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Attualità

Memorie – Volume secondo, parte terza

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Memorie – Volume secondo, parte quarta

Certo di fare cosa gradita, LoSpeakersCorner.eu pubblica a puntate il secondo volume delle memorie di guerra del preside Sante Grillo, che durante il secondo conflitto mondiale, nel 1943, era in Siclia, Sottotenente del 454° Nucleo Antiparacadutisti.

Dedico questa mia piccola fatica ai miei cari lettori. Pochissimi, per la verità, ma non per questo meno cari e a … coloro che sono oggetto del mio affetto anche se non non tutti, oggi, possono percepirne il calore in questa nostra dimensione terrena.

                                                                         Sante Grillo

Campo di concentramento n° 127

L’indomani venne la pioggia. Fenomeno che non si verificava in quelle regioni da centinaia di anni ed invece cadde copiosa sulle nostre teste e sulle nostre spalle e, purtroppo, non avevamo niente che potesse ripararci. Poi venne qualcuno a portarci delle tendine da mettere insieme per ogni quattro persone e così di gran furia potemmo potemmo riparare almeno le nostre teste.

Ci accorgemmo poi che l’acqua scorreva copiosa al di sotto dei nostri corpi e così dovemmo correre ancora una volta fuori sotto una doccia battente per scavare intorno alla tenda un solco che impedisse alla pioggia di penetrare subdolamente. Quando finimmo, avemmo finalmente la possibilità di conoscerci mentre le gocce pesanti della pioggia scrosciavano sul tessuto del nostro riparo. Eravamo come pulcini bagnati e non certo di buon umore. Tirammo fuori dalle sacche quanto ancora era rimasto all’asciutto e cercammo di cambiarci per quello che ognuno di noi poteva.

Ci scambiammo racconti, umori, opinioni. Un sottotenente ancora più giovane di me – io avevo appena ventitré anni – divideva con noi la tendina e raccontò come, appartenendo alla Divisione Folgore, fosse stato paracadutato, in un estremo tentativo di difesa, nella piana di Catania per cercare di diminuire la tremenda pressione che le truppe dell’ottava armata inglese esercitavano per aprirsi la strada verso Messina. Era straordinariamente commosso perché sentiva nel cuore tutta la delusione che l’impresa fallita aveva creato nella sua mente.

Il lancio, preparato con molta approssimazione, aveva fatto sì che i paracadutisti non fossero riusciti ad adunarsi in gruppi numerosi per costituire un valido appoggio. Infatti solo qualche coppia riuscì a costituirsi, per altro braccata dalle truppe alleate come da segugi famelici. Fu una fortuna per loro, che una volta individuati in aria non fossero divenuti oggetto di facile bersaglio. Lo sfortunato collega si sentiva straordinariamente mortificato per essere stato catturato quando ancora cercava di liberarsi dal paracadute. Ed ora era con noi lì, sinceramente amareggiato per essere prigioniero di guerra e per non essere morto di una morte che egli stesso giudicava eroica ma che noi tutti compagni di tenda, dopo le esperienze vissute, pensavamo sarebbe stata assolutamente inutile se si fosse disgraziatamente verificata.

La giornata successiva si mostrò splendente e così potemmo sciorinare al sole tutti i nostri stracci. Intanto militari italiani alzavano in fila perfettamente ordinata tende piramidali che avrebbero dovuto accogliere tutti coloro, ed erano moltissimi, che il giorno prima avevano subito il tremendo nubifragio. Non so se per ordine ricevuto o per qualche altro motivo che non mi era dato di comprendere nessuno dei militari rivolse a noi lo sguardo, come se noi ufficiali facessimo parte di una categoria di appestati.

