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MERCOLEDì 27 GENNAIO 2021…

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Dottor Mosca
di G. Cu.

Il Messaggero

Chi era davvero il dottor Carlo Mosca? Dipende dal periodo. Un medico competente e una persona premurosa, si legge nella sezione Opinione dei pazienti dell’ospedale di Montichiari di qualche anno fa. C’è la degente che, ingessata per una frattura, esprime la sua gratitudine: «Un sentito ringraziamento al dott. Carlo Mosca per l’assistenza, la sua gentilezza umana e il suo tatto che mi hanno rincuorata».
La vita professionale del dottore procedeva bene. Originario di Cremona, Mosca era approdato agli Spedali di Brescia prima come studente e poi come medico, lavorando da subito in pronto soccorso. Dopo un passaggio a Mantova, nel 2017 è entrato all’ospedale di Montichiari e assunto nel 2018. Ma è arrivato il Covid ed è cambiato tutto.
Mosca e i colleghi si sono trovati ad affrontare un’ondata inimmaginabile. La struttura, scrive il gip nell’ordinanza, «era sotto l’assedio della pandemia, tutto scarseggiava, dalle maschere e i caschi per l’ossigeno, ai macchinari più sofisticati per mantenere in vita i pazienti». Il primario e la sua équipe diventano gli angeli della prima ondata, gestiscono quasi 600 pazienti Covid.
E lui, in un’intervista al Corriere della Sera, raccontava che ogni giorno era una battaglia «per cercare di salvare più vite possibili». Così, tra turni saltati e videochiamate alla figlia di sette anni che gli chiede «papà, quando torni a casa?», si giunge a marzo. Il dottore perde la testa.
Il primo a rivelare l’abisso è un infermiere che lo denuncia e fa partire l’inchiesta. Riferisce di una telefonata di Mosca che gli ordina di somministrare a un paziente in serie difficoltà respiratorie due fiale di succinilcolina, ma lui si rifiuta e altrettanto fa il medico di turno la notte tra il 18 e il 19 marzo: senza intubazione, il malato sarebbe morto soffocato. A questi episodi ne seguono altri, fino ai quattro letali su cui indaga la procura che ha disposto la riesumazione delle salme: uno il 20 marzo, un altro il giorno successivo, due decessi il 22 marzo.
Per il giudice, «Mosca non poteva non sapere, in forza della sua specializzazione e delle sue competenze, che né il propofol né, a maggior ragione, la succinilcolina erano contemplati dai protocolli di sedazione in materia di terapia del dolore».
A questo punto la trasformazione del medico è completa: il compassionevole dottor Mosca entra in aperto conflitto con gli infermieri che si rifiutano di somministrare i farmaci, litigano con lui, «sono in disaccordo con i suoi disinvolti metodi» e lui fa da sé.
La mattina del 23 marzo, giorno successivo alla morte di Paletti, un infermiere scatta la foto di due fiale vuote di porpofol e succinilcolina nel cestino dei rifiuti speciali e quella notte nessun paziente è stato intubato: «Deve dedursene che si trattasse proprio dei resti dei preparati iniettati a Paletti, deceduto poche ore prima», rileva il giudice.
La situazione in reparto è fuori controllo. Riferisce un altro operatore sanitario: «Ho avuto una discussione con il dottor Mosca perché mi ha fatto capire che voleva accompagnare un malato al decesso». Ormai in ospedale è Mosca contro tutti. Quando scattano le convocazioni degli infermieri da parte dei carabinieri il primario si attiva per scoprire dove puntano le indagini, «avvicina membri del personale per concordare una versione di comodo della vicenda, istigandoli a dichiarare il falso». Una delle motivazioni delle esigenze cautelari è l’inquinamento probatorio, «vi è il concreto pericolo che induca gli infermieri e gli operatori sanitari a lui subordinati a ritrattare o a nascondere ulteriori particolari rilevanti ai fini dell’indagine».
E poi c’è concreto il rischio di reiterazione del reato. I primi mesi di pandemia hanno spezzato i nervi di Mosca. «A casa avevo una bambina di sette anni che il distacco l’ha sofferto. Nelle telefonate ha raccontato stanchezza e ansia emergevano, all’inizio c’erano anche degli sfoghi».
Il pensiero era sempre «all’ospedale, ai pazienti, al da farsi», tanto che al ritorno a casa a emergenza passata aveva spiegato che gli ronzava ancora nella testa il fischio dell’ossigeno delle tubazioni dei pazienti in terapia intensiva: «Lo sento ancora anche adesso che è tutto spento».
Con la seconda ondata in atto, l’equilibrio precario di Mosca era sul punto di spezzarsi di nuovo. Dalle ultime intercettazioni emerge infatti il ritratto del primario «come quello di un soggetto in preda a un forte stress, originato anche dal dover fronteggiare nuovamente il crescente afflusso di casi di Covid».

