si legge nel racconto agli atti del processo – e in tre iniziarono a picchiarmi, a insultarmi e a farmi eseguire flessioni sulle gambe”.

Diversamente da quanto sta accadendo in questi giorni nell’ambito dell’inchiesta sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, le accuse relative ai fatti di “cella zero” non sono sostenute anche da filmati delle telecamere del circuito di videosorveglianza per cui il confronto tra accusa e difesa si fonda principalmente sulle testimonianze.

L’indagine, nata dalla denuncia dell’allora garante regionale dei detenuti Adriana Tocco e di “Carcere Possibile”, onlus della Camera penale di Napoli impegnata per la tutela dei diritti dei reclusi, fu lunga e complicata.

I pm conclusero la fase preliminare chiedendo il rinvio a giudizio per i dodici agenti e l’archiviazione per altri otto.

Cinque gli episodi di presunti pestaggi al cuore delle accuse.

Nel processo i capi di imputazione spaziano, a vario titolo, dall’abuso di potere nei confronti di persone detenute a maltrattamenti.

Una violenza con cui si sarebbero regolati i rapporti tra detenuti e guardie carcerarie, sguardi o parole di troppo.

Una violenza che mostra il lato più critico e fallimentare dell’istituzione carcere.