SI RUBA E SI UCCIDE SEMPRE PER SOLDI

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I pm di Mantova: “Ha evaso l’Iva, la Marcegaglia vada a processo”

I pm di Mantova: “Ha evaso l’Iva, la Marcegaglia vada a processo”

La pulizia e la depurazione dell’isola di Albarella finiscono sotto l’occhio della magistratura. Ed Emma Marcegaglia, che con il gruppo di famiglia da sempre controlla la gestione dell’isola vip sul Delta del Po, rischia il processo per evasione fiscale. La Procura di Mantova ha infatti chiesto il rinvio a giudizio per l’ex presidente di Confindustria, iscritta nel registro degli indagati con l’accusa di aver evaso l’Iva tra il 2015 e il 2018. Vicenda sulla quale la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate hanno puntato i riflettori. “E non hanno trovato alcuna irregolarità” sostiene l’avvocato Sergio Genovese, legale di Emma Marcegaglia.

Per la Procura guidata da Manuela Fasolato, però, c’e qualcosa che non torna. In particolare alcune fatture. Quelle che la Alba Tech srl con sede a Chioggia ha emesso nei confronti della società Albarella srl con sede a Gazoldo degli Ippoliti e che è direttamente riconducibile a Marcegaglia, che risulta essere la legale rappresentante.

Per chi indaga, la ex presidente di Confindustria, carica ricoperta dal 2008 al 2012, su quelle fatture avrebbe omesso di versare oltre 800mila euro di Iva. La Procura di Mantova ritiene che le fatture contestate siano relative ad operazioni inesistenti.

Nel mirino è finito un appalto del 2007 per i lavori di pulizia e depurazione dei 528 ettari di isola privata in provincia di Rovigo ed eseguiti dalla società Alba Tech srl che però, all’epoca della contestazione, non avrebbe avuto capitali, organizzazione, beni strumentali e autonomia gestionale. Insomma, una scatola vuota. Tramite l’appalto a questa società, la Albarella srl di Emma Marcegaglia avrebbe, secondo le ipotesi, ottenuto un notevole vantaggio economico. Perché pur avendo la possibilità e la disponibilità per assumere e pagare il personale, si è affidata alla Alba Tech che ha emesso fattura. Un’operazione che gli inquirenti inquadrano come un appalto simulato.

Per l’avvocato Sergio Genovese, però, a oggi Guardia di Finanza, Agenzia delle Entrate e anche l’ispettorato del lavoro per quanto riguarda i contratti degli operai che hanno pulito l’isola di Albarella, non avrebbero ravvisato irregolarità nell’appalto. E la difesa che tra pochi giorni sarà in aula per l’udienza preliminare è pronta, in caso di rinvio a giudizio dell’ex presidente di Confindustria, a scegliere la strada del processo in abbreviato.

Brunetta si prende l’Anticorruzione. E l’Anac protesta

Brunetta si prende l’Anticorruzione. E l’Anac protesta

Ben che vada si crea uno strano doppione, complicando la vigilanza dell’Autorità anticorruzione. Mal che vada, l’Anac sarà esautorata dal monitoraggio delle amministrazioni pubbliche. E siccome assai poco avviene per caso nei provvedimenti che accompagnano il Piano nazionale di ripresa (Pnrr), sembra che il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta, abbia messo a segno un discreto blitz: è successo nell’ultimo decreto, approvato venerdì, con le assunzioni straordinarie per gestire il Piano europeo. L’Anac è furente: “Dal governo arrivano preoccupanti passi indietro in materia di anticorruzione, se venissero confermate le bozze in circolazione, in un momento in cui massima dovrebbe essere l’attenzione verso la gestione trasparente delle risorse, anche per il rischio di infiltrazioni delle mafie”, ha attaccato ieri il presidente Giuseppe Busia. Al Fatto, Busia – nominato ad agosto 2020 dal governo giallorosa – rincara la dose: “Il governo così mette in piedi un sistema in cui il controllore è subordinato al controllato, un errore grave e un pessimo segnale in vista del Piano”.