Se avessi voluto approfondire forse avrei potuto spiegarmi la vicenda con il distacco che avevamo creato nel diretto contatto con gli inferiori, scavando un solco di incomprensione reciproca, che con ogni probabilità si era tramutato in rancore. Forse ero nel giusto. ma io ne soffrivo perché fra me e i miei soldati non c’era stato mai un minimo distacco e conoscevo, perché me ne facevano confidenza, tutti i loro pensieri, tutte le loro preoccupazioni e tutte le vicende familiari che spesso li tenevano in apprensione

Quando entrammo nelle tende piramidali a gruppi di otto ci distribuimmo quattro da una parte e quattro dall’altra, posizionandoci a caso, segnando ciascuno il proprio posto collocandovi l’eterno nostro compagno, lo zaino. D’altra parte non c’era alcuna differenza se non per la vicinanza dell’entrata che però, durante la notte, sarebbe stata certamente chiusa. Qualcuno si procurò un recipiente che applicò diligentemente al palo centrale lo fornì di stoppini vi mise dentro una porzione di margarina e “inventò” la luce notturna, per nutrire la quale ci impegnammo di fornire a turno la nostra razione giornaliera che ci veniva fornita con molta parsimonia alla distribuzione del rancio.

Da un gran mucchio di scarpe legate a coppia dagli stessi legacci potei finalmente fornirmi di scarpe, rinunciando definitivamente alle mie che mostravano con la loro bocca spalancata una fame da leone. Potei con lo stesso metodo fornirmi di altri indumenti che però evidenziavano in modo molto marcato la scritta “Prisoner of war”: era proprio quello che sopportavo di meno ma non potevo più fare diversamente.

Ci fornirono anche due coperte di cui una aveva la perfetta marca italiana e con queste potei disporre di una copertura notturna più confacente alle necessità che si evidenziavano in maniera sostanziosa nella differenza di temperatura fra la notte, freddissima, ed il giorno, caldissimo.

Le cose cominciavano a prendere una piega abbastanza favorevole se non fosse stato per la fame che mi torceva le budella e la testa che ruotava vertiginosamente quando cercavo di alzarmi dalla posizione seduta, ormai era divenuta fissa proprio per quella debolezza che sentivo ogni giorno più consistente. Intanto, notte dopo notte, eravamo riusciti ad asciugare con il calore dei nostri corpi l’umidità del terreno. A questo punto fummo trasferiti in un’altra “gabbia”.

Gabbia n° 10

Per la verità non sono poi tanto sicuro che si trattasse della gabbia numero dieci o della gabbia numero nove. In effetti non è neppure tanto importante precisarlo, poiché le gabbie, innumerevoli, erano tutte uguali per cui sarebbe assolutamente inutile volerle descrivere tutte. Basta tratteggiarne soltanto una per sapere come erano fatte tutte le altre.

Si trattava di un grande rettangolo segnato perimetralmente da doppio reticolato, diviso in due parti di cui la prima, molto più piccola, serviva per tutti i servizi come la cucina, l’infermeria i campetti di giuoco come la palla a volo, la palla a canestro, separata dal resto del campo da un doppio reticolato con l’apertura di una grande cancello anch’esso di reticolato che consentiva l’entrata al campo vero e proprio che allineava tutte le tende del tipo piccolo come quelle in uso all’esercito tedesco.

In fondo si trovavano le latrine coperte e chiuse lateralmente costituite nella loro parte essenziale in grandi buche rettangolari chiuse da cassoni in legno con opportune aperture rotonde. Nel fossato sostanze chimiche per neutralizzare le materie biologiche.

Lateralmente vi erano grandi vasche con i rubinetti per lavare i panni e ancora più lateralmente le ghirbe per l’acqua potabile. Vi erano anche le docce ma risultavano poche e mal servite con acqua salmastra.

Le tende risultavano divise da un viale centrale che consentiva tutto il percorso ad autocarri anche molto grandi. Tutto intorno al riquadrato delle tende e alla distanza di due metri dallo steccato vero e proprio un solo filo spinato che segnava il limite entro cui noi potevano avvicinarci allo steccato.

Agli angoli completavano il desolato paesaggio le grandi torri per le sentinelle destinate a sorvegliare ogni nostro movimento: non potevamo assemblarci in numero maggiore di due e la notte l’oscurità era continuamente falciata da grandi fasci di luce che noi vedevamo trasparire persino dai teli delle nostre tende.

