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Andreotti
di Miguel Gotor

la Repubblica

Giulio Andreotti iniziò a governare l’Italia in una fredda serata d’inverno, per la precisione alle ore 20.40 del 22 febbraio 1972, quando varcò per la prima volta come presidente del Consiglio – il passo svelto, le spalle ricurve – il portone di Palazzo Chigi. Aveva 53 anni e conosceva bene quelle stanze perché già nel 1947, a 28 anni, era stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio di Alcide De Gasperi. Eppure, egli raggiungeva quel traguardo in ritardo rispetto ai «due cavalli di razza» della Dc suoi rivali, Amintore Fanfani e Aldo Moro, che lo avevano tagliato al galoppo prima di lui, il primo nel 1954, a 44 anni, e il secondo nel 1963, a 47 anni.
Tuttavia, nei vent’anni successivi, Andreotti avrebbe recuperato il tempo perduto guidando l’Italia nel corso di ben sette governi nei periodi 1972-73, 1976-79 e 1989-92. Si sarebbe così collocato al primo posto, in coabitazione con il suo mentore De Gasperi, nella speciale classifica relativa al numero degli esecutivi presieduti e in seconda posizione, dopo Silvio Berlusconi, per la quantità di tempo trascorso sulla poltrona di presidente del Consiglio, per l’esattezza 2678 giorni, ossia per oltre sette anni.
Alla luce di questo lungo periodo alla testa dell’esecutivo è possibile individuare uno stile di governo tipico di Andreotti? Dopo aver lavorato sui verbali e le minute della presidenza del Consiglio dal 1972 al 1992, conservati presso l’Archivio centrale dello Stato, crediamo che si possa rispondere in modo affermativo a tale domanda.
Sul piano dei tempi, dei modi e delle forme di governo Andreotti ha presieduto 295 sedute del Consiglio dei ministri (saltandone appena tre, il 28 luglio 1989, il 21 giugno e l’11 luglio 1990). Solo una volta lo ha riunito fuori Roma, presso la prefettura di Milano, per decidere d’urgenza, il 1° dicembre 1989, un aumento dell’imposta di fabbricazione della benzina, mentre per 35 volte lo ha convocato a Palazzo Madama o a Montecitorio per consentire ai ministri di partecipare ai lavori parlamentari.
La frequenza delle sedute è aumentata con il tempo acconciandosi alla crescente complessità della macchina dello Stato: l’anno record è stato il 1990 con 53 sedute, mentre nel 1972 (con due esecutivi in rapida successione) furono appena 23.
La scelta dell’orario delle riunioni denota l’intenzione di Andreotti di organizzare le proprie giornate a prescindere dagli imprevisti della vita politica: egli governava prevalentemente a metà mattina, sovente prolungando i lavori fino all’ora di pranzo, mentre i pomeriggi erano il più delle volte dedicati alle relazioni istituzionali e politiche e alle presentazioni di libri. Invece, la prima parte della giornata, dall’alba fino alle 9.00, quella più spesso libera dalle feroci emicranie che lo hanno accompagnato per tutta la vita, era consacrata agli incontri riservati nel suo studio di piazza in Lucina. Diligentemente cronometrati dalla fida segretaria Vincenza Enea, sfilavano davanti al “Divo Giulio” militari e uomini dei servizi segreti, grand commisdel mondo della burocrazia, della finanza e dell’industria, diplomatici italiani e stranieri, dirigenti politici nazionali e locali, artisti e uomini di spettacolo, giornalisti, faccendieri e massoni come Licio Gelli.
In base alle minute superstiti le discussioni nelle riunioni di Palazzo Chigi erano minime: a quanto risulta, solo una volta, il 27 febbraio 1972, Andreotti fece mettere a verbale la preghiera che le “divergenze” sorte con Moro circa la data di indizione del referendum sul divorzio rimanessero «foro interno». Altrimenti il Consiglio dei ministri diretto da Andreotti – ma crediamo non solo con lui – appare soprattutto un luogo di ratifica e di coordinamento di decisioni prese altrove, in cui si celebra l’efficienza e la continuità della macchina dello Stato, intesa come apparato burocratico e amministrativo dei singoli ministeri, insieme con il ruolo determinante nel preparare e orientare le singole riunioni dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi. I fogli presenti negli incartamenti sono quasi sempre scritti su carta intestata del governo o dei singoli ministeri tranne una sola volta, in una riunione del 15 ottobre 1976, in cui fece capolino la pagina autografa di un block notes di Charlie Brown, il quale, abbracciato al suo inseparabile Snoopy, esclamava «sorridete» mentre i ministri erano impegnati a varare nuove norme anti-speculative per arginare la crisi economica in corso.