Cosa è successo? Il diavolo, è noto, si annida nei dettagli. E stavolta all’articolo 6 del decreto, che peraltro con il Pnrr non c’entra nulla. La norma non compariva nelle bozze iniziali né ha fatto capolino nelle interlocuzioni avute con l’Anac. Cosa fa? La materia è complessa ma, in sostanza, rivede l’impianto che oggi stabilisce la redazione del piano di contrasto alla corruzione da parte delle amministrazioni statali.

Funziona così. Oggi l’Anac redige delle linee guida nazionali sulla base delle quali le amministrazioni redigono i piani attraverso un responsabile interno, che si interfaccia con l’Authority cui poi spetta il monitoraggio sia dei piani sia della loro attuazione. Il decreto di venerdì cambia tutto. Prevede che tutte le amministrazioni redigano, entro dicembre, un “Piano integrato di attività e organizzazione”. In quest’ultimo, che ha durata triennale, ci finisce un po’ di tutto, dagli “obiettivi programmatici” delle performance e del reclutamento, ai criteri per le “progressioni di carriera del personale”, dalla lista delle “procedure da semplificare” ai criteri per rispettare la “parità di genere”. Il Piano deve poi contenere anche “gli strumenti e le fasi per giungere alla piena trasparenza dell’attività e dell’organizzazione amministrativa nonché per raggiungere gli obiettivi in materia di anticorruzione”. E qui viene il punto.

In sostanza, in tema di anticorruzione, viene chiesto un doppione di quanto già avviene, solo che stavolta i piani vanno inviati al ministero della Funzione pubblica, a cui spetterà la vigilanza. Il ministero di Brunetta redigerà un “Piano tipo”, che servirà da schema per tutti (se ricorda le “linee guida” dell’Anac non è un caso). Che il sistema oggi controllato dall’Autohrity resti in vita è difficile crederlo, anche perché l’articolo affida poi a un Dpr il compito di eliminare “gli adempimenti assorbiti nel piano integrato”, tipo quelli oggi in capo ad Anac. Anche le sanzioni passano al ministero di Brunetta, che potrà punire i dirigenti inadempienti con gli strumenti tipici della Funzione pubblica, cioè “il divieto di erogazione della retribuzione di risultato”.

“In questo modo si passa dal controllo di un’autorità indipendente a quello di un ministero, che è gerarchicamente subordinato al governo – spiega Busia al Fatto –. Si fa la lotta alla corruzione con la minaccia di non erogare il premio di risultato: è insensato. I controlli li fanno dei dirigenti nominati dal ministro vanificando una normativa oggi apprezzata all’estero. Non abbiamo bisogno di continue modifiche normative, ma di dare forza alle norme in vigore. Abbiamo imprese deboli, a rischio di infiltrazione mafiosa e arriveranno molte risorse: la trasparenza va rafforzata, non indebolita”. L’articolo 6 non è l’unico a preoccupare l’Authority. Dal testo, per dire, è saltato il rafforzamento dell’organico chiesto dall’Anac: 32 persone da selezionare tra chi ha già superato un concorso. Il decreto raddoppia poi al 20% la quota di dirigenti esterni che possono essere assunti a chiamata diretta: “Si tratta di figure scelte dal vertice politico, e questo non aiuta a difendere la trasparenza e il merito nell’operato della P.A.”, conclude Busia. Il governo ieri ha replicato solo attraverso “fonti” anonime: “La norma non pregiudica alcuna competenza dell’Anac su indirizzo gestione e controllo anticorruzione, riunisce solo la maggior parte degli attuali piani, compreso quello anticorruzione”. Si vedrà.

