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Attualità

Intervista agli esperti/la parola a Carmine Pinto: Orbán e il delicato equilibrio europeo

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In seguito alle polemiche suscitate dalle dichiarazioni di Giorgia Meloni, secondo la quale Orbán in Ungheria non sta sta adottando misure diverse da Quelle di Conte in Italia, abbiamo voluto intervistare Carmine Pinto, professore ordinario di storia contemporanea presso l’Università degli studi di Salerno, per saper un po’ di più sulla figura del premier ungherese ,che ha raccolto tanta acclamazione tra i sovranisti, più che entrare in merito alle dichiarazioni della Meloni.


1)Professore, vuole sintetizzarci, per un inquadramento storico-politico, il percorso di
Orbán prima del 1989?

Viktor Orban è nato nel 1963. Non aveva nessuno ruolo (se non le organizzazioni per ragazzini in cui i regimi totalitari inquadravano i più giovani). Orban ha conosciuto il declino della cupa dittatura comunista ungherese. Fu tra i primi studenti a poter uscire a studiare fuori dalla Cortina di ferro. Tornato in Ungheria, diventò il leader di uno dei più importanti movimenti giovanili anti comunisti, Fidesz, che si affermerà lentamente come forza politica liberale e progressista.

2)Quando il 16 giugno 1989 vengono celebrati i funerali di Imre Nagy, Victor Orbán, che l’anno prima aveva fondato un partito, pronuncia un discorso che ne segna l’ascesa. Cosa pensa di quel discorso?


Orban fu autore di un discorso che interpretava profondamento il vento del 1989: trionfo della democrazia liberale e dei diritti civili, con le radici, per l’Ungheria, ben piantate nella rivolta anti sovietica del 1956, incarnata simbolicamente proprio da Nagy*.

3) L’ Orbán di oggi è diverso da quello del 1989,ma anche da quello che verso la fine degli anni 90 voleva costruire un’Ungheria borghese sostenuta dalla nascente classe media. Come è l’Orban di Oggi?

 

Orban è primo ministro al quarto mandato. Interpreta un percorso periodo di lungo periodo, coincide con la definitiva uscita dal comunismo, l’inserimento dell’Ungheria nel sistema di difesa atlantico, l’aggancio all’Europa, le sfide della globalizzazione e della trasformazione degli equilibri internazionali. In sostanza ha gestito la grande transizione, poi un decennio di opposizione, infine è diventato l’uomo dell’Ungheria contemporanea. Una vittoria dopo l’altra, un consenso di massa, a cui si è opposta una opposizione sempre più convinta che Orban interpretava una deriva autoritaria. Anche oggi il suo successo resta ampio: è appoggiato da settori trasversali della società magiara, accademici, economici, politici, che vedono in lui l’uomo che ha restituito forza e ricchezza all’Ungheria. Allo stesso tempo ha catalizzato una opposizione radicale per le sue scelte di centralizzazione del potere e della forza, in realtà una critica  molto più forte in alcuni paesi europei, come l’Italia, che nella stessa Ungheria. Insomma Orban incarna la profonda dialettica e contraddizione dell’Europa del XXI secolo: nazionalismo e europeismo possono convivere? Come questo equilibrio uscirà dalla crisi? E lo stato di eccezione sarà temporaneo o avrà conseguenze di lungo periodo?

 

4) Cosa pensa dell’affermazione di Giorgia Meloni che, nel clima emergenziale che stiano vivendo, ha equiparato le misure adottate da Orbán in Ungheria a quelle di Conti in Italia?

 

Credo si riferisca al diffuso clima di azione determinato dalle reazioni spesso confuse e difficili all’epidemia, con l’utilizzo di uno stato di emergenza permanente.

 

5) Professore, come possiamo difenderci dai populismi. Non molto tempo fa, ho letto il testo di Stefano Feltri, “Populismo sovrano”, edito da Einaudi nel 2018, nel quale l’autore afferma che nessuno stato nazionale può salvarsi da solo dal populismo e che l’errore commesso fino a questo momento è stato quello di non attribuire alla sovranità condivisa (quella europea) una base di effettiva legittimità. Lei che ne pensa?

 

Penso che siamo già in una fase diversa. L’epidemia ha sconvolto in pochi mesi la realtà di ricchezza e scambi prodotta dalla globalizzazione negli ultimi trenta anni. Non sappiamo come e quando usciremo, quali saranno le conseguenze in Italia, in Europa e nel mondo, se saranno di corto o lungo periodo. Una doppia sfida si è esplicitata. Innanzitutto sul piano delle relazioni e delle narrazioni globali. Paesi come la Russia o la Cina si presentano come interpreti di autocrazie efficiente, capaci di scambiare libertà con sicurezza, oltre con che disegni di protagonismo globale. Le democrazie liberali, a partire dagli USA, sono apparse incerte e confuse, ma attente ai loro valori fondamentali.

Sarà l’uscita dalla crisi a verificare i risultati di questa narrazione solo iniziale. Le conseguenze sono anche interne alle democrazie. Nei nostri paesi si è accennata una ipotesi di un modello centralizzato-assistenziale, alternativo al liberalismo globale. Uno schema che può assumere i caratteri di tipo populistico, senza che siano esclusiva di un partito o di una coalizione. Di converso, il liberalismo potrà contrastarlo solo con una efficiente riforma dello stato sociale e la contestuale difesa del progetto universale di diritti dell’individuo. Non sappiamo come finirà, ma è un passaggio storico, per l’Italia e per l’Occidente democratico e liberale.

* Nota del giornalista: Il successore di Stalin, Nikita Kruscev, durante il XX Congresso del partito comunista sovietico ,tenutosi nel 1956, denunciò i metodi repressivi, il terrore e il culto della personalità di Stalin. La relazione di Kruscev gettò nello sconforto quanti pensavano che il comunismo potesse condurre a un sistema di giustizia sociale e portò alcuni paesi a sperare in un cambiamento radicale in nome della libertà. Fu così che nel 1956 in Polonia e in Ungheria il popolo scese in piazza contro il regime comunista. La Polonia riuscì ad ottenere delle riforme, ma in Ungheria, per la paura che il patto di Varsavia del 1955 potesse essere messo in discussione, il nuovo governo di Imre Nagy suscitò una violenta e immediata repressione da parte dei sovietici.

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