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Attualità

RECENSIONE: La città dei vivi (Nicola Lagioia) di Alessandra – La lettrice controcorrente del 02/11/2020

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RECENSIONE: La città dei vivi (Nicola Lagioia) di Alessandra – La lettrice controcorrente del 02/11/2020

La trama

Nel marzo 2016, in un anonimo appartamento della periferia romana, due ragazzi di buona famiglia di nome Manuel Foffo e Marco Prato seviziano per ore un ragazzo piú giovane, Luca Varani, portandolo a morte

– Ossessione –

La città dei vivi di Nicola Lagioia (Einaudi) è un libro che si divora, nonostante la mole, in pochissimo tempo. Complice la scrittura calda e avvolgente di Lagioia e la storia, terrificante e tristemente coinvolgente.

Un delitto sconvolgente, più di altri, perché praticamente senza movente. Farò un po’ di fatica a raccontarvi questo romanzo, che romanzo non è, perché non vorrei dirvi troppo e al tempo stesso non vorrei lasciarvi insoddisfatti.

Ho sempre avuto una passione per la cronaca nera, lo so detta così è una frase bruttissima, tanto da non essermi persa  nemmeno una puntata di Blu Notte con Carlo Lucarelli. Certo, lì si parlava di misteri irrisolti, si facevano congetture, ipotesi. Ne La città dei vivi tutto sembra già certo: due ragazzi si chiudono in casa e fatti di cocaina ed alcool uccidono un altro ragazzo. Non ci sono piste da seguire, prove da analizzare per risalire ad un colpevole… eppure, paradossalmente nulla è chiaro in questa storia.

Manuel e Marco (che impressione chiamarli solo con il nome di battesimo come se fossero due personaggi qualunque di un libro) rovinano la propria vita senza alcun motivo. Ed in quel nulla che si inserisce la penna e la mente di Lagioia.

Attenzione, non sto dicendo che altri delitti siano giustificati ma riuscire a comprendere le cause che hanno portato qualcuno a mettere fine alla vita di un altro, non restituisce senso a un dramma ma almeno lo spiega.

Quando Manuel racconta al padre di aver ucciso una persona confessa anche di non sapere chi sia. Manuel non conosce nemmeno il nome di Luca ed è questo l’abisso in cui ci fa precipitare La città dei vivi.

La storia comincia con il sangue che cola in una biglietteria del Colosseo. Un inizio da film horror, ma qui non c’è nulla di inventato.  Nemmeno il perenne clima da indulgenza plenaria che aleggia nella capitale:

Il fatto è che a Roma ognuno fa come cazzo gli pare, pensai. I tifosi del Feyenoord entravano ubriachi nella fontana di Trevi e prendevano a bottigliate  la Barcaccia del Bernini, a Villa Borghese i vandali decapitavano le statue dei poeti, grandi buste di immondizia volavano da un palazzo all’altro, tutti pisciavano ovunque, un’indulgenza plenaria era nell’aria, e io stesso, che in un’altra città mi sarei fatto scoppiare la vescica, mi ero trovato più di una volta a inumidire le Mura Serviane.

Quando La città dei vivi si apre, su questo scenario oscuro che è Roma, il delitto è già stato commesso, lo scopriamo dalla bocca di Manuel che rompe un silenzio strano il giorno del funerale dello zio. Da lì Lagioia ricostruisce personalità e abitudini attraverso le voci di familiari, amici, e dagli interrogatori.

Mentre Manuel confessa, in un hotel poco distante, la voce di Dalidà a ripetizione riempie una stanza in disordine: è quella di Marco Prato che ha tentato il suicidio.

Due ragazzi così diversi e forse nemmeno amici, si sono riuniti per degradarsi fino ad annientare una vita.

Sono tre le famiglie distrutte per sempre per la follia di una notte. Lagioia fa parlare i genitori di vittima e carnefici e arriva a provare un sentimento bellissimo, eppure spaventoso, proprio mentre legge un post sul blog di Ledo Prato, il papà di Marco, dopo l’omicidio destinato a riempire la cronaca dei media per settimane:

Ledo Prato non menzionava mai direttamente suo figlio. L’unica volta in cui il nome di Marco compariva era per bocca di un amico di famiglia, il quale nominava nominava il ragazzo al solo scopo di esaltare le doti umane di suo padre. All’improvviso Marco Prato mi sembra la persona più sola del mondo. E, a testimonianza di quanto quella vicenda fosse un ginepraio indistricabilmente pieni di contraddizioni, il posto di Ledo Prato che tanto mi stava indispettendo produsse in me un sentimento di tipo opposto. Mi sorpresi a provare compassione verso un ragazzo accusato di un omicidio orrendo.

Ma non è questo ad avermi stupito o conquistato. In questo omicidio la vittima quasi scompare. Tutta l’attenzione è concentrata sugli assassini. La volontà di capire cosa li abbia spinti a uccidere, ma soprattutto a torturare per ore l’amico che avevano invitato a casa è un mistero, tanto da far scivolare in secondo piano la figura di Luca Varani.  Credo che questa sia l’ingiustizia più grande di tutta questa storia.