Armatevi e partite

di Marco Travaglio | 6 GIUGNO 2021

 I nuovi 5Stelle di Conte somigliavano ormai alla comica che Mannelli ricorda qui accanto: quella di Stanlio e Ollio in partenza che salutano tutti (“Arrivedooorci! Arrivedooorci!”) e non partono mai. Ne risentivano i sondaggi, per quel che valgono in questa morta gora. Ma soprattutto ne risentiva la democrazia, casomai fregasse ancora a qualcuno, orfana del partito di maggioranza privo di un capo, una linea, una voce. Ad approfittarne sono stati Draghi, gli altri ministri e partiti, passeggiando per 100 giorni sul cadavere dei 5Stelle. Si sono appropriati – come il cuculo che s’imbuca nel nido altrui, come il paguro bernardo che occupa la conchiglia altrui – delle migliori conquiste del Conte-2 (dal Pnrr alle misure anti-Covid, dall’avvio della campagna vaccinale all’assegno unico per i figli) come fossero roba loro. E altre le hanno smantellate: reddito minimo, blocco delle trivelle e dei fondi all’idrogeno blu, lotta all’evasione (un bel condono), 16 mila assunti nei tribunali, riforma del Csm. Che, nella versione Bonafede, vietava il rientro dei magistrati reduci dalla politica; ora, nella versione Cartabia, chi fa politica può tornare allegramente in toga dopo due anni (sai che paura). E tocca pure leggere su Rep: “Stretta sulle toghe in politica. Cartabia e il freno alle porte girevoli”. Sì, il freno della funivia di Stresa.

Un giorno, com’è già avvenuto col governo Monti, guarderemo indietro e rideremo di quanto fossero sopravvalutati i “migliori”: almeno quanto erano sottovalutati i “peggiori”. E quel giorno arriverà se e quando Conte, dopo l’accordo di divorzio da Casaleggio, riuscirà a dare forma e contenuti ai nuovi 5Stelle. Che, com’è già avvenuto col Pd di Zinga e con Leu, potranno contaminare in positivo anche gli alleati. Si spera in tempo per correggere la rotta del governo (che intanto sta demolendo pure i controlli anticorruzione affidandoli – non è una barzelletta – a Brunetta). E si spera in tempo per le elezioni, che al momento sono un cappotto assicurato delle destre: Lega e FdI sono in testa ai sondaggi, con tanti saluti a chi raccontava la favoletta che Draghi avrebbe seppellito il “populismo”. Non sappiamo se Conte, che da neofita ha offerto buone prove come premier, sarà all’altezza anche alla guida del M5S: come leader politico è ancora tutto da scoprire. Ma all’orizzonte non si vede nessuno che possa riuscirci meglio di lui. E, se qualche capetto o caperonzolo grillino pensa di presentargli il conto raccattando truppe mastellate per farsi le proprie correntine, non condannerà all’estinzione soltanto se stesso, ma anche i 5Stelle e – ciò che più conta – la speranza di molti italiani di non morire melonian-salviniani. Magari con B., o quel che ne resta, presidente della Repubblica.

 

Strage di Bologna, il conto di Gelli. Così ha usato 15 milioni di dollari

Strage di Bologna, il conto di Gelli. Così ha usato 15 milioni di dollari

Come un diligente ragioniere di provincia, Licio Gelli teneva il suo documento più segreto accuratamente ripiegato nel portafoglio. Il Maestro Venerabile, volonteroso funzionario dell’eversione, aveva scritto su un foglio a quadretti, in parte a macchina e in parte a mano, in stampatello, una misteriosa contabilità divisa in nove colonne: data, motivo, importo, conto, note, e poi ancora data, note, importo. Ripiegato in tre, ha l’aria di quei libretti che i bambini fabbricano per gioco. Ma qui il gioco è pericoloso. Sulla copertina, il titolo è scritto a macchina a lettere maiuscole: “BOLOGNA-525779-XS”.