G. Cu.

Signora Emilia
di Fabio Poletti

La Stampa

La signora Emilia Paletti seduta su una sedia di plastica bianca di questo giardino un po’ sgarrupato sbocconcella al sole un panino. «Sono io la vedova dell’Angelo, ma i carabinieri mi hanno detto di non parlare». Mica facile stare zitta se l’Angelo se n’è andato da quasi un anno, era il 22 marzo. Se a maggio lo hanno tirato su dal camposanto per fargli l’autopsia. Se solo due giorni fa gli stessi carabinieri assai premurosi, le hanno detto che sì, proprio il suo Angelo era una delle due vittime di Carlo Angelo Mike Mosca, il primario del Pronto Soccorso dell’ospedale di Montichiari, accusato di aver ammazzato i pazienti nel pieno della pandemia «per liberare i letti in reparto».
La signora Emilia stretta nel piumino nero si avvicina ma non troppo al basso cancello marrone di questa casa bianca sulla provinciale che porta a Brescia. «Quando me lo hanno detto è come se il mio Angelo fosse morto un’altra volta». Rivivere quel giorno, si capisce che le è doloroso. Non farlo sarebbe pure peggio. «Angelo stava male, faceva fatica a respirare. Lo chiamavo “Angelo, Angelo” e nemmeno mi rispondeva. Ero spaventata. Non sapevo che fosse Covid. Ho chiamato l’ambulanza. Lo hanno portato all’ospedale di Montichiari. Non l’ho più mai visto nè sentito. Due ore dopo mi hanno telefonato dall’ospedale dicendo che era morto».
I consulenti anatomopatologi della Procura di Brescia durante l’autopsia effettuata a maggio, cioè due mesi dopo il decesso, hanno trovato nei resti del fegato di Angelo Paletti tracce di Propofol, un farmaco che si usa esclusivamente per preparare un paziente ad essere intubato. Scrive il giudice Angela Corvi nella sua ordinanza, citando i medici: «L’analisi della concentrazione nel sangue (nonché nella bile e nel tessuto polmonare ed epatico) portava i consulenti a concludere che la quantità somministrata fosse di 20 ml di un’emulsione a 20 mg e che il decesso si fosse verificato pochi minuti dopo».
Quando la signora Emilia mostra la foto del marito, incorniciata in un quadretto di argento quasi la accarezza: «Il mio Angelo non aveva niente. Era sano come un pesce. Certo non ce la faceva più ad andare nei campi in cascina. Ma chissà quanto ancora avremmo potuto vivere insieme. Anche adesso che eravamo vecchi me lo diceva sempre: “Ti amo come il primo giorno che ti ho vista”. Adesso lui non c’è più. Mia figlia e i miei nipoti stanno a Varese e io sono rimasta qui, da sola in questa grande casa».
A Isorella, un campanile, tre bar, due tabaccai, poco più di tremila abitanti, tra marzo e aprile ci sono stati 31 morti. Una strage, ricorda il sindaco Chiara Pavesi: «Ci conosciamo tutti. Angelo era uno dei morti. Il Covid è stato una dannazione, ma morire così no». Certo l’inchiesta della magistratura farà il suo corso, le prove contro il medico saranno ben soppesate, nessuno pensa che un caso così possa rimettere in discussione il sacrificio dei tanti medici e infermieri che hanno dato e danno l’anima.
Ma alla fine, nella sua semplicità, vale forse la considerazione apparentemente cinica della signora Emilia. Le parole le escono di getto, non è la legge del taglione, ma un pensiero forte che qualcuno potrebbe pure condividere. «Glielo darei io il veleno a quel medico matto. Anzi, poteva prenderlo lui se stava così male, se non sopportava più quello che vedeva ogni giorno in ospedale. Se stava male doveva uccidersi, prendere lui il veleno che ha dato a mio marito. Non doveva ammazzare altre persone, bastava che si ammazzasse lui e il mio Angelo era ancora qui».
Dell’inchiesta, dei carabinieri, di quello che succederà, la signora Emilia sa poco. Però ci sono cose che fa molta fatica a tenersi dentro: «Dopo che mi hanno telefonato per dirmi che Angelo era morto, quelli dell’ospedale di Montichiari non si sono fatti più sentire. Né quando lo hanno tirato su dalla tomba. Né adesso che si è scoperta questa cosa, nemmeno una telefonata mi hanno fatto».