Le amicizie si facevano e si disfacevano con la massima naturalezza: non c’era affetto nelle convivenze forzate e non si andava mai al di là dei racconti delle nostre più recenti vicende belliche. Le famiglie, come per uno strano accordo, non erano mai menzionate ed in genere i discorsi vertevano sulle ricette di cucina che ciascuno di noi sognava durante la tormentata notte di quasi sonno.

Io mi sentivo sempre più solo e sempre più debole per la mancanza del cibo occorrente alle mie esigenze fisiche. Un metro e ottantacinque di altezza in un complesso fisico ventitreenne potevano ben dirsi assolutamente insoddisfatti da un mestolo di acqua tiepida con misture forse di verdure di cui non ho mai capito la composizione, una fetta di pane bianco talmente sottile da far vedere le persone in trasparenza, un mezzo cucchiaio di margarina che noi a turno trasferivamo per l’esigenza della luce notturna, un cucchiaio di legumi, spesso fagioli, e poi? Poi … amore e fantasia, soddisfatti dalla memoria delle ricette che ciascuno di noi con buona parte di umorismo portava sul desco del pranzo, della colazione e della cena.

Consumavo il tutto buttando i componenti insieme nella gavetta con l’aggiunta di un poco di acqua fresca per aumentarne le proporzioni e con l’ausilio della fetta di pane per rendere più consistente la paccottiglia. Cominciavo a mangiare soltanto quando, mescolando e mescolando, riuscivo ad amalgamare tutte le componenti del pranzo ed un cucchiaio dopo l’altro finivo con il pulire del tutto la gavetta che a quel punto non avrebbe avuto neppure il bisogno di essere lavata. Tutta questa perdita di tempo era in contrasto con l’esigenza di correre a lavare i recipienti sporchi e le posate appena usate. Se arrivavi per ultimo era molto difficile che potessi usare l’acqua pulita dove tanti altri avevano immerso e strofinato le loro “suppellettili”.

La realtà psicologica

Non era facile superare condizioni che io consideravo di completo isolamento pur essendo in mezzo a migliaia e migliaia di altre persone. Come prigioniero di guerra, ero indotto a sentirmi estraneo nei confronti di tutti coloro che mi circondavano e che rappresentavano una umanità eterogenea ed incapace di risolvere i propri problemi collegati all’esistenza. Era certamente impossibile risolvere i problemi miei al di fuori dei problemi degli altri, ma quando osservavo che proprio gli altri non riuscivano a determinare una linea di condotta approssimativamente valida mi sottraevo all’incontro e rimuginavo in me stesso pensieri tutt’altro che ottimistici.

Vedevo prevalere gli egoismi più sfacciati, sentivo la vacuità di determinate prese di posizione da parte di una minoranza sciocca ed inconcludente ed allora mi rintanavo sempre più in me stesso. Così si ingigantiva il desiderio del passato, la nostalgia dell’ordine, della capacità dell’organizzarsi, del sentirsi uomini pieni di giusta dignità affermandola anche con il sacrificio, se questo era necessario.

Tuttavia vi erano scene che a volte potevano definirsi sfiziose. Soprattutto nei primi tempi di quella nostra permanenza si verificava l’istituzione di una comunicazione spontanea senza fili fra una gabbia e l’altra separate da una ampia intercapedine.

Non appena si chiariva la luce del giorno ed il sole cominciava ad alzarsi sull’orizzonte si cominciavano a levare alti nel cielo i primi richiami fra i prigionieri di uno steccato verso l’altro e viceversa. «C’è Tizio nel tuo steccato?», si gridava da una parte e dall’altra si rispondeva con altrettanta vivacità: «Hai visto Caio?»                                                E così sì continuava e a mano a mano le voci si levavano più alte e poi più alte ancora perché si doveva superare il frastuono che, a poco a poco diveniva insostenibile. «Sei tu! Come mi fa piacere saperti vivo! lo sono Sempronio; ho saputo della tua prigionia per puro caso.»