Questo libretto così infantile e così terribile – secondo la Procura generale bolognese – racconta i flussi dei soldi con cui Gelli ha finanziato la strage del 2 agosto 1980. Il “Documento Bologna” è stato per quarant’anni una prova dimenticata. Invisibile, come la “lettera rubata” di Edgar Allan Poe che nessuno vedeva eppure era ben esibita sopra il caminetto. A trovarla – anzi, ri-trovarla – è il sostituto procuratore generale Nicola Proto, che con il collega Umberto Palma e l’avvocato generale Alberto Candi l’ha scovata, ingiallita dal tempo, nell’Archivio di Stato di Milano, conservata insieme a centinaia di altri documenti del processo sul Banco Ambrosiano.

La stele di Rosetta e la finta corruzione del giudice

Era stata estratta dal portafoglio di Gelli dopo il suo arresto a Ginevra, il 13 settembre 1982, e sequestrata dalle autorità svizzere. Per quattro anni era rimasta negli archivi elvetici e mandata in Italia il 16 luglio 1986, consegnata al giudice istruttore che stava indagando sul dissesto dell’Ambrosiano, Antonio Pizzi. Contrassegnata con il numero 27, è subito definita documento di “particolare interesse”. Eppure non si riesce a capirne il senso: “Bologna… non si riesce allo stato a dare un significato ben preciso”. A Gelli non vengono mai fatte le domande giuste. Adesso i magistrati bolognesi ritengono di aver interamente decifrato la stele di Rosetta della strage. Il numero 525779-XS indica un conto svizzero di Licio Gelli aperto presso l’Ubs. La denominazione “BOLOGNA” indica che lì è raccontata la storia dei soldi che finanziano la strage. Il documento allinea due flussi di denaro: il primo è chiamato “Dif. Mi” e si articola in sette operazioni bancarie tra il 3 settembre 1980 e il 15 febbraio 1981 per un totale di 10 milioni di dollari; il secondo è “Dif. Roma”, un flusso di 5 milioni di dollari che si muovono nei primi mesi del 1981. Che cosa significano “Dif. Mi” e “Dif. Roma”? E qui la storia si fa appassionante. Significano “Difesa Milano” e “Difesa Roma”. A Milano Calvi era indagato per violazioni valutarie, a Roma per concorso in bancarotta nel crac del gruppo Genghini. Il gatto e la volpe, Gelli e il suo compare Umberto Ortolani, riescono a convincere Calvi che grazie ai loro rapporti di loggia lo faranno prosciogliere, sia a Roma, sia a Milano. Ma le due operazioni hanno un costo: 10 milioni quella di Milano, 5 quella di Roma. Così il povero ragiunatt diventato padre-padrone dell’Ambrosiano risucchia 15 milioni di dollari dal Banco Ambrosiano Andino e li affida al gatto e alla volpe, che non li usano però per corrompere i giudici, come promesso, ma per finanziare se stessi e gli uomini della strage. A “UL” (cioè Umberto e Licio) vanno il 20% di “Difesa Milano” e il 30% di “Difesa Roma”: è la mediazione sul millantato credito, in cambio di una corruzione dei giudici solo promessa. È uno spettacolo di arte varia quello che il gatto e la volpe mettono in scena per convincere Calvi che stanno lavorando per lui: gli mostrano perfino una ricevuta bancaria per Ugo Ziletti, allora vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Tutto finto. Non pensano affatto ai guai giudiziari del ragiunatt. Hanno di peggio da fare. Il denaro comincia a correre. Parte il flipper. Il 22 agosto 1980, i 10 milioni della “Difesa Milano” transitano dall’Andino alla società Nordeurope, poi si dividono, metà alla Noè 2 e metà alla Elia 7 (due società di Ortolani), per ricongiungersi nel conto Ubs 596757 di Gelli. A settembre passano in tre conti Ubs: Bukada, Tortuga e il fatidico 525779-XS. I primi due sono di Marco Ceruti, fido braccio destro finanziario di Gelli e suo prestanome bancario; il terzo è di Gelli in persona. È il “conto Bologna”. Nel settembre 1981 altri milioni partono dall’Andino, passano per Bellatrix, arrivano a Antonino 13 (conto di Ortolani) e finiscono a Bukada (di Ceruti). Ora arriva il bello. I magistrati bolognesi e gli uomini della Guardia di finanza guidati dal capitano Cataldo Sgarangella vedono che i soldi di Calvi cominciano a muoversi dal 22 agosto 1980. La strage è del 2 agosto. E sul “documento Bologna” c’è qualcosa che non quadra: ci sono 1.900.000 dollari segnati con “dare a saldo” (nella colonna “Motivo”) e con “restano 1.900.000” (nella colonna “Note”). Come si spiega? Lo fa capire un bigliettino sequestrato a Gelli il 17 marzo 1981 nel suo ufficio di Castiglion Fibocchi, insieme a tanti altri documenti e alle liste della loggia P2. Il bigliettino è scritto a mano. Vi si legge: “A M.C. consegnato contanti 5.000.000 – 1.000.000” e “dal 20.7.80 al 30.7.80”.