Particolari morbosi sulla vita di Marco, sregolata e sopra le righe, catturano l’interesse di tutti i media: dai giornali scandalistici ai Tg nazionali. Marco parlava di se stesso al femminile, vestiva da donna e aveva rapporti con Manuel che sembra più preoccupato di “passare per frocio” piuttosto che per pazzo assassino. E così anche io cado nell’errore e spendo più parole su questa coppia che su Luca.

Ci sono pagine dedicate alla ragazza di Luca, ai genitori, agli amici. Ma l’interesse per gli aguzzini è troppo forte. Volevo capire cosa li aveva spinti a far partire quella roulette russa di messaggi e chiamate. Varani ha accettato l’invito ed è stato ucciso. Chi ha rifiutato prima di lui, ha evitato un omicidio? Forse non lo sapremo mai.

Tapparelle abbassate, disordine, odore di chiuso e di morte. Bottiglie rovesciate, piatti sporchi e sangue. L’appartamento di Manuel è raccapricciante e quello che aleggia intorno è inquietante e preoccupante. Tanto da far scomodare il diavolo .

Male. Avevano a che fare ogni giorno con il male. Il colonnello disse che il male non era un concetto astratto, ma non bisognava immaginarlo neanche comune entità definita una volta per tutte. Il male era mobile, multiforme, e soprattutto contagioso. Più tempo gli stavi vicino, più rischiavi di cominciare ad agire secondo i suoi piani.

E quell’ossessione di Lagioia nel ricostruire il caso è la stessa di molti colleghi giornalisti che incrocia sulla strada.

Manuel aveva reso a suo padre una confessione pressoché completa, e Marco aveva addirittura tentato il suicidio. Ciò nonostante entrambi più che una colpa di tipo classico, sembravano puntare a un misterioso nesso causa-effetto. Era qui, pensavo, che il narratore tornava a metterci il suo zampino. Il riconoscimento delle proprie responsabilità in un’azione turpe stava diventando, sul piano emotivo, una prova insostenibile. Nessuno riusciva più a imputarsi una colpa, nessuno riconosceva se stesso la possibilità del male. Era il narcisismo di massa? Era la paura del biasimo sociale che trovava nella gogna il suo spettacolo preferito? Ai delinquenti consapevoli si sostituivano così gli assassini a propria insaputa, i bugiardi sinceri, i traditori fedeli, i ladri misericordiosi, i cialtroni responsabili. Non era più l’uomo che affonda il coltello sapendo ciò che fa, ma il  criminale che si sorprende a essere riconosciuto tale-  quando non se ne scandalizza – sebbene abbia fatto esattamente ciò che fanno da sempre quelli come lui. Quale speranza potevano avere Marco e Manuel di riconoscersi colpevoli – e di capire, di attraversare lo specchio oltre il quale avrebbero riconosciuto e infine Luca, la loro vittima?

E poi quella domanda. Quell’interrogativo che nessuno vuole porsi, perché ci identifichiamo sempre con le vittime e mai con i colpevoli.

La città dei vivi è…

Ossessione. Finché non l’ho finito, e lo ammetto anche dopo, ho continuato a pensare a questa storia. A queste storie. Alle vite distrutte, alla vittima che rimane in sordina, all’insensatezza, al male. Ho pensato anche a come deve essersi sentito il papà di Luca: mai una telefonata o una scusa da parte degli aguzzini e delle rispettive famiglie. Una vicenda in cui l’ingiustizia si autoalimenta senza fine.

La letteratura non giudica. Mostra, fa luce, pone domande, fa talvolta arrabbiare. Lagioia scrive oltre quattrocento pagine che a me sono sembrate quaranta. Racconta una storia fatta di dolore, di male, parla di sé, di cosa lo accomuna a Manuel, Marco e Luca, e cosa lo divide da loro.

Quello che avevo cercato disperatamente ne L’avversario di Carrère, qui l’ho trovato. I tratti psicologici di tutti i protagonisti e di chi ruota loro attorno e uno sfondo oscuro e accattivante. Una Roma ingovernabile e nonostante tutto bellissima nella sua degradazione. Un autore che si mette in gioco tra le righe e verso la fine anche esplicitamente.

Adesso non resta che lasciare andare La città dei vivi, voltare la testa da un’altra parte e aspettare che, forse inconsciamente, tutti i tasselli trovino la loro collocazione.

La violenza de La città dei vivi mi ha fatto pensare anche a un altro fatto di cronaca recente: Willy Monteiro Duarte ucciso mentre difendeva un amico. Una scarica di colpi ingiustificata su un ragazzino, la violenza per la violenza, così quasi per gioco. Spaventoso.

La città dei vivi è consigliato per chi ama la cronaca nera, per chi ricorda questo delitto, per chi non l’ha mai seguito. Questo è un ottimo libro ed è anche il mio primo incontro con Lagioia, non sarà l’ultimo.

Nicola Lagioia è nato a Bari nel 1973. Con minimum fax ha pubblicato Tre sistemi per sbarazzarsi di Tolstoj (2001), e con Einaudi Occidente per principianti (Supercoralli 2004), Riportando tutto a casa (ultima edizione ET Scrittori 2017; Premio Viareggio-Rèpaci, Premio Vittorini, Premio Volponi), La ferocia (Supercoralli 2014, Super ET 2016; Premio Strega 2015) e La città dei vivi (Supercoralli 2020)



(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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