Ma era un vero miracolo se si riusciva a sentire, perché ormai erano di più i «Grida più forte, non sento niente!» che gli stessi discorsi fatti di frasi spezzate dal gridare insieme, dall’alzare sempre di più la voce fino a farla divenire un urlo quasi inumano nella frenesia di trasmettersi cose importanti, cose che erano ritenute determinanti nella vita degli stessi prigionieri.

Si andava avanti in questo modo insistendo stupidamente tutti insieme finché il sole alto non ti stordiva e ti faceva desistere per sfinimento totale del fisico che fra l’altro era già debilitato dalla mancanza di cibo.

America o rimpatrio?

Ci si trasmettevano così le voci che provenivano da “radio latrina” e questo soltanto nelle primissime ore del giorno, quando ancora le voci non erano divenute urli ed erano soltanto in pochi a trasmettersi le novità. «Chi te lo ha detto?», «È sicuro ?» si sussurrava poi fra i prigionieri.

Erano notizie che oggi si confermavano e domani si smentivano sulle sorti di noi prigionieri che secondo “radio latrina” avremmo dovuto essere rimandati in patria o al contrario essere trasbordati all’altro capo del mondo, in America.

A volte le notizie prendevano corpo per la loro consistenza o per una verosimiglianza quasi tangibile. In quel caso le speranze andavano in cielo o si smorzavano in una delusione amara e dolorosa.

Le voci, che dico voci, gli urli si spegnevano con l’alzarsi del sole e con il sollevarsi di un pulviscolo che non riuscivo a capire di che cosa fosse fatto visto che polvere non se ne alzava anche per mancanza di qualsiasi tipo di movimento. Lo capii a mie spese quando in una notte insonne mi accorsi di essere invaso dai pidocchi.

L’infestazione era oramai al colmo : i peli del pube e delle ascelle erano brulicanti di esseri minuti e schifosi che come tanti funesti vampiri si buttavano a suggere gli ultimi residui di sangue. ll prurito mi frastornava e non sapevo più a che santo votarmi, visto che non c’era speranza che l’infestazione diminuisse, anche per il fatto che la mia tendina era proprio ubicata in vicinanza del reticolato e quindi quasi dentro la nuvola pestifera di insetti che il caldo portava in alto con il pulviscolo. Non potevo capacitarmi come la cosa potesse verificarsi ma, volente o nolente, la nuvola stava là gli insetti pure ed io in mezzo.

Ad un certo momento le cose si complicarono ulteriormente: gli Americani captarono l’esistenza di una radio posizionata con prontezza ed intelligenza fra le assi dei gabinetti e cosi le ispezioni da sporadiche diventarono esasperate alla ricerca di radio latrina.

Quando le ricerche non dettero alcun risultato i prigionieri furono costretti a radunarsi lontano dalle tende, si diceva per la conta, ma erano conte che non finivano mai per dare tempo alle perquisizioni nelle tende. Quando anche le perquisizioni non dettero alcun risultano cominciarono gli interrogatori separati con minacce ed allettamenti. Durante le cosiddette conte qualche prigioniero non resisteva oltre al martellare dei raggi solari e finiva per terra.

Vita molto grama nel campo 127

In genere accadeva ai più anziani di cadere in avanti come corpo morto. Solo allora i nostri aguzzini si ricordavano di avere esagerato e ci mandavano nelle tende. Era l’unico riparo che ci consentisse di ripararci dai raggi del sole e quando questo picchiava, e picchiava sempre, le tendine si surrìscaldavano e l’effetto sole si faceva sentire anche al di sotto del tenue riparo. In quei casi non c’era proprio rimedio e occorreva affidarsi a Dio per non essere vittima di un colpo di calore o di altra macchinazione africana.