Quel filo fino a “Zaff”, il capo degli Affari riservati

Che cosa significa? “M.C.” è Marco Ceruti. Spiega in aula il capitano Sgarangella che c’era qualcosa di tanto urgente da costringere Gelli ad anticipare in contanti suoi, a luglio, quanto poi arriverà da Calvi e sarà recuperato solo a settembre, sul “conto Bologna”: il tesoretto per finanziare la strage. Un milione in contanti per gli stragisti tra il 20 e il 30 luglio 1980; più 850.000 per “Zaf” il 30 luglio; e 20.000 per “Tedeschi Artic”. Altri 4.000.000 affluiscono sui conti Bukada e Tortuga. Di questi, 340.000 vanno a Giorgio Di Nunzio – sostengono gli investigatori – per finanziare la strage. “Tedeschi” è Mario Tedeschi, allora parlamentare del Msi e direttore del Borghese, oggi accusato di essere uno dei mandanti, insieme a Gelli e insieme a “Zaff”, che riceve una bella fetta del denaro di Calvi: è “Zafferano”, ovvero Federico Umberto D’Amato, capo degli Affari riservati e gran gourmet noto per la sua incontenibile passione per lo zafferano e per i misteri neri d’Italia.

L’ultima pista: il banchiere sapeva di quella bomba?

L’ultima pista: il banchiere sapeva di quella bomba?

La bomba alla stazione di Bologna esplode la mattina del 2 agosto 1980. Il banchiere Roberto Calvi viene ucciso a Londra, appeso al ponte dei Frati neri, due anni dopo, la notte del 18 giugno 1982. Che correlazioni ci sono tra questi due eventi neri? Stanno tentando di rispondere i magistrati della Procura generale di Bologna, udienza dopo udienza, nell’ultimo processo sulla strage, con imputato (vivo) Paolo Bellini e con Licio Gelli, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi (morti) indicati come mandanti. “Una parte della nostra istruttoria”, ha anticipato in udienza il sostituto procuratore generale di Bologna Nicola Proto, “è relativa all’omicidio Calvi che, per come abbiamo accertato, è strettamente connesso con la strage”.

L’ipotesi d’accusa è che la strage sia stata finanziata con i soldi del Banco Ambrosiano sottratti a Calvi, come raccontato dal “Documento Bologna” (e spiegato nell’articolo qui a fianco). Ma c’è qualcosa di più, anticipano i magistrati bolognesi: “C’è la seria e concreta possibilità che Calvi sapesse di questa vicenda”. Ucciso dunque (anche) perché non parlasse di Gelli, dei neri e della strage?