Sul piano della sostanza dell’azione di governo emergono dalle carte tre attitudini di fondo, al netto delle proverbiali massime che l’hanno accompagnata («il potere logora chi non ce l’ha», «meglio tirare a campare che tirare le cuoia») e dell’autocompiaciuta maschera di Belzebù.
La prima è una notevole attenzione per la politica estera, certamente l’ambito in cui egli ha dato il meglio di sé. Nel corso del cosiddetto «triennio andreottiano», tra il 1976 e il 1979, molte riunioni di governo cominciavano con ampie relazioni del ministro degli Esteri Arnaldo Forlani sulla situazione internazionale, spesso inframmezzate da sue puntuali considerazioni che le facevano somigliare a dei seminari. Ciò avveniva nello stesso periodo in cui la P2 toccava l’apice della sua influenza nel sistema di potere italiano, il terrorismo raggiungeva il culmine con il sequestro e la morte di Moro e Andreotti consolidava i suoi rapporti con il banchiere mafioso Michele Sindona e, attraverso gli esponenti della sua corrente siciliana Vito Ciancimino e Salvo Lima, con Cosa nostra, senza che il “volare alto” in politica estera rappresentasse una contraddizione.
La seconda attitudine è il rispetto per la burocrazia ministeriale e i suoi criteri di avanzamento interni. Governare, infatti, è soprattutto nominare. Centinaia e centinaia di promozioni in ogni ambito della vita del Paese, cui il presidente del Consiglio, come se fosse il capotreno di una gigantesca stazione ferroviaria o il direttore d’orchestra di una sterminata cavea di ambiziosi questuanti apponeva il suo placet, rimanendo apparentemente neutrale, se non addirittura indifferente. Prova ne sia che tra queste carte risulta conservata una sola raccomandazione, minutamente appuntata con uno spillo forse dalla sua stessa mano o da quella del sottosegretario ombra Franco Evangelisti: sarà stata certamente una malignità del caso, ma la segnalazione riguarda la nomina a consigliere dell’Enel di un uomo di fiducia di Moro e una mano ha lasciato vergato sul bigliettino da visita di accompagnamento che il nome era stato ricevuto ma «manca l’istanza».
Da quel momento in poi, infatti, le nomine e le promozioni vidimate dagli esecutivi guidati da Andreotti risulteranno all’apparenza anonime o al massimo affidate alle singole amministrazioni ministeriali. Solo una volta, il 6 settembre 1972, la mano all’apparenza ingenua di un burocrate del ministero degli Interni si lasciò sfuggire l’ovvietà poi sempre celata, che «su quelle proposte l’on. Presidente del Consiglio è stato preventivamente interpellato e ha dato il suo benestare».
La terza caratteristica di Andreotti come uomo di governo è l’attenzione per i tempi e la sovranità del Parlamento: dai verbali emergono continui ammonimenti ad ascoltare le forze politiche della maggioranza, ad attendere la decantazione dei problemi, a non abusare dei decreti legge, a impiegare il metodo della “concertazione” nelle relazioni sindacali, concetto che compare nella seduta del 14 novembre 1972. Nella riunione del 22 dicembre seguente affiorava, forse per la prima volta, la formula magica «salvo intese», destinata a un’ampia fortuna, da limitarsi però a quei pochi provvedimenti non “concertati” prima con i ministeri competenti.
Per Andreotti governare è soprattutto giocare di sponda e di rimessa con maggioranze fragili e traballanti, in cui la sua persona, al vertice di un insieme di forze eterogenee e minoritarie, diventa indispensabile. Non per realizzare grandi disegni, per loro natura impossibili, ma per navigare, un giorno dopo l’altro, in modo stabilmente provvisorio. In questo modo egli è riuscito a garantire un ordine del potere in cui ha rappresentato e incluso anche forze ed entità altrimenti impresentabili e ha avuto la capacità di incarnare, come nessuno mai, un tratto moderato e trasformistico dell’anima italiana, posizionandosi sempre all’incrocio tra due cesure, quella antifascista e quella anticomunista, senza mai appartenere sino in fondo a nessuna di esse.
Andreotti terminò la sua ultima riunione di governo alle ore 9.30 del 24 giugno 1992. Di certo, mentre si lasciava alle spalle il portone di Palazzo Chigi invaso dalla luce del sole, non poteva immaginare che, da lì a poco, sarebbe iniziata la lunga e drammatica stagione dei processi: aveva 73 anni compiuti – il passo ancora svelto, le spalle sempre più ricurve – e non vi avrebbe più fatto ritorno perché il potere logora soprattutto chi ce l’ha.

Miguel Gotor

(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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