L’escursione termica raggiungeva differenze che alle nostre latitudini erano impensabili se non in casi assolutamente straordinari. Se azzardavi a tirar fuori la testa dalla tendina nelle ore in cui il sole era allo zenit potevi osservare piccole trombe di aria che si sollevavano dal suolo senza che vi fosse un alito di vento percepibile. Erano certamente turbini di calore che vedevi succedersi interminabilmente che però non avevano effetti diversi da quelli dovuti alla grande calura che ti opprimeva e ti asfissiava, anche se fortunatamente, si era in assenza di grande umidità. Forse era questo che ci consentiva di sopravvivere.

Acqua per lavarsi ce n’era ben poca e quella stessa era comprensibilmente razionata. Quella potabile, poi, era distribuita nelle prime ore del giorno e chi arrivava a prenderla poteva bere, almeno per quelle 24 ore. Chi invece non faceva a tempo per un motivo qualsiasi aveva di che rimuginare, ma difficilmente avrebbe potuto rimediare un poco di acqua, visto che chi ce l’aveva se la teneva preziosamente in serbo. La questione era che i carri botte per il rifornimento delle ghirbe arrivavano all’improvviso e all’improvviso l’acqua si esauriva: perciò occorreva improvvisarsi sentinelle a tempo pieno per poter fare il rifornimento che naturalmente prendeva le proporzioni dalla capacità dei recipienti di cui potevi disporre.

lo potevo usufruire soltanto di una bottiglia. Era una bottiglia un poco più piccola di un litro che io, per poter mantenere fresca, avevo avvolto con un pezzo di coperta da campo ritagliata appositamente e cucita opportunamente intorno con un filo di spago. Lo scopo era raggiunto ma non potevo aumentarne il contenuto e pertanto permaneva il problema dell’insufficienza dell’acqua, problema gravissimo per me che avevo sempre sete, soprattutto in quel clima  torrido.

Per pulirci ci avevano distribuito una saponetta ogni quattro persone, che noi avevamo diligentemente divisa per evitare poi contestazioni contro chi ne avesse usufruito in più, anche involontariamente. Erano cose prevedibili, e saggiamente occorreva provvedervi in tempo, cioè prima che si verificassero inconvenienti come per altro accadeva ad ogni piè sospinto in diversissime altre occasioni.

Si viveva insomma sul filo del rasoio per lo stato di tensione che si respirava addirittura come l’aria surriscaldata dai furiosi raggi del sole. L’acqua per lavarci era raccolta in certi serbatoi abbastanza capienti e poi distribuita a mezzo rubinetti nei lavatoi e nelle docce che però funzionavano soltanto in determinati giorni e per brevissimo tempo per cui, come era prevedibile, se riuscivi a trovare un posto sotto la doccia dovevi sbrigarti e non perdere tempo ad insaponarti se non volevi correre il rischio di restare soltanto insaponato senza più la possibilità di sciacquarti. Insomma, era come accade per la coperta corta: se ti copri i piedi resti con la testa scoperta e viceversa se ti copri la testa, perciò se ti insaponavi bene non potevi sciacquarti se invece ti insaponavi appena occorreva ugualmente molta acqua perché era salmastra ed avevi di che sfregarti senza riuscire nell’intento.

A ricordarsene oggi sembra tutto naturale e fatto di piccole cose ma in quel clima fisico e psicologico erano problemi di difficile soluzione. Era comunque il problema della sopravvivenza che purtroppo poteva risolversi in tuo favore solo se lo facevi a scapito degli altri.

Così per ogni giorno trascorso l’egoismo ti si impiantava nell’animo e non se ne andava più, anzi, le occasioni ti davano la possibilità di accrescerlo ed ingigantirlo oltre ogni misura. Le azioni altruistiche divenivano ogni giorno più rare e suscitavano persino meraviglia nel constatare che non era stato distrutto del tutto e che ancora la sua fiammella esisteva. Un buon segno, questo che avrebbe dovuto far bene sperare, ma come sempre accade nelle cose la meraviglia si trasformava a poco a poco in incredulità e si finiva per credere che fosse più una forma di egoismo mascherato da altruismo per fregare ancora una volta il prossimo. Conclusioni pessimistiche è vero ma giustificate dalla pesante realtà dura e perversa.

(Fine terza parte del II volume)

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