Fabio Poletti

La sezione Stamattina è curata da Giorgio Dell’Arti, Luca D’Ammando e Jacopo Strapparava.

Processi
Attesa presso la Corte di cassazione, a Roma, la sentenza relativa all’omicidio di Lidia Macchi (20 anni), avvenuto il 5 gennaio 1987. Gabriele Moroni su Il Giorno: «La mattina del 7 gennaio 1987 una trentina di ragazzi sono raccolti davanti all’abitazione della famiglia Macchi, in via Ciro Menotti [a Varese – ndr]. I ragazzi di Comunione e liberazione si sono mobilitati per ritrovare una di loro. Si chiama Lidia Macchi, non ha ancora ventun anni, è iscritta al secondo anno di Giurisprudenza alla Cattolica di Milano. È capo scout, impegnata in Cl, in contatto epistolare con il fondatore don Luigi Giussani. Manca da casa dalla sera del 5 gennaio. […] Sono Roberto Bechis e Maria Pia Telmon a scoprire l’auto attorno alle 10, in un bosco alla periferia di Cittiglio, su una collinetta chiamata Sass Pinì. […] Il corpo di Lidia è disteso accanto all’auto. Coperto da un cartone. Martoriato da colpi di coltello sferrati con furia: se ne conteranno ventinove. Il viso rivolto a terra, i pugni stretti al petto. Contrariamente alle abitudini della morta i pantaloni alla zuava sono infilati negli stivaletti. I collant sono indossati al rovescio. Attorno poco sangue. Due piccole macchie sul sedile del passeggero, una sulla parte posteriore dei pantaloni. Chi ha ucciso Lidia Macchi? […] Trentaquattro anni di inutile rincorsa alla verità. Indagini senza esito. A seguire, anni silenti. Reperti distrutti o spariti nel nulla. Un sussulto nel gennaio 2016 con l’arresto di Stefano Binda, quasi cinquantenne di Brebbia, dove vive con la madre, la sorella, il nipote. Ragazzo di intelligenza sfavillante, laurea in Filosofia, un passato segnato dalla droga, Binda è stato per due anni compagno di Lidia al liceo classico e come lei militante di Cl. Finisce in carcere con l’accusa di essere il brutale assassino. Processi. Polemiche. Veleni. Il 24 aprile 2018 la Corte d’assise di Varese condanna Binda all’ergastolo. Nel luglio 2019 si va davanti alla prima Corte d’assise d’appello di Milano. L’avvocato Daniele Pizzi, parte civile per la madre e i due fratelli di Lidia, chiede la ricusazione dei giudici. Istanza non accolta. Il 24 luglio Stefano Binda è assolto con formula piena per non avere commesso il fatto. L’uomo di Brebbia torna libero dopo tre anni e mezzo. […] Nel suo ricorso il sostituto procuratore generale Gemma Gualdi saetta contro un “processo ingiusto, unidirezionalmente impostato e monocraticamente condotto”. Presentano ricorso (a fini solo civilistici) anche i legali della famiglia Macchi. Ultimo capitolo di una storia infinita. Forse».

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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