Quello che è certo è che la Londra in cui Calvi compie il suo ultimo viaggio, in quei mesi è affollata di personaggi dell’estrema destra italiana. Ma ancor più curiosa è “la strana confluenza di soggetti a Londra in quei giorni”, dice Proto. C’è Flavio Carboni, che accompagna Calvi nella capitale britannica e lo sistema in un residence. In quello stesso residence, c’è una stanza affittata da Sergio Vaccari, antiquario italiano con base a Londra, che la mette a disposizione di alcuni suoi ospiti. In quei giorni, sulle rive del Tamigi ci sono anche Francesco Pazienza, che allora era il grande manovratore del Sismi (il servizio segreto militare) e il suo segretario Maurizio Mazzotta. Sia Carboni, sia Pazienza, sia Mazzotta in quelle ore telefonano in Italia, alla stessa persona: il prefetto-gourmet, Federico Umberto D’Amato, per anni potentissimo regista dell’Ufficio affari riservati (il servizio segreto civile). Queste connessioni inglesi saranno affrontate nelle prossime udienze del processo, quando l’accusa cercherà di tirare i fili che legano Calvi a personaggi della massoneria (Carboni e Gelli), dei servizi segreti (Pazienza e D’Amato), dei neofascisti italiani (tanti, in giro per Londra in quei mesi). L’antiquario Vaccari, secondo alcune fonti, fu l’ultimo a vedere Calvi vivo. Ora scopriamo che era in contatto con Giorgio Di Nunzio, che è considerato il primo beneficiario dei soldi che Gelli storna dal Banco Ambrosiano di Calvi e dirotta per finanziare la strage. A Londra, Vaccari si occupava di trovare sistemazioni per i latitanti di estrema destra in fuga dall’Italia. La sua agenda era zeppa di numeri di neofascisti italiani. Tra questi, Stefano Orlandini, che fu subito indagato per la strage di Bologna e subì una perquisizione subito dopo il 2 agosto.

Sulla morte di Calvi si è a lungo indagato, ma finora senza certezze definitive. È stata esclusa l’ipotesi iniziale del suicidio, ma non sono state ancora accertate le responsabilità di chi l’ha ucciso. Nel 2016 sono state archiviate le accuse a Gelli, Carboni e Pazienza. Di certo erano in molti ad avere interesse che il banchiere tacesse per sempre. I mafiosi di Cosa nostra che gli avevano affidato molto denaro che era andato perso nel crac dell’Ambrosiano. I personaggi del Vaticano che avevano collaborato con lui, con scarsa fortuna, a riciclare nello Ior i soldi delle sue banche. I vertici della P2 che lo avevano usato e depredato. Ora la Procura generale di Bologna aggiunge un ulteriore elemento: se Calvi sapeva dei finanziamenti di Gelli agli stragisti, era diventato un’ulteriore minaccia per il Venerabile, per il suo amico Federico Umberto D’Amato e per i neofascisti coinvolti. Disperato, in bancarotta, inseguito da un mandato di cattura, Calvi avrebbe potuto rivelare i tanti suoi segreti. Nelle prossime udienze del processo bolognese saranno resi pubblici i nuovi elementi raccolti dall’accusa. Intanto Pazienza ribadisce la sua linea. “Quando Gelli chiese di conoscermi, io gli risposi con una sola parola: vaffanculo. Non avevo niente da spartire con lui e lui sapeva che io ero un suo nemico. È vero che ero a Londra, dieci giorni prima della morte di Calvi, ma ci sono rimasto meno di 24 ore, solo per prendere il Concorde per New York. In precedenza avevo fatto il consulente di Calvi, per lui avevo scritto un memorandum nell’aprile 1981. Quanto a Federico Umberto D’Amato, lo sentivo spesso. Quando scoppiò lo scandalo P2, nella primavera 1981, mi chiese di aiutarlo a dar diventare il magistrato Domenico Sica capo del Sisde, il nuovo servizio segreto civile. Fu D’Amato a informarmi subito che Calvi era sparito”.